di Benoit Blanc
Rieccoci: è ripartita alla grande la campagna che annuncia lo tsunami dei costi della salute, pronto a devastare l’economia svizzera e il budget delle famiglie. Da un lato, la stampa domenicale del gruppo Tamedia (Sonntags Zeitung e Le Matin Dimanche) dà spazio alle tesi di un economista della salute, Stefan Felder, che chiede niente di meno che un razionamento delle cure, perché “non è possibile continuare all’infinito con l’esplosione dei costi” (Matin Dimanche, 29.1.2017).
Dall’altro, l’agenzia di consigli EY (Ernst & Young) annuncia che “i premi dell’assicurazione malattia sono destinati a più che raddoppiare entro il 2030 e diverranno insostenibili per una grande fetta della popolazione” (comunicato stampa del 31 gennaio 2017). La conclusione, declamata o suggerita, è che sarà necessario “fare dei sacrifici” e accettare che alcune cure, oggi rimborsate e accessibili a tutte e tutti, non lo saranno più in futuro.
Questa campagna si fonda su di un ragionamento viziato, che può essere così riassunto: l’aumento dei premi dell’assicurazione malattia, insostenibile per molte persone (il che è vero), sarebbe il semplice riflesso dell’aumento dei costi della salute (il che è, invece, falso). Ne consegue che, per fare in modo che i premi restino sopportabili, l’unica soluzione è accettare di comprimere i costi della salute, limitando l’accesso alle cure (secondo varie modalità di razionamento) o aumentando la produttività dei fornitori delle cure (chiusura di ospedali, industrializzazione delle cure, etc). Questo sofisma costituisce uno dei principali argomenti adoperati da coloro che vogliono, da un lato, fare sempre più della salute un mercato e, dall’altro, smantellare i diritti sociali nell’ambito dell’accesso alle cure. Quest’ultimo obiettivo fa peraltro parte, insieme all’indebolimento delle pensioni, dell’ampia campagna che mira a comprimere le “spese sociali” per meglio defiscalizzare il capitale e i redditi più elevati.
Un professore “indipendente”
Stefan Felder è la nuova stella mediatica dell’economia della salute in Svizzera. Dal 2111 è professore di economia della salute presso l’Università di Basilea. Più precisamente titolare dell'”Interpharma Stiftungsprofessur”. Si tratta in sostanza di una cattedra finanziata da Interpharma, la lobby dei grandi gruppi farmaceutici della città renana. Stefan Felder è stato nominato a questo ruolo su iniziativa di Silvio Borner (Basler Zeitung 16.1.2010), un economista noto per essere stato negli anni 1990 in prima linea nella lotta per la liberalizzazione e la deregolamentazione in Svizzera e fra gli ispiratori dei due “Libri bianchi” che hanno strutturato questa vincente offensiva sociale e politica condotta dalla borghesia elvetica. Il direttore di Interpharma, Thomas Cueni, ha partecipato, senza diritto di voto, al comitato che ha selezionato Felder.
Ma, inutile precisarlo, Stefan Felder “è indipendente”, come sostiene Cueni, e i suoi “unici obblighi sono nei confronti della verità”, come afferma lui stesso (BaZ, 16.10.2010). Un esempio: il primo febbraio 2017, Felder firma un intervento nella Neue Zürcher Zeitung in cui denuncia il progetto del Consiglio di Stato zurighese – che sarà molto probabilmente affossato dalla maggioranza di destra del Gran Consiglio – di imporre una tassa progressiva sugli estremamente redditizi soggiorni ospedalieri privati, all’interno di un piano d’austerità imposto ai servici pubblici cantonali (le altre misure riguardano tagli alle prestazioni o comportano il deterioramento delle condizioni del personale). Per Felder, questa “imposta Hirslanden” (così chiamata perché sarebbero proprio le cliniche di questo gruppo a dovervi contribuire maggiormente) è assimilabile alla “strategia di un monopolio”, che ha lo scopo di rinforzare il vantaggio comparativo degli ospedali pubblici a scapito del privato. Guarda caso, lo scorso settembre l’associazione delle Cliniche Private Svizzere (CPS) a reso pubblico uno “studio dell’Università di Basilea [che dimostra] la portata dei potenziali danni della carente [sic] gestione dei cantoni nel campo del finanziamento ospedaliero” e che esige dunque che i mandati di prestazioni ospedaliere siano “ormai imperativamente attribuiti all’interno di una procedura concorrenziale alla quale un numero illimitato di concorrenti hanno la possibilità di partecipare”. In altre parole, ciò che si chiede è che le cliniche private possano fare affari senza alcuna restrizione. Ed è stato proprio l’indipendente professor Felder a dirigere questo studio, finanziato anche da Hirslanden. Non vi è alcun dubbio: tutto ciò che scrive Felder nell’ambito della salute è oro colato.
