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aaakohanIn quale epoca stiamo vivendo?

Ottima domanda! Non possiamo capire la nostra piccola quotidianità facendo astrazione dal mondo storico globalizzato che abitiamo. Stiamo vivendo un’incerta transizione dal capitalismo imperialista in crisi acuta a una forma sociale ancor più bestiale, feroce, crudele e spietata del medesimo sistema mondiale capitalistico, in cui si sono infrante le barriere sociali che arginavano e istituzionalizzavano i poteri distruttivi del capitale.

Il grottesco e patetico muro che pretendono di erigere gli Stati Uniti al confine dell’America latina, per controllare e comprimere l’affluenza di forza lavoro è, per dirla con un giovane ribelle dell’Asia [Mao tze-Tung], un muro “di carta”.

Il capitalismo genera caos e disintegra le società per riordinarle in base al suo predominio dispotico. Distrugge e costruisce al tempo stesso. Separa vincoli comunitari, per poi riunire, sempre sotto la propria dominazione e il proprio controllo. Un fenomeno già studiato da Rosa Luxemburg. La violenza genocida dell’accumulazione primitiva del capitale si riproduce e ricicla su base amplificata. Un tema oggi ripreso e attualizzato da David Harvey.

Il capitalismo non è soltanto caos e disordine. È anche ordine: un ordine ogni giorno più oppressivo e totalitario. Ci stiamo avviando verso la distruzione del pianeta, della specie umana, dei diversi ecosistemi e della vita stessa, in quanto tale. Ci troviamo in questo tipo di transizione. Tuttavia, pur con la sua devastante e criminale potenza distruttiva, il capitalismo non finirà per virtù sua, come muore una persona anziana di “morte naturale” per il semplice fatto di essere invecchiata. Solo le resistenze contro il capitalismo e le alternative di nuove rivoluzioni socialiste possono cambiare il corso suicida dell’umanità e inaugurare una nuova fase storica, radicalmente diversa.

 

Quali punti fermi o quali date individueresti in questa transizione per poterla periodizzare?

Ogni transizione implica un processo aperto. Non comincia né termina in un giorno preciso. La transizione dal feudalesimo al capitalismo in Europa occidentale ha impiegato secoli. Le popolazioni di quel periodo ignoravano di stare vivendo quella transizione. I tempi hanno subito un’accelerazione a ritmi pazzeschi. Il periodo che va dal settembre del 1973, con il golpe neoliberista di Pinochet [in Cile] ispirato al monetarismo di Friedman (piuttosto prima di Reagan e della Thatcher) e la nascita della controffensiva americana continentale del Plan Condor fino al 1989-1991, con l’implosione dell’Unione Sovietica e il trionfo dell’imperialismo capitalista nella terza Guerra mondiale (nota con il nome eufemistico dei “Guerra fredda”), segnano l’inizio di questa transizione. L’inserimento della Cina nel sistema capitalistico mondiale avviene in tale contesto, nonostante la sconfitta degli yankee in Vietnam (in Asia) nel 1975 e quella del Sud Africa di fronte all’Angola e a Cuba (in Africa) che termina nel 1991.

In America latina, la sconfitta sandinista del 1990, la firma della “pace” nel 1992 nel Salvador e quella del Guatemala nel 1996 rientrano in questo orizzonte che l’ormai soppresso Dipartimento America del Comitato Centrale del PC cubano interpretò come “la fine dell’era delle sollevazioni”. Tuttavia, l’insperata irruzione del bolivariano Hugo Chávez in Venezuela e degli zapatisti in Messico, insieme al persistere della guerriglia colombiana durante quegli anni, tentarono di modificare quel corso, contrastando quel vaticinio un po’affrettato. Quelle resistenze e sollevazioni cercavano di contrastare la tendenza generale all’approfondirsi della dipendenza. Nonostante quei processi continuino a resistere e non siano stati completamente sconfitti né cancellati, purtroppo non sono riusciti (finora) a modificare sostanzialmente la natura di questa transizione.

 

E l’Argentina?

