Tempo di lettura: 19 minuti

aaaalogo-podemosIl secondo congresso di Podemos, fissato per l’11 e il 12 febbraio, in una sorta di catarsi interna ed esterna condensa tutti i dibattiti strategici del partito emersi bruscamente dopo la spaccatura nel suo gruppo dirigente nel marzo 2016. La frattura al vertice ha dato visibilità a discussioni che sino ad allora si erano manifestate solo in forma larvata e balbettante e/o erano state avviate esclusivamente per iniziativa delle minoranze critiche che da sempre s’erano opposte al modello di partito e alla strategia codificati nel primo congresso di Vistalegre nell’ottobre 2014.

In questo articolo ci occuperemo della natura delle opzioni interne in lizza (non tanto delle loro proposte concrete per il congresso, quanto delle loro posizioni politiche di fondo) e faremo un bilancio dal punto di vista organizzativo del modello di partito adottato a Vistalegre.

 

Le tre anime di Podemos

Nella molto mediatizzata marcia verso il secondo Vistalegre si possono vedere all’opera le tre anime di Podemos, personificate da Iglesias, Errejón e Anticapitalistas. Le due prime molto potenti; la terza tanto ridotta in fatto di potere istituzionale quanto consistente sul piano politico. Oltre a queste tre vi sono anche, indubitabilmente, altre sensibilità, ma meno cristallizzate e dal profilo più sfumato, senza un progetto molto definito o di consistenza solo locale o regionale.

Le correnti di Pablo Iglesias e di Íñigo Errejón hanno condiviso la leadership del progetto dai primi passi del gruppo fondatore, nel gennaio 2014 (quando emarginarono sbrigativamente Izquierda Anticapitalista, poi diventata Anticapitalistas) fino a quando, nel marzo 2016, sono arrivate alla rottura per via delle differenze tattiche sull’orientamento di Podemos dopo le elezioni legislative del 20 dicembre e, soprattutto, trovandosi nel bel mezzo di una crisi di fiducia dovuta a lotte di potere in seno all’apparato centrale che hanno soffocato il dibattito. Queste lotte di potere sono state il brodo di coltura da cui sono affiorate, all’improvviso, le divergenze, sino ad allora nascoste, o marginali, esistenti nel gruppo dirigente di Podemos.

Questa situazione aveva avuto un precedente nel dibattito avvenuto nella primavera del 2015 in seguito all’inattesa irruzione di un altro concorrente, Ciudadanos, quel neoliberale “Podemos di destra” che, per buona parte del 2015, avrebbe oscurato le prospettive della formazione morada [viola, colore del simbolo di Podemos]. Siluro contro ogni pretesa di “trasversalità”, l’improvvisa comparsa dei seguaci di Albert Rivera è stato il primo contrattempo dell’ipotesi strategica approvata a Vistalegre. Errejón aveva proposto allora una politica di attenta considerazione nei confronti del nuovo contendente che, in fondo, equivaleva a una specie di ciudadanizzazione relativa di Podemos, l’equivalente contrario della vampiresca podemizzazione relativa di Ciudadanos che il partito di Rivera intendeva allora effettuare, con l’obiettivo di cogliere al volo la spinta “podemista” per dirottarla verso un progetto neoliberale di rigenerazione democratica. Non senza esitazioni e altalenanze, passi avanti e passi indietro, Iglesias aveva finito con l’adottare una politica di scontro con Ciudadanos, denunciandone la funzione di stampella e/o pezzo di ricambio dei partiti del regime. È stata questa la prima discussione rilevante, il primo sussulto di dibattito strategico pubblico al vertice del partito, in seguito alla constatazione che la marcia trionfale verso la vittoria elettorale immaginata a Vistalegre incontrava ostacoli imprevisti. [1]

La spaccatura del gruppo dirigente nel marzo 2016 inaugura un periodo inedito di discussione semipubblica, ma con la militanza fondamentalmente nel ruolo di spettatrice, senza disporre di troppi canali interni per intervenirvi. Le due frazioni contrapposte cominciarono a riformulare parzialmente il progetto, avviando una certa autocritica, incompleta – costrettevi più dalle circostanze che da convinzione – della formula politico-organizzativa approvata a Vistalegre, con l’obiettivo di una sua maggiore democratizzazione. La principale conseguenza della spaccatura è stata una accettazione, di fatto, del dibattito interno e del pluralismo, nonostante che le forme di questo dibattito siano rimaste prigioniere della cultura politica e della dinamica organizzativa del modello di Vistalegre. Ciò ha comportato anche la regolamentazione della esistenza di Anticapitalistas e il progressivo riconoscimento pubblico da parte dello stesso Iglesias del ruolo che importanti dirigenti anticapitalistas avevano avuto nella nascita del progetto. La frattura nella direzione ha quasi dato il colpo di grazia alla versione falsificata della genesi di Podemos divulgata dopo le elezioni europee, nella quale Izquierda Anticapitalista era scomparsa (ciò che ricordava in forma farsesca purghe di sinistra memoria) e i componenti del gruppo dirigente avevano infiorettato il proprio contributo al progetto (con l’eccezione dello stesso Iglesias, la cui centralità nell’ideazione di Podemos è riconosciuta ed evidente) e la loro – retrospettiva – chiaroveggenza storica.