Esplosione dei costi: più è grossa, più ci credono
116 miliardi di franchi: sarà questo il montante delle spese sanitarie nel 2030, secondo la stima di Ernst&Young (EY). È un montante che deve render visibile l’inesorabile “esplosione” dei costi della salute. E fare paura.
Ma c’è veramente di che aver paura? Per rispondere a questa domanda è necessario mettere questa cifra in prospettiva, ciò che EY evita accuratamente di fare. Ecco dunque alcune cifre comparative utili.
1. L’ultima stima ufficiale compiuta dall’Ufficio federale di statistica (UFS) delle spese sanitarie in Svizzera è di 71 miliardi nel 2014, ovvero l’11,1% del prodotto interno lordo (PIL). Nel 1995, le spese sanitarie erano valutate all’incirca a 36 miliardi, cioè la metà. La Svizzera sembra essere sopravvissuta a questa prima “esplosione”. E per un semplice motivo: durante lo stesso periodo, la ricchezza prodotta a livello dell’intera società, rappresentata dal PIB, è anch’essa aumentata con forza, sebbene in modo meno rapido rispetto alle spese sanitarie, che nel 1995 rappresentavano l’8,8% del PIL. Se confrontata con l’evoluzione della ricchezza globale, l’esplosione si trasforma così in una lenta crescita.
2. Questa lenta crescita è comune a tutti i paesi che presentano un livello di sviluppo economico e sociale simile a quello svizzero. Nel 2014 il rapporto tra le spese sanitarie e il PIL era simile al nostro ad esempio in Svezia (11,2%), in Francia (11,1%), in Germania (11%) e in Olanda (10,9%). Questa simile evoluzione riflette semplicemente la capacità dei “paesi ricchi” a consacrare una parte più importante delle loro risorse ai sistemi di salute (senza entrare qui nel merito dell’efficacia, della pertinenza o del prezzo delle prestazioni offerte da questi sistemi), e ad altri servizi per la popolazione (formazione, asili-nido, etc). Questa evoluzione non costituisce un ostacolo allo sviluppo economico, al contrario, il settore della salute rappresenta oggi uno dei motori principali della crescita, sia in termini d’impiego sia in termini di innovazioni. Questo sviluppo dei servizi sanitari non è dunque una minaccia per la ricchezza di una società, bensì l’illustrazione di questa ricchezza e un contributo alla sua stessa creazione.
