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di Chiara Carratù

L’8 marzo il movimento femminista è tornato protagonista assoluto delle piazze di oltre 48 paesi. L’appello lanciato da Niunamenos ha fatto riempire oltre 300 piazze, dall’Europa alle Americhe, dall’Australia all’Africa, passando per l’Asia.

La determinazione alla lotta delle donne ha fatto sì