di Giuseppe Sergi*
Esprimendosi, pochi giorni fa, su un quotidiano romando, la consigliera nazionale Marina Carobbio sosteneva che bisogna sostenere il «compromesso» allestito dal Consiglio degli Stati (quello che prevede 70 franchi al mese di aumento per i futuri pensionati) perché prevede «notevoli miglioramenti» (per le donne) e perché rappresenta «più che una semplice compensazione» dell’aumento di un anno dell’età pensionistica delle donne. Ora, su questi temi, si possono fare ragionamenti di carattere diverso.
Da un lato, attenendosi all’aspetto puramente politico, si può constatare come questo aumento dell’età AVS per le donne dai 64 ai 65 anni rappresenti una nuova ulteriore tappa verso l’obiettivo di innalzare a 67 anni l’età pensionistica per tutti e tutte (passo già tentato in questa occasione, ritirato solo tatticamente). Chi sostiene questo passo come un «male minore» dimentica infatti che in questi ultimi anni parecchi peggioramenti sono stati accettati con l’idea che il loro accoglimento avrebbe potuto bloccare misure ben peggiori . In realtà sappiamo come sono andate le cose: trovando scarsa reazione, padronato e partiti borghesi hanno pensato bene, sistematicamente, di riproporre – dopo poco tempo – il male peggiore…
Dall’altro lato, e non è cosa sicuramente meno importante, si devono fare riflessioni concrete, tecniche come si dice, per vedere quali concreti cambiamenti questi «compromessi», che ci vengono presentati come positivi, comportino. Si deve vedere se, effettivamente come dice la consigliera nazionale Marina Carobbio, questa riforma faccia «più che compensare» l’aumento di un anno dell’età pensionistica per le donne.
Una verifica questa che non necessita grande impegno e che chiunque, partendo dalla propria presunta rendita AVS, può fare. Se prendiamo come base di calcolo una rendita di 2.000 franchi mensili (la rendita di vecchiaia mensile media per le donne e per gli uomini ammonta oggi a circa 2.025 franchi), vediamo come l’anno in meno di prestazioni rappresenti per una pensionata una perdita di 24.000 franchi (2.000 franchi per 12 mensilità). La «compensazione» prevista è di 70 franchi mensili, cioè 840 franchi l’anno. Andando in pensione un anno dopo, la donna in questione impiegherà esattamente 28,5 anni per recuperare i 24.000 franchi persi con l’aumento dell’età pensionistica. Il che significa che si rimetterà in pari a partire dai 93 anni e mezzo.
Non si tratta, vale la pena ricordarlo, di una situazione isolata. Basti evocare il fatto che per il 38% delle pensionate l’AVS è l’unica fonte di reddito e che, difficilmente, il secondo pilastro potrà migliorare la loro condizione. Un secondo pilastro che per le donne (per una serie di ragioni legate alla loro posizione discriminata sul mercato del lavoro) diventa sempre più una chimera. E che, non dimentichiamo, vedrà ulteriormente diminuire le rendite a seguito della prevista diminuzione (anche questo fa parte delle riforma della previdenza vecchiaia 2020) del tasso di conversione dal 6,8% al 6%: in pratica una diminuzione delle rendite LPP di circa il 12%.
Abbiamo visto come è andata a finire a Berna.Ma è chiaro che ci sono ragioni politiche, sulle quali si dovrà tornare, e ragioni concrete (il calcolo che abbiamo qui esposto) che militano contro il «compromesso» proposto dagli Stati e che inducono a sostenere un referendum che possa bloccare un peggioramento reale per i futuri pensionati. Senza dimenticare che per gli attuali pensionati la riforma non comporterà di fatto alcun significativo miglioramento delle rendite.
*Opinione apparsa sul Corriere del Ticino del 21.3.2017