Vi sono, tuttavia, tra i paesi “sviluppati” due eccezioni a questa evoluzione. Da un lato, alcuni paesi, come la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda e la Grecia hanno tagliato pesantemente le spese sanitarie a causa della pressione della crisi del debito e dei brutali programmi di austerità che sono stati imposti. E in questi paesi, dunque, “l’esplosione” dei costi sanitari è stata schiacciata… Dall’altro, gli Stati Uniti, paese in cui le spese sanitarie rappresentavano nel 2014 ben il 16,6% del PIL (16,9% nel 2015), molto di più che in qualsiasi altro paese. Sono ormai 20 anni che il livello delle spese sanitarie negli Stati Uniti supera il livello registrato nel 2014 nei paesi europei più ricchi. Il sistema sanitario statunitense – in cui il settore privato detta legge, come Felder e i vari altri discepoli del mercato vorrebbero che accadesse anche in Svizzera – è indubbiamente una mostruosità. Abbiamo, infatti, da un lato, decine di milioni di persone prive di qualsiasi copertura sanitaria e con enormi difficoltà di accesso alle cure in caso di necessità e, dall’altro, compagnie di assicurazioni, mutinazionali farmaceutiche e altre catene ospedaliere che si rimpinzano senza alcuna vergogna a questo enorme banchetto. Ciononostante, questa porzione sovradimensionata del PIL consacrata alla salute non ha frenato la crescita economica degli Stati Uniti, che è anzi spesso additata come “esemplare”.
3. I 116 miliardi di franchi prospettati per il 2030 da EY, e stabiliti grazie alla valutazione “di ingenti quantità di dati” – perché bisogna pur vender bene le proprio chiacchiere –, corrispondono in modo abbastanza preciso alle cifre pubblicate nel 2007dall’Ufficio federale di statistica (UFS) in uno studio realizzato sotto la direzione del professore Claude Jeanrenaud dell’Università di Neuchatel: i costi della salute in Svizzera nel 2030 erano stimati a 111 miliardi di franchi (UFS 2007, Déterminants et évolution des coûts du système de santé en Suisse. Revue de la littérature et projections à l’horizon 2030). Si stimava inoltre che questo montante avrebbe rappresentato il 15,4% del PIL. Visto che, nel frattempo, il PIL è stato rivisto al rialzo, questa percentuale dovrebbe essere più debole. Nel 2008, il Dipartimento federale delle finanze aveva dal canto suo pubblicato alcune previsioni sull’evoluzione delle spese sanitarie, stimandole a un 15,5% del PIL verso il … 2050 (Dipartimento federale delle finanze 2008, Scénarios prévisionnels pour le domaine de la santé. Extrait du rapport sur le plan financier 2009–2011 de la législature du 23 janvier 2008).
Prendendo per buone queste previsioni, le risorse consacrate alla salute in Svizzera nei prossimi decenni resteranno dunque nettamente al di sotto delle spese che gli Stati Uniti conoscono da ormai quasi 10 anni (15% e più del PIL), senza esser sprofondati, per questo motivo, nel caos. [Stefan Felder, invece, non esita ad agitare lo spettro delle spese sanitarie che raggiungeranno “un giorno il 20%” del PIL (NZZ, 14.12.2016). Ma tutto è permesso ad un professore…] Gli iperbolici 116 miliardi di EY si sgonfiano così del tutto.
L’imbroglio dei premi delle casse malati
Se l’evoluzione delle spese sanitarie non pone particolari problemi da un punto di vista economico generale, è tuttavia evidente che i premi delle casse malati, e più in generale le spese delle famiglie per la salute, sono diventati un fardello insostenibile per una sempre maggiore porzione della popolazione. Come spiegare questo paradosso? Semplicemente guardando il modo in cui il finanziamento è ripartito. Il finanziamento delle spese sanitarie in Svizzera è, in effetti, contraddistinto da un doppio scandalo sociale.
1. In primo luogo, una parte enorme delle spese sanitarie sono finanziate direttamente dalle famiglie. Si tratta delle spese “out of pocket”, che includono in particolare le prestazioni o i medicamenti non presi a carico dall’assicurazione malattia, le franchigie (che variano dai 300 ai 2500 franchi all’anno) e le partecipazioni ai costi rimborsati (10%, fino a un limite di 700 franchi all’anno) all’interno dell’assicurazione malattia, i costi dentari, senza dimenticare le spese non rimborsate per i soggiorni in casa-anziani o per gli aiuti-domiciliari. Nel 2014, quasi un franco su quattro spesi per la salute (24,5%) è stato finanziato direttamente dalle famiglie. A titolo di confronto, questa parte rappresenta il 13% in Germania e o il 7% in Francia (la media dell’Unione Europea è del 15%). Logicamente, più è elevata la parte delle spese “out of pocket”, maggiore è proporzionalmente il suo peso sulle persone con un reddito debole.