Iglesias incarna un populismo pragmatico-strumentale combinato con un eurocomunismo impaziente e accelerato (che però a differenza dell’originale non teme una vittoria elettorale). Cerca di combinare una retorica plebea contestatrice con una prospettiva governativa moderata, il cui riferimento più evidente è il compromesso storico di Berlinguer. L’accettazione acritica dell’insegnamento berlingueriano unito all’assenza di un qualunque bilancio dell’esperienza di Syriza sintetizzano le aporie strategiche del suo progetto. Tra il compromesso storico berlingueriano e la capitolazione storica di Tsipras può esserci una sottilissima linea rossa. In un certo senso la proposta di Iglesias è opposizione dura e ragione di Stato quando si è al governo [punch en la oposición y razón de Estado en el gobierno]. E cioè: conserva gran parte della prospettiva strategica sostenuta negli ultimi due anni, ma è anche giunto alla conclusione che la forza di Podemos risiede nella sua capacità di apparire una forza contestatrice dell’establishment e che una sua normalizzazione finirebbe col comportare una smobilitazione e una disaffezione nella sua base sociale potenziale, che si trova più negli strati popolari e e fra i lavoratori che non nelle classi medie.

L’asse del lavoro politico nella proposta di Iglesias continua a essere il quadro elettorale-istituzionale ma, a differenza delle teorizzazioni di Vistalegre in cui la lotta sociale era assente, ora questa ha un ruolo reale nello schema, anche se secondario, a mo’ di complemento dell’attività elettorale-istituzionale. La retorica contestatrice di Iglesias e i suoi riferimenti alla “lotta”, per quanto depotenziati quando li si inserisce in una prospettiva di “compromesso storico”, hanno contribuito senza dubbio a favorire dentro Podemos un clima di dibattito più favorevole alle proposte radicali, attiviste e di movimento. Improvvisamente coloro che propugnavano un orizzonte che andasse oltre la triade elezioni-lavoro istituzionale-comunicazione hanno sentito come anche il segretario generale di Podemos cominciasse a suonare in parte questa musica. Un prezioso mutamento di “atmosfera”.

Il progetto di Íñigo Errejón, che potremmo definire populismo costruttivista profondo, rappresenta la normalizzazione permanente di Podemos e un tentativo di omologarlo politicamente, facendolo portatore di una proposta di cambiamento tranquillo – il cui contenuto reale dista molto poco da quello di una sostituzione dei vecchi partiti in via di esaurimento e cerca di incarnare le aspirazioni generazionali sia di una gioventù frustrata e schiacciata dalla crisi sia della popolazione di media età che non vuol rassegnarsi all’alternanza PP-PSOE.

Dietro la sua idea-forza della “trasversalità” si nasconde un progetto orientato in modo particolare alle classi medie, pur se con una retorica postclassista, con un’enfasi speciale sulla meritocrazia e su una transizione graduale verso un migliore avvenire, come si trattasse di un avvicendamento naturale. La preoccupazione per la trasversalità propria di Errejón e di chi ne condivide le idee ha oscillato fra una discussione reale e seria su come costruire un nuovo blocco maggioritario e su come aggregare gruppi e settori sociali diversi, e un mero alibi per neutralizzare ogni spinta rupturista presente in Podemos all’interno di un progetto sempre più superficiale nelle sue proposte. In questo modo il suo obiettivo diventa un centro politico-sociale amorfo, costruito politicamente come l’asse gravitazionale del “noi” e del “popolo”. L’enfasi posta su “quelli che mancano” [2], sempre giustificata per la necessità di raggiungere quei settori non ancora convinti della capacità di Podemos di governare lo Stato spagnolo, ha un difetto fondamentale: dà per scontata la lealtà di coloro che già “ci sono”, senza sospettare che il prezzo da pagare per attrarre “quelli che mancano” può essere quello di perdere parte dei primi.