La rivolta popolare del dicembre del 2001 che colpì duramente il neoliberismo, (anche se non il capitalismo, indipendentemente dalla simpatica parola d’ordine “que se vayan todos!” [se ne vadano tutti!]), nonostante le intenzioni ambivalenti ma di carattere progressista che le seguirono nel decennio successivo (in cui riallineamenti internazionali latinoamericanisti, l’opposizione all’ALCA e politiche socialmente includenti convissero contraddittoriamente con processi regressivi di “rivoluzioni passive” contrassegnate dall’estrattivismo “mineral-sojero” e il progressivo predominio estero dell’economia), non riuscirono neanch’esse a frenare lo tsunami controrivoluzionario, che l’imperialismo e le borghesie autoctone andavano pazientemente sviluppando fino ad arrivare all’attuale barbarie.

Credo che, a partire dall’impulso bolivariano capeggiato a livello continentale da Hugo Chávez, si fosse aperta la concreta possibilità di invertire il corso globale. Chávez trascinava la regione annunziando, contro tutte le mode, il socialismo (in forma eclettica e prolissa, è vero, ma tornando a porre il progetto socialista nell’agenda dei movimenti sociali quando ormai molti lo davano per morto e non avevano neppure il coraggio di nominarlo). Naturalmente, il rapporto di forza è sostanzialmente cambiato a partire dalla crisi capitalista globale del 2008 e dalla “morte sospetta” (assassinato?) del leader bolivariano che metteva in moto l’intera regione, anche non ascoltando certi consigli di “prudenza” diplomatica provenienti dall’Avana.

Morto Chávez, nella regione si sgonfia l’impulso irriverente (pur non scomparendo completamente). Forse una delle principali debolezze del settore popolare latinoamericano consiste nel dipendere eccessivamente dalle direzioni carismatiche (il Che, Fidel, Chávez, ecc.), mentre l’imperialismo capitalista esercita una dominazione burocratica, anonima e impersonale, in cui il presidente degli Stati Uniti può essere un attore analfabeta o un energumeno uscito dai Simpson, quello dell’Italia un grottesco pornografo, quello della Francia un personaggio di quart’ordine, senza cultura né carisma, senza conoscenze elementari. Grigie e anodine marionette che si limitano a rispondere al capitale. L’imprenditore che sta governando l’Argentina, Mauricio Macri, incapace di articolare quattro frasi coerenti, ne è un’eloquente dimostrazione.

 

Come si riflette sulla vita quotidiana questa transizione mondiale?

Vincendo la terza guerra mondiale (nota come “guerra fredda”), l’industria bellica americana e il suo complesso militar-industriale si permette di trasferire la struttura tecnologica comunicativa di origine militare alle faccende del mercato e alla società civile. Così, siamo stati inondati con Internet, con i telefoni cellulari e gli schermi hanno assunto il controllo della nostra attenzione e dei nostri cervelli. L’immagine ha inghiottito concetto e lettura. Il presente effimero, la storia profonda. Il feticcio tecnologico e l’illimitata espansione mercantile hanno sempre più spersonalizzato i rapporti intersoggettivi. La “svolta linguistica” nella teoria sociale è figlia della vittoria politico-militare nella guerra fredda. L’accelerazione nella rotazione del capitale (studiata da Mandel in Il tardocapitalismo) e la sconfitta del mondo del lavoro rendono precari non solo i nostri posti di lavoro, ma l’intera nostra esistenza quotidiana, incluso dalle identità politiche, comunitarie e nazionali fino ai legami familiari, ai rapporti di amicizia e alle relazioni amorose incluse. Le descrizioni “liquide” di Zygmund Bauman non sono minimamente un’esagerazione. Si è sì dischiusa la porta ad alcune libertà (ad esempio, la possibilità di non dover convivere per tutta la vita in maniera forzata con qualcuno che non si ama, l’eventualità di scegliere altri orientamenti sessuali diversi da quelli tradizionali, la scelta di non avere figli che non sono desiderati né frutto dell’amore, ecc., mettendo così in discussione antichissimi ruoli patriarcali); a mio avviso però, in termini globali, i cambiamenti portati dal capitalismo nella vita quotidiana non sono stati positivi.