2. In secondo luogo, il finanziamento dell’assicurazione malattia obbligatoria, che copre più di un terzo delle spese sanitarie (36,5% nel 2014), avviene tramite dei premi a testa, cioè dei premi indipendenti dal reddito. Il contributo mensile all’assicurazione è, ad esempio di 400 franchi a testa, sia che si abbia un salario di 4000.- o di 40’000.- al mese. Pesa così 10 volte di più sul budget di una venditrice che su quello di un manager di EY. Questo sistema di premi a testa significa anche che i datori di lavoro non versano un centesimo di contributo “patronale” all’assicurazione malattia. Il “contributo patronale”, che non è nient’altro che un salario indiretto, è parte integrante del finanziamento di tutte le assicurazioni sociali (AVS, assicurazione invalidità, incidenti, disoccupazione, maternità) e fa parte del finanziamento della copertura sanitaria in tutti i nostri paesi vicini che hanno un sistema assicurativo.
3. È questo doppio meccanismo – premi non proporzionali al reddito ed assenza di un contributo “patronale” – che ha fatto salire a questi livelli i premi delle casse malati. Si può dimostrare facilmente (cf. l’articolo ….) che un sistema di contributi proporzionale al salario, secondo il modello AVS, del 4% sarebbe oggi sufficiente a finanziare l’assicurazione malattia, senza modificare il contributo pubblico. Ciò significa che una famiglia composta da 2 adulti e 2 bambini, con un reddito di 10’000.- al mese, dovrebbe pagare all’incirca solo 400.- mensili di assicurazione malattia, e non più di 1’000.- come è probabilmente il caso con l’attuale sistema. Un contributo salariale del 6% (600.- al mese per la famiglia presa ad esempio) sarebbe sufficiente per finanziare l’insieme delle attuali spese delle famiglie (cioè sia i premi delle casse malati sia le spese “out of pocket”).
Il fatto che, da molto tempo ormai, questa opzione sia bloccata risponde a tre obiettivi cruciali per la borghesia elvetica: frenare lo sviluppo delle assicurazioni sociali; mantenere un sistema che permette agli assicuratori privati attivi nel campo della malattia di sviluppare i loro affari e, infine, costruire grazie all’aumento dei premi un obbligo economico che pesa su larghi settori della popolazione. Questa pressione economica è il mezzo per imporre la presa in considerazioni di misure, come il razionamento, che altrimenti non avrebbero alcuna possibilità di passare.
Realtà diminuita con i ” Felder glass”/le “lenti Felder”
L’appello di Stefan Felder in favore di un razionamento delle cure illustra tale logica: “non vedo nessun altra opzione [nostra sottolineatura] al di fuori della riduzione del catalogo delle prestazioni dell’assicurazione di base” per combattere “l’esplosione dei costi”. Lasciando ora perdere il falso problema della “esplosione”, diverse altre opzioni saltano agli occhi di ogni persona che non indossa dei “Felder glass” a realtà diminuita. Ad esempio:
1. Un finanziamento dell’assicurazione malattia tramite contributi AVS, come illustrato in precedenza.
2. Una messa in discussione dei prezzi folli imposti dall’industria farmaceutica (Roche in testa), ad esempio nel settore dell’oncologia. Questi prezzi sono denunciati come “indecenti” da Médecins du monde, che ha lanciato una petizione in merito, e anche da molti oncologi, come Franco Cavalli, presidente dal 2006 al 2008 dell’UICC (Unione internazionale contro il cancro) ed attuale presidente del comitato scientifico della Scuola europea di oncologia.