Lo schema di Errejón consiste in un discorso polarizzante fra un “noi” poco determinato, costruito grazie a una narrazione facilmente accettabile rivolta a un settore sociale intermedio e poco politicizzato, e un “loro” fortemente caratterizzato [3]. La complessità di questa operazione sta nel fatto che il carattere “poco determinato” del “noi” e il discorso moderato sul quale si basa – nonostante sia accompagnato da una forte carica simbolica, emotiva e identitaria – rende alla lunga difficile la stessa operazione di polarizzazione, soprattutto quando questa si affida fondamentalmente allo strumento discorsivo ed è scollegata da qualunque attività sociale mobilitatrice che generi un clima propizio alla divisione “loro/noi”. Detto in altri termini: polarizzare con un discorso superficiale è più complesso che farlo con una argomentazione contestatrice, e polarizzare a partire dalla passività sociale è più difficile che farlo a partire da una dinamica di mobilitazione.

Errejón ha sempre negato che la sua concezione strategica fosse assimilabile a quella dei catch-all parties [partiti pigliatutto] convenzionali, sostenendo che la sua proposta politicizza, suscita le passioni ed esalta la frontiera “noi-loro”, mentre quei partiti si basano sul marketing spoliticizzante e banalizzante [4]. In realtà, più che di un modello contrapposto a quelli del catch-all mainstream, la proposta di Errejón rappresenta una specie di populismo costruttivista pigliatutto, e conduce a un risultato finale simile ai loro, ma partendo da altre basi, ciò che comporta pertanto un itinerario e un metodo diversi. Il punto di partenza del Podemos di Errejón non è lo stesso di quello del PSOE o di Ciudadanos. Di conseguenza, non lo è nemmeno il modo realizzare una maggioranza di governo. Però il punto di arrivo è simile. I tradizionali partiti catch-all sono forze che cercano di ampliare la propria base sociale ed elettorale per sconfiggere l’avversario. La logica “pigliatutto” del populismo discorsivo di Errejón ha invece, nello stesso tempo, la doppia funzione di un ampliamento della base sociale ed elettorale e di una normalizzazione e omologazione (se non assoluta, quanto meno sostanziale) del partito.

Di fronte all’evidenza dei limiti del modello della “macchina da guerra elettorale” e alla necessità di elaborare una prospettiva di medio e lungo periodo la proposta errejoniana è quella di passare a una fase di “movimento popolare”, dove questo è inteso soprattutto in termini di un lavoro culturale e sociale complementare di quello elettorale [5]. Il passaggio a questa nuova tappa, nella quale la metafora della guerra lampo è sostituita da quella dell’assedio, si sintetizza in quattro obiettivi: dinamizzazione del tessuto sociale, culturale e ricreativo; costruzione di una forte identità simbolica culturale; formazione di quadri e tecnici; radicamento territoriale e inserimento sociale mediante il rafforzamento dei circoli [6]. La debolezza di questo approccio è duplice. Innanzi tutto, la sua realizzazione è resa difficile dal tempo sprecato a causa dell’adozione del modello della macchina da guerra elettorale nel 2014, che portò alla perdita di molti militanti che ora dovrebbero radicarsi nel territorio, che svuotò i circoli che ora dovrebbero rapportarsi quotidianamente con la società e che diffuse sfiducia in una società civile organizzata con la quale ora si dovrebbe lavorare assieme. In secondo luogo, nel passaggio fra l’antica macchina da guerra elettorale e il nuovo movimento popolare non si assegna alcun ruolo alla mobilitazione sociale (per non parlare dell’autorganizzazione). Si evidenzia qui una delle fondamentali inconsistenze strategiche del pensiero politico di Errejón: se da un lato analizza correttamente il significato [della mobilitazione degli Indignados] del 15 maggio, con le prospettive politiche che inaugurò, dall’altro non inserisce nel suo orizzonte la necessità di una nuova spinta sociale, di qualcosa d’altro equivalente al 15 maggio e alle Mareas contro l’austerità, di un rilancio delle lotte sociali, per poter completare la rottura definitiva del sistema politico tradizionale [7]. La prospettiva errejoniana non esclude il conflitto: lo parassita. Il conflitto reale, le brecce aperte dalle mobilitazioni, vengono cavalcate ricorrendo a una polarizzazione verbale artificiosa che non ha corrispondenza con il contenuto reale della sua proposta di (ri)cambio. Il conflitto è concepito in termini essenzialmente verbali, mediatici ed elettorali, senza preoccuparsi della sua costruzione politicizzata nel sociale, nel quartiere, nel territorio e nel luogo di produzione.