Si è addirittura giunti all’estremo di festeggiare come presunta “emancipazione” la possibilità di vendere una persona omologandola a, o trattandola come, una merce, celebrando acriticamente la prostituzione massiccia e il sudicio dominio del denaro e del mercato. Non a caso, seguendo Shakespeare, Marx definì il denaro, dalla sua giovinezza fino alla vecchiaia, il massimo simbolo della prostituzione, come nucleo centrale del mercato, che cancella ogni specifica differenza nei rapporti interpersonali, anteponendo la quantità alla qualità, gli oggetti alle persone. Applaudire, festeggiare e celebrare, in nome del progressismo, questo regno del denaro-prostituzione come sinonimo di “emancipazione” ci parla di una crisi ideologica di grande rilievo. Il prossimo passo di questa crisi civilizzatrice sarà encomiare la schiavitù intendendola quale sinonimo di “libertà” e la tortura come paradigma dei “diritti umani”. Il feticismo inverte tutto e il mondo resta a zampe all’aria.

 

Di fronte alla tua diagnosi pessimistica, non esiste via d’uscita?

Certo che esiste. LE RESISTENZE! Solo la lotta ci renderà liberi. Chi non è disposto a giocarsi la vita non potrà mai conquistare la libertà, aveva scritto Hegel pensando alla rivoluzione dei neri (sociale, nazionale e anticoloniale al tempo stesso) di Haiti. Il futuro non chiude le porte e la storia non è predeterminata. Avevano ragione Engels e Rosa Luxemburg: SOCIALISMO O BARBARIE! La sola cosa che possiamo prevedere è… la lotta, come ci ha insegnato Antonio Gramsci.

 

Il riavvicinamento tra Cuba e gli Stati Uniti non inaugurano una nuova epoca di pace, come vaticinava dal Vaticano a Roma papa Francesco?

Temo di no. Non c’è da fidarsi dell’imperialismo, “neanche un briciolo così… Niente!”. Il popolo cubano ha il diritto di decidere il proprio futuro. Se lo è conquistato resistendo per più di mezzo secolo ed eroicamente di fronte a un gigante feroce, ispirato alla dottrina Monroe [supremazia assoluta degli Stati Uniti sull’America] e prepotente, per giunta inviando combattenti internazionalisti in tutto il pianeta, soprattutto in America latina e in Africa.

Se però non si sciolgono il Pentagono, la CIA, l’Agenzia Nazionale di Sicurezza, l’FBI, Wall Street, la Banca Mondiale, l’Organizzazione mondiale del Commercio, ecc., dubito che si possa costruire una pace vera senza sottomissione, dipendenza o dominazione neocoloniale. Sia con il sorriso permanente da venditore di dentifricio di Obama, sia con il ridicolo e stravagante parrucchino di Trump, gli Stati Uniti non abbandoneranno la percezione di sé come Polizia Mondiale e “paese eletto” dall’Altissimo per reggere le sorti del mondo, soprattutto nel loro “cortile di casa”, includendovi Portorico e Cuba, le due perle dei Caraibi. Il nuovo muro di Berlino, mi scuso volevo dire del confine tra Gringolandia e Messico, è semplicemente il simbolo di ciò che ci riservano i nostri fratellini del Nord.

 

Gli accordi di pace delle rivolte colombiane e del popolo basco non significano nulla?

Insisto: ogni popolo ha il diritto di scegliere il proprio destino e la sua autodeterminazione, come raccomandava un ragazzo che si chiamava Lenin. Il vecchio professore argentino Rodolfo Puiggrós, rettore dell’Università di Buenos Aires e storico marxista, ha scritto che poiché noi argentini non siamo riusciti a prendere il potere e fare la nostra rivoluzione socialista, ce ne andiamo per il mondo con il dito puntato a fare le pulci alle rivoluzioni altrui. Grande avvertenza metodologica espressa con ironia argentina, ma che va bene anche da altre parti! Non mi stanco mai di ripeterla. Nonostante ciò, sospetto che l’imperialismo yankee , il suo gendarme in Medio Oriente (lo Stato di Israele, presente in forza nella lotta contro le sollevazioni di altri paesi, ad esempio in Colombia!) e la stessa classe dominante colombiana non permetteranno la pace, il pluralismo, né che il popolo recuperi pacificamente quello che gli hanno tolto tanti decenni di violenza sistematica.