3. L’instaurazione di condizioni di lavoro rispettose della salute delle lavoratrici e dei lavoratori. Uno studio pubblicato nel 2000 dal Segretariato all’economia (Seco) stimava a 1,7 miliardi circa i soli costi medici dovuti allo stress (Seco 2000, I costi dello stress in Svizzera).
Razionare… gli altri
Ma tutto questo non rientra nel campo di visione di Stefan Felder. Il titolare della cattedra Interpharma che qualifica il prezzo dei farmaci contro il cancro di Roche come “indecente”? Ma, per favore, non esageriamo! Non ci sono dunque “altre opzioni” al di fuori del razionamento delle prestazioni.
Per capire cosa significhi concretamente, prendiamo l’esempio della protesi dell’anca, che Stefan Felder non vorrebbe più rimborsare tramite l’assicurazione di base alle persone con più di 85 anni.
Chi sarebbe toccato da questa misura? Quasi una persona su due morta nel 2015 (46%) aveva più di 85 anni. La speranza di vita a 85 anni è di ancora 6 anni per gli uomini e di 7 per le donne. Potenzialmente, dunque, il razionamento proposto da Felder non concernerebbe solo pochi rari sopravvissuti ormai prossimi alla morte, ma una larga frangia della popolazione che oggi arriva a quest’età e ben oltre.
Quali sono le cifre in gioco sul piano economico? Sulle circa 24’000 protesi all’anca praticate annualmente, circa una su otto (ovvero meno di 3’000) sono destinate a persone che hanno più di 85 anni (includendo anche le sostituzioni di protesi già posate in precedenza; e, tra l’altro, cosa bisognerebbe fare in questi casi secondo Felder?). Il costo medio di un’ospedalizzazione per una protesi all’anca ammontava nel 2011 a poco meno di 20’000.- (UFS 2013, Côut des prises en charges hospitalières 2011). Il non-rimborso proposto da Felder significherebbe un presunto risparmio di circa 60 milioni di franchi. Ovvero un millesimo delle spese sanitarie e due millesimi delle spese sanitarie coperte dall’assicurazione malattia obbligatoria. È così che si ferma “l’esplosione” dei costi della salute? Difficile crederci, a meno di non considerare questo esempio come un semplice antipasto, in attesa del piatto principale che demolirà il catalogo delle prestazioni dell’assicurazione malattia. Oppure – come sembra più plausibile a breve termine – il vero obiettivo del razionamento di Felder non riguarda tanto l’evoluzione delle spese sanitarie, bensì l’ampliamento del campo di attività delle assicurazioni private e delle cliniche private. E in tal caso, inutile parlare di “esplosione dei costi”, perché c’è di che fare profitto…
Se l’impatto economico di una simile misura sarebbe minimo, l’effetto per le persone toccate si rivelerebbe al contrario brutale, in termini di salute e di condizioni di vita. La persona a cui la protesi sarebbe rifiutata, dovrebbe far fronte a dolori lancinanti e a una perdita importante della sua autonomia che inciderebbe in modo molto negativo sulla sua vita. Con ogni probabilità si accentuerebbe il suo isolamento sociale e si avrebbe anche un’accelerazione del peggioramento della sua condizione di salute generale. Questo significherebbe anche un maggior carico per i familiari curanti (col rischio dello sfinimento di questi ultimi), un aumento delle visite mediche, un maggiore ricorso ai servizi di cura a domicilio e, infine, un più precoce ricovero in casa-anziani. E tutto ciò, tra l’altro, finirebbe per provocare spese supplementari per la salute, spese che i “Felder glass” sembrano non inquadrare.