Il risultato finale del riorientamento proposto per la nuova tappa è un mutamento dei compiti e degli assi d’intervento, in vista di una battaglia di più lunga durata, con però la conferma del processo di normalizzazione politica di Podemos deciso a Vistalegre e la accelerata autoriduzione delle sue ambizioni di cambiamento sociale e politico. L’ansia di conseguire una vittoria elettorale è proporzionale alla scarsa consistenza delle proposte per il giorno dopo. La volontà di potere è di gran lunga superiore a quella di voler trasformare il mondo. Per questo motivo quello che nel suo schema viene dopo la vittoria elettorale è una imprecisa e incerta “guerra di posizione” all’interno dello Stato, i cui obiettivi finali non vanno oltre una generica volontà redistributiva e rigeneratrice, evitando di prendere in considerazione la questione decisiva del come evitare che il (limitato) slancio iniziale del processo di cambiamento finisca per essere soffocato da quello stesso apparato statale che si pretendeva di trasformare. Qui sta uno dei paradossi della politica di Errejón: da un lato, è stato il più “strategico” dei dirigenti di Podemos, ma dall’altro la sua proposta riduce la strategia a un mero dibattito su come vincere le elezioni, e non a una discussione su come cambiare la società. Inoltre, è stato il principale artefice di un modello di partito basato su una strategia senza dibattito strategico, in cui questa veniva unilateralmente stabilita dalla direzione, senza alcun feed-back da parte della militanza.

In conclusione, i progetti di Iglesias e di Errejón si differenziano anche per il tipo di coerenza e le basi ideologiche. Iglesias ha un orientamento politico molto più eclettico e un quadro di riferimento teorico-strategico più impreciso, accompagnato da permanenti oscillazioni propositive che hanno incrinato la sua credibilità. Queste ultime lasciano intravedere una tensione fra la sua componente populista e quella erede della tradizione (euro)comunista e del movimento operaio. Una tensione che si riproduce anche fra la sua anima governativa e attenta alla realpolitik e quella (più piccola ed episodica, ma presente anch’essa) rupturista. Errejón, da parte sua, ha mantenuto una prospettiva strategica molto più omogenea teoricamente (è noto il suo riferimento a Laclau), più costante politicamente e più internamente coerente. Il suo principale limite, tuttavia, è stata l’incapacità di correggere le proprie ipotesi di lavoro. Al contrario, quando si è visto costretto a compiere brusche svolte, come per esempio passare dalla difesa di un modello di partito omogeneo e centralista in tutto lo Stato a improvvisare alleanze e confluenze in Catalogna, in Galizia e nel Paese Valenzano in vista delle elezioni legislative del 20 dicembre, lo ha fatto affermando che non vi era alcuna novità e che ogni svolta era in realtà già contemplata dal codice alla base dell’ipotesi di Vistalegre [8]. Il combinarsi fra loro di una pratica politica che ha subito inevitabili svolte e della cristallizzazione delle ipotesi strategiche – invece di una loro cosciente correzione, al di là della presa d’atto del fatto che occorre prepararsi per una battaglia di lungo termine – ha prodotto come risultato un arroccamento teorico-strategico-politico che ha minato l’operatività delle sue proposte. Dall’essere strategicamente e teoricamente all’offensiva nel momento culminante della fase della “macchina guerra”, è ripiegato su una posizione più difensiva dopo la rottura con Iglesias.

Una delle sintesi in forma di metafora per concettualizzare le differenze fra Iglesias ed Errejón che più ha avuto fortuna nel dibattito dei mesi scorsi è dovuta al rapper, saggista e sostenitore di Iglesias, Ricardo Romero («el Nega»), quando ha affermato (via twitter, il 9 settembre) che «Vi sono due Podemos (e sempre vi sono stati): uno che vuole essere amato come i Coldplay e un altro che vuole essere come Bruce Springsteen. Dobbiamo essere come il #Boss». Il paragone, di evidente attrattiva visuale e con una grande capacità evocatrice, è utile se lo si intende come riferito a due proposte di diverso contenuto. Tuttavia, la metafora musicale suggerisce che il confronto fra il Boss e gli autori di Parachutes consista in una mera differenza di forme e di stile, e che la discussione debba avvenire in questi termini. Ma il dibattito sul futuro di Podemos riguarda progetto strategico, contenuti, obiettivi finali e, anche, rapporto con la società e modi di strutturare una maggioranza. Quest’ultima non significa nulla in se stessa se non si chiarisce perché la si persegue e con quali obiettivi. Non è lo stile del partito, ma il contenuto del suo progetto il punto di partenza per la discussione. L’analogia musicale peccava anche, almeno un poco, di autocompiacimento. Nessuno dubita delle capacità comunicative di Iglesias. Ma da qui a parlare del Boss…