Vi sono già state esperienze come quella del Salvador e del Guatemala, dove il grosso di quanti hanno violato i diritti umani e i militari genocidi godono dell’impunità. Sono forse finiti in carcere i torturatori della guardia civile che esercitarono in maniera spietata il loro sadismo contro la gioventù basca per decenni? Sono forse stati puniti severamente i vecchi repressori franchisti?

Per finire, credo comunque che sarebbe errato strategicamente dividere, frammentare o disperdere quel poco che si era riusciti ad agglutinare a livello internazionale intorno al movimento continentale bolivariano [MCB] (che comprendeva anche forze europee).

In mancanza di un coordinamento internazionale, (visto che le internazionali staliniane o maoiste sono sciolte e quelle trotskiste hanno soltanto un’esistenza nominale ma senza una forza reale), dissolvere o frammentare il movimento continentale bolivariano – si condivida o meno la fine della lotta insurrezionale in Colombia – comporterebbe un saldo negativo.

Oggi più che mai abbiamo bisogno di un coordinamento internazionale per far convergere le ribellioni popolari organizzate. E questo implica, credo che ormai sia stato dimostrato, non dipendere da nessuna organizzazione particolare, che vinca, pareggi o sia sconfitta. Per questo oggi diventa urgente e imprescindibile recuperare lo spirito internazionalista di Lenin, cercando di articolare tutte le forme di lotta, senza rinunciare a nessuna o decretarne frettolosamente l’ inutilità. Se l’avversario utilizza tutte le forme di lotta, perché mai il nostro campo dovrebbe limitarsi unicamente alla battaglia istituzionale?

 

Visto che hai richiamato Lenin, come consideri il marxismo, a 150 anni da Il capitale, a 100 anni dalla Rivoluzione bolscevica e a 50 anni dall’assassinio di Che Guevara?

Lo considero semplicemente più attuale che mai. La crisi del capitalismo non si attenua, si moltiplica in maniera esponenziale, minacciando ormai di distruggere non solo la classe operaia ma l’intero pianeta, la sua cultura e la sua civiltà. Le analisi di Marx (che abbracciano non solo lo sfruttamento economico e l’estrazione di plusvalore ma anche le forme del predomino politico, la teoria del potere e le reti di assoggettamento degli individui e della cultura), le prospettive strategiche di Lenin e lo spirito ribelle di Che Guevara diventano un faro ogni giorno più potente. In mezzo allo scoraggiamento politico e alla confusione ideologica generalizzata loro ci indicano la strada. Senza nostalgie compiacenti né revival anodini. Questo orizzonte rivoluzionario è l’unico che possa frenare la marcia del capitalismo mondiale verso il suicidio della specie. Il treno ha perso la bussola e marcia verso il precipizio, come ci ha messo in guardia Walter Benjamin. Per questo le nuove ribellioni e insurrezioni che sicuramente nasceranno (perché la storia non è finita qui come un quarto di secolo fa volle farci credere quel mediocre funzionario Fukuyama, apprendista filosofo frustrato) dovranno prendere molto sul serio gli studi critici del Capitale di Marx, la prospettiva internazionalista e antimperialista radicale di Lenin e dei suoi straordinari bolscevichi, e l’appello di Guevara alla lotta rivoluzionaria mondiale contro il capitalismo, la sua miseria, il suo sfruttamento, le sue alienazioni e tutte le sue forme di dominazione.

 

* Néstor Kohan: filosofo, scrittore e militante marxista argentino, animatore della Cattedra Che Guevara, della Cattedra Karl Marx, nonché docente dell’Università di Buenos Aires (UBA).