Si pone, inoltre, un problema di coerenza di fondo: se le protesi all’anca non sono più difendibili passati gli 85 anni dal punto di vista del rapporto costi/benefici, come sostiene Felder, perché allora trasferire la loro presa a carico alle assicurazioni complementari e non invece rinunciarvi del tutto? Forse perché non sono in realtà così completamente inutili per coloro che potranno permettersele, come ad esempio i professori in pensione. Ma allora il razionamento di Felder altro non è che l’ennesimo colpo di pala con cui si scava una delle più scandalose disuguaglianze sociali delle nostre società, ossia la disuguaglianza nei confronti della salute.
Va infatti ricordato che in Svizzera la speranza di vita di un uomo di 30 appartenente ai piani bassi della scala sociale (misurata tenendo conto del livello di formazione) è di 4,6 anni di meno che quella di un uomo appartenente ai piani alti. Per le donne questa differenza è di 2,3 anni. Le disuguaglianze sociali per quel che riguarda lo stato di salute sono ancora più marcate. Ma, per il professor Felder, “non ci sono altre opzioni”: gli uomini e le donne che hanno faticato tutta una vita nei cantieri o tra gli scaffali dei supermercati devono rassegnarsi a vivere coi dolori all’anca, se non sono stati capaci di pagarsi un’assicurazione malattia complementare.
Ipocrisia non razionata
Per far passare le sue tesi, il professor Felder non esita a indossare i panni del difensore dell’uguaglianza. Quando gli si chiede se non vi sia un problema nel proporre una medicina a due velocità, risponde: “La medicina a due velocità esiste da tempo, ma è nascosta. I medici praticano un razionamento implicito. E ciò mina l’uguaglianza di trattamento. […] Se definiamo dei criteri chiari, questo razionamento diverrebbe esplicito e dunque molto più trasparente.” Che ingenui a non averlo capito subito: se Stefano Felder vuole razionare le cure solo per coloro che non possono pagarsele è perché vuole ristabilire “l’uguaglianza di trattamento”!
Per produrre un simile concentrato di ipocrisia, Stefan Felder suggerisce un confronto ingannevole tra la sua ghigliottina economica e il fatto che la pratica medica presuppone spesso una serie di scelte circa il ricorso o meno ad un trattamento a seconda dello stato di salute di un paziente. Nel compiere queste scelte si prendono in considerazione alcuni criteri come la valutazione dell’efficacia medica del trattamento nel quadro della situazione concreta del paziente, il rispetto della volontà del paziente, i problemi di priorità in caso di urgenza e di risorse limitate ed anche il rispetto del principio di non-discriminazione. Una deliberazione di questo tipo, che può condurre alla rinuncia ad un atto medico in un caso e non in un altro, è per sua stessa definizione accompagnata da un margine di interpretazione, di controversia, dunque di differenze ed anche di errori. Ma questo non ha nulla a che vedere con la ghigliottina economica e discriminatoria di Felder, per cui tutto ciò che non ha un rapporto costi/benefici sufficiente non è più rimborsato, eccetto per coloro che possono permettersi di pagare un’assicurazione privata!
È ormai indubbio che le “considerazioni economiche” tendono ad invadere sempre più la pratica medica. Da diversi decenni, e in particolare dall’entrata in vigore nel 1996 della Legge sull’assicurazione malattia (LAMal), un’alleanza di forze politiche, sociali ed economiche spinge continuamente affinché il sistema sanitario sia sempre più subordinato ai meccanismi del mercato. Con lo scopo di allargare i settori di attività redditizi per l’industria farmaceutica, le cliniche private e i vari assicuratori. E aumentando la pressione economica su tutto ciò che implica un finanziamento pubblico o sociale: il catalogo delle prestazioni “troppo completo”, gli ospedali pubblici “troppo numerosi”, etc. I discorsi con cui ci stordiscono – martellandoci incessantemente il ritornello dell'”esplosione dei costi” e del “non ci sono alternative” – hanno la funzione di far passare queste politiche molto interessate come una semplice fatalità: “non ci sono altre opzioni”. Il professor Felder si dedica anima e corpo a questa missione. Interpharma ha fatto di sicuro un buon affare con la sua cattedra “indipendente”.