Springsteen e Coldplay a parte, Podemos ha, come minimo, un’altra anima importante, rappresentata fondamentalmente da Anticapitalistas, oggi la principale componente della candidatura Podemos en Movimiento per il prossimo congresso. La proposta strategica di Anticapitalistas – elemento chiave nella genesi del partito viola – è stata sin dall’inizio quella di costruire uno spazio politico per sviluppare il potenziale venuto alla luce con il 15 maggio, sia dal punto di vista della finestra di potenzialità elettorali esistenti sia da quello della possibilità di intraprendere un percorso di rottura con l’attuale regime e le politiche di austerità. La sua proposta è una sintesi, non sempre facile, fra la volontà di radicalità e la vocazione maggioritaria. Il modello di partito avanzato per veicolare questa proposta è stato quello del partito-movimento, una concezione agli antipodi della macchina da guerra elettorale e che intendeva trasferire sul terreno politico l’eredità del 15 maggio. Il suo modello organizzativo valorizzava la democrazia interna, la pratica politica era rivolta verso la società (ben al di là della sola comunicazione) e non ripiegata su se stessa, e nella sua prospettiva strategica c’era la volontà di intendere la “vittoria”, il significato di “vincere”, come una sintesi dialettica fra autorganizzazione-mobilitazione-elezioni-istituzioni. Consustanziali a questa proposta sono stati l’accento posto sulla discussione programmatica, l’attenzione a questioni decisive senza le quali è impossibile pensare una politica seria di trasformazione (banche, debito…) e la necessità di trarre le dovute lezioni dal fiasco di Syriza (cosa che, non essendo stata fatta dalla direzione di Podemos, getta un’ombra minacciosa sul futuro).

La presenza di una simile sensibilità politica, che sin dall’inizio andava controcorrente, nonostante il suo peso istituzionale ridotto e la persecuzione di cui è stata oggetto dopo il successo di Podemos nelle elezioni europee del 25 maggio 2014, è stata decisiva per la storia del partito. Senza di essa sarebbero state più consistenti le “fughe” di militanti dai circoli, virtualmente inesistenti i contrappesi democratici e movimentisti al gruppo dirigente e impossibili gli sforzi per organizzare dal basso la militanza in vista d’una diversa prospettiva. È per questi motivi che, pur in assenza dell’attenzione mediatica di cui gode il duello “titanico” fra Iglesias ed Errejón, il numero di adesioni che otterrà Podemos en Movimiento sarà determinante per il futuro del partito: una garanzia del fatto che, in qualsiasi circostanza, la peggiore compresa, dentro Podemos continuerà a esistere la spinta per un reale (e non epidermico) cambiamento sociale, per una rottura con l’austerità e il regime, per la democrazia interna.

 

Dentro la «macchina»

Descritte sommariamente le opzioni di fondo in lizza nel secondo congresso di Podemos, passerò ora a un bilancio retrospettivo dei risultati del modello della “macchina da guerra elettorale” varato a Vistalegre, non tanto dal punto di vista della strategia politica, quanto del modello organizzativo e del partito realizzati.

Di fronte alla palmare evidenza dei suoi innumerevoli limiti, tanto Iglesias quanto Errejón hanno riconosciuto la necessità di introdurre modifiche in senso democratico nell’organizzazione e nella dinamica politica. Il primo propone limitate riforme organizzative che presuppongono una democratizzazione parziale e selettiva del progetto. Il secondo, consapevole del fatto che la sua proposta parte in svantaggio rispetto a quella de segretario generale, ha innalzato, in modo interessato e poco credibile, la bandiera della democrazia interna e del rispetto del pluralismo, che però ebbero da parte sua ben poca considerazione quando era di fatto il dirigente centrale dell’apparato.

Entrambi, per giustificare il fatto di aver appoggiato – nel primo congresso di Vistalegre, nel 2014 – un modello di partito rivelatosi disastroso, tendono a presentare la “macchina da guerra elettorale” come un male necessario, un passaggio inevitabile dovuto a una situazione eccezionale nella quale il conseguimento della vittoria elettorale veniva prima di qualunque altra considerazione. Questo tipo d’argomentazione sottintende due problemi. Innanzi tutto, si giustifica come si fosse trattato d’una scelta obbligata dalla congiuntura quello che fu invece un orientamento strategico che rifletteva la concezione della politica e la cultura politica del nucleo dirigente di Podemos: l’elettoralismo, il verticalismo, l’assenza di democrazia non erano provvedimenti transitori, “eccezionali”, ma il tentativo di costruire un modello di partito oligarchico, sottoposto al ferreo controllo della burocrazia dirigente. In secondo luogo, non v’è alcuna concreta evidenza che dimostri che la formula di Vistalegre abbia contribuito a migliorare il risultato elettorale più di quanto si sarebbe ottenuto con un altro modello e un’altra strategia. È piuttosto possibile il contrario, poiché è ragionevole ipotizzare che un partito con più partecipazione, con una militanza più attiva, nel quale i quadri migliori non fossero stati emarginati perché non “fedeli” alla direzione, che avesse posto un’enfasi maggiore nel radicamento sociale e nel quale i dirigenti non avessero perso tanto smalto ricorrendo a procedimenti antidemocratici, non sarebbe uscito peggio dalla prova delle urne, ma piuttosto allo stesso modo o magari anche meglio.

I problemi politico-organizzativi incontrati da Podemos fin dalla fondazione (difficoltà nel consolidare la propria struttura, scontri, carenza di quadri, arrivismo, carrierismo…) non possono essere attribuiti al modello della “macchina da guerra elettorale”. Sono problemi comuni a ogni nuovo partito e che si sarebbero presentati comunque. Ma il modello adottato dalla direzione di Podemos ha contribuito ad aggravarli fino all’estremo. Ed è probabile che le conseguenze più visibili siano consistite nello svuotamento delle strutture di base e nella drastica diminuzione dei militanti nei circoli (non è però avvenuto lo stesso per quanto riguarda la partecipazione attraverso Internet che, nelle occasioni importanti, si mantiene a un considerevole livello, che non ha equivalenti).

La partecipazione militante possiede un carattere instabile: in ogni processo politico o sociale, alla prima massiccia affluenza di persone alle riunioni e alle assemblee segue di solito un calo, per stanchezza, per mancanza d’interesse, o per implicita delega a chi resta. La militanza liquida, per riciclare il termine reso popolare da Bauman, e cioè à la carte e instabile, è la traduzione in termini politico-organizzativi di una società frammentata, individualizzata e con biografie fragili. Il fallimento del modello Vistalegre non consiste nel non essere riuscito a organizzare dal basso in modo duraturo un ampio strato di attivisti pronti a inserirsi socialmente: la pecca principale è che il modello della macchina da guerra elettorale-comunicativa populista ha rinunciato a farlo fin dall’inizio e in diverse occasioni ha fatto il possibile per demotivare quei circoli il cui entusiasmo iniziale era guardato con sospetto, con un certo timore burocratico.

In un processo di oligarchizzazione interna la cui rapidità e profondità avrebbe sorpreso lo stesso Robert Michels [9], il partito è stato concepito come una proiezione lineare dell’orientamento politico del gruppo dirigente, e chi non era d’accordo figurava come un intruso in un progetto reso patrimonio della direzione. La paura della democrazia ha presieduto alla genesi del modello Vistalegre e alla sua successiva gestione. La direzione di Podemos, stranamente, s’è sempre sentita poco sicura di sé e ha rifiutato il confronto democratico con altre proposte dentro e fuori del partito, spesso logorandosi inutilmente in manovre d’apparato, anche quando, con procedimenti più democratici, avrebbe potuto ottenere lo stesso risultato.

Al contrario, si è arroccata in una struttura politica organizzata in modo tale da impedire alla base ogni effettiva possibilità di influire sulle decisioni della direzione e sulla linea del partito, ma che però in molte occasioni ha finito per rivelarsi sclerotizzata: spesso la direzione si è infatti trovata al comando d’una sorta di budino tremolante che non stava in piedi da sé, ma richiedeva un continuo sostegno da parte dei vertici. Paradossalmente, nonostante che Gramsci sia onnipresente nei riferimenti teorici di entrambe le famiglie della direzione di Podemos, in realtà la concezione della politica di quest’ultima è molto poco gramsciana sul piano organizzativo, a differenza di quello verbale e comunicativo, dove ha dato prova di grandi capacità di generare contro-egemonia. Per quel che concerne la struttura organizzativa, la ricerca della egemonia s’è ridotta al puro e semplice dominio dell’apparato. Per vincere senza necessariamente convincere.

Eliminare il problema della militanza: a questo s’era ridotto l’obiettivo originario del progetto approvato a Vistalegre. Per conseguirlo ci si servì di tre leve. La prima: l’adozione di una struttura decisionale online che, lungi dall’essere un ricorso creativo per facilitare il coinvolgimento di persone con poco tempo disponibile o minor impegno, si rivelò uno stratagemma per scavalcare i militanti di base attivi e legittimare in modo plebiscitario le decisioni della direzione del partito e, spesso, imporre la composizione di direzioni regionali e locali e di liste elettorali senza il consenso della vera militanza. La seconda: un sistema elettorale interno maggioritario per cui quasi sempre “chi arriva prima prende tutto”, e che ha permesso che gli organismi dirigenti diventassero de facto e ovunque strumenti della frazione o del gruppo maggioritario e non spazi di integrazione e di sintesi politica, escludendo così le altre sensibilità da ogni vero rapporto organico con il partito. La terza: uno schema ultracentralista nel quale una direzione centrale del partito del tutto autonomizzata era onnipresente, riducendo le direzioni regionali a semplici sue appendici, senza autentica legittimità politica né proprie risorse organizzative e finanziarie, e pertanto, a causa della loro fragilità, in preda a endemiche crisi interne.

In questo contesto, i circoli non divennero né spazi di discussione politica né strumenti di intervento esterno mediante la pianificazione di campagne di sensibilizzazione o il radicamento del partito nel tessuto sociale. Senza disporre di alcuna funzione precisa nella marcia trionfale verso la vittoria elettorale, i circoli hanno finito con il trovarsi relegati a cornici, sempre più svuotati di contenuto reale, di discussioni senza capo né coda e di scontri locali, con un orizzonte che non si spingeva oltre le elezioni interne alle cariche di partito o la composizione delle liste elettorali.

Si costruì così un modello di partito elettorale-professionale basato su una contraddittoria partecipazione plebiscitaria senza democrazia, progettato in modo da scavalcare e neutralizzare la militanza dell’organizzazione. Questa era vista non come una risorsa il cui potenziale andava sviluppato e come la base fondamentale costitutiva del progetto, ma come un avversario interno degli interessi della direzione burocratica in formazione, portatrice di una cultura interna schmittiana fondata sulla dicotomia “amico-nemico” [10]. Il “nemico”, rappresentato da chiunque non concordasse con la direzione, assunse un duplice aspetto: quello, anonimo e astratto, che rifletteva l’atavico timore burocratico per la militanza, e quello, concreto, incarnato da Anticapitalistas.

La macchina comunicativa referendaria-plebiscitaria centralista diventò il corrispettivo organizzativo della macchina da guerra elettorale, una vera e propria macchina trituratrice di militanti, ideali, entusiasmi. Portato all’estremo, il modello partitico codificato a Vistalegre incarnava l’impossibile utopia del partito senza militanti, equivalente politico-burocratico dell’utopia capitalista della fabbrica senza lavoratori che le successive ondate di automazione e di robotizzazione hanno periodicamente riproposto nel corso della storia. Un’utopia politico-burocratica (e dunque una distopia per qualsiasi progetto d’emancipazione) non molto diversa dalla fantasia conservatrice della “democrazia senza popolo” che lo stesso Errejón critica in continuazione [11].

Durante un certo periodo la macchina da guerra elettorale, mediante una netta chiusura nei confronti di ogni tentativo di sperimentazione politico-organizzativa, sembrò in grado di racchiudere in se stessa tutto l’orizzonte politico, accumulando su di sé però a ritmo vertiginoso tutti i classici problemi che hanno dovuto affrontare le forze politiche emancipatrici (burocratizzazione, oligarchizzazione, istituzionalizzazione, integrazione…). Per qualche tempo è apparso più logico prevedere una fine di Podemos piuttosto che quella della macchina da guerra: sembrava infatti più credibile pensare che l’establishment l’avrebbe fatta finita con il nuovo arrivato piuttosto che questo potesse correggersi in senso democratico. Solo poche voci outsider si sforzarono, in piena realtà distopica, di preservare la speranza di un altro Podemos possibile.

Travolto dalle sue stesse aporie, il modello politico-organizzativo del primo Vistalegre subirà senza dubbio una revisione nell’imminente secondo congresso. Ma solo con una sua radicale critica, e non con una sua difesa in quanto misura d’emergenza, sarà possibile prevedere un diverso futuro per il partito, e non un simulacro di cambiamento. Questo è il significato delle proposte di Podemos en Movimiento, espressione di coloro che mai s’abbandonarono all’apologia dell’indifendibile.

Tuttavia non è possibile tornare sui propri passi. Il primo Podemos, quello dell’autorganizzazione spontanea nella fase precedente le elezioni europee e del travolgente entusiasmo che le seguì, non può tornare. E con lui se ne sono andati migliaia di militanti. Non è possibile riavvolgere il filo degli errori politici compiuti per imboccare il sentiero corretto dal quale un giorno si è deviato. Le scelte alternative compiute in passato non possono ripresentarsi tali e quali. Ma la consapevolezza di quanto accaduto è utile per cercare una via adatta a una rifondazione e a un nuovo impegno, sociale e militante, che, senza nostalgia, restituisca al progetto la sua freschezza iniziale, burocraticamente confiscata. Per farlo, vi sono tre condizioni cruciali: un funzionamento democratico, una pratica quotidiana d’intervento sociale e un serio e permanente dibattito sulla strategia.

 

Una grande scuola di strategia

Essere una grande scuola di strategia rivoluzionaria (per riprendere una definizione di Trotskij riferita al Terzo Congresso della III Internazionale nel 1921 [12]) o, se si preferisce, una grande scuola di strategia per la “ruptura”, che contribuisca a elevare sempre più la formazione dei propri militanti, è appunto quello cui dovrebbe aspirare ogni forza politica emancipatrice. Niente di più diverso di quel che è stato Podemos sino a ora, con i suoi dibattiti-lampo, le sue frettolose conclusioni plebiscitarie delle differenze politiche, con la riduzione di ogni dibattito al come e cosa fare per vincere le elezioni e con la finalizzazione a una logica tutta interna della sua attività. Grande scuola di strategia e macchina da guerra elettorale-propagandistica sono, non v’è dubbio, progetti antitetici. Non è casuale che sia stata la crisi del gruppo dirigente che aveva escogitato il modello di Vistalegre quella che ha reso possibile, per la prima volta, un dibattito strategico vero, sia pure inquinato da difetti ereditari.

Stando così le cose, ciò che è in gioco nel secondo Vistalegre sono il grado di rottura o di continuità che si avrà rispetto al primo e, di conseguenza, il livello di robustezza strategica e di serietà del progetto di trasformazione sociale. Le tre opzioni sul tavolo sono inequivocabili: la corrente capeggiata da Miguel Urbán rappresenta la rottura cristallina con un incubo politico-organizzativo che mai avrebbe dovuto materializzarsi; Pablo Iglesias incarna la continuità, fondamentalmente, del precedente modello, con parziali aggiustamenti di tipo democratico e la riproposizione di una retorica contestatrice compatibile con un orizzonte di mutamento autolimitato; e infine Íñigo Errejón rappresenta la riaffermazione dell’eredità politica della prima Vistalegre, accompagnata da riforme democratiche interessate: delle misure per fare un altro passo (definitivo?) verso l’omologazione di Podemos a un partito che incanali il malessere e lo scontento sociali lungo percorsi innocui per il potere.

 

* Josep Maria Antentas è professore di Sociologia presso l’Universitat Autónoma de Barcelona e fa parte del Comitato consultivo di «Viento Sur».

 

[1] Antentas, J. M. (2015), “Ciudadanos, Podemos y la centralidad deseada”, Público, 2 de Mayo: http://blogs.publico.es/dominiopublico/13227/ciudadanos-podemos-y-la-centralidad-deseada/ ; e Antentas, J. M. (2015), “Ciudadanos: el cambio falaz”, Público, 7 de abril: http://blogs.publico.es/dominiopublico/13026/ciudadanos-el-cambio-falaz/

[2] Errejón, I. (2016), “Del asalto al cerco: Podemos en la nueva fase”, El diario.es, 17 de julio: http://www.eldiario.es/tribunaabierta/asalto-cerco-Podemos-nueva-fase_6_538306170.html

[3] Errejón, I. (2016) “Podemos a mitad de camino” Ctxt, 20 de abril: http://ctxt.es/es/20160420/Firmas/5562/Podemos-transformacion-identidad-poder-cambio.htm

[4] Ibidem.

[5] Ibidem.

[6] Errejón, I. (2016), “Del asalto al cerco: Podemos en la nueva fase”, citato.

[7] Ho sviluppato maggiormente questo aspetto in Antentas, J. M. (2016), “El desconcierto de una noche de verano” Público, 29 de junio: http://blogs.publico.es/tiempo-roto/2016/06/29/el-desconcierto-de-una-noche-de-verano/; e in Antentas, J. M. (2016), “Hace cinco años empezó el futuro”, #Globaldebout”, Viento Sur, 15 de mayo: http://vientosur.info/spip.php?article11295

[8] Errejón, I. (2016), “Abriendo brecha: apuntes estratégicos tras las elecciones generales”, Público, 11 de enero: http://blogs.publico.es/dominiopublico/15529/abriendo-brecha-apuntes-estrategicos-tras-las-elecciones-generales/

[9] [Robert Michels (1876-1936), sociologo, tedesco di nascita, naturalizzato italiano, è stato uno dei primi sostenitori “scientifici” dell’inevitabilità dell’approdo oligarchico di ogni forma di democrazia e, per quanto riguarda i partiti (e i sindacati), di organizzazione. Di qui la necessità del “capo carismatico”, che neutralizza l’oligarchia entrando in diretta sintonia con le masse. Coerentemente, Michels aderì al fascismo e ne divenne un ardente propagandista in non poche occasioni. Nota del traduttore.]

[10] Schmitt, C. (2014 [1932]]), El concepto de lo político. Alianza, Madrid.

[11] Errejón, I., e Mouffe, Ch. (2015), Construir pueblo. Icaria, Barcelona.

[12] Trotsky, L. (1924), The First Five Years of the Communist International, Volume 2°: https://www.marxists.org/archive/trotsky/1924/ffyci-2/01.htm#f1

Titolo originale: Podemos ante sí mismo, in «Viento Sur», 30 gennaio 2017: http://www.vientosur.info/spip.php?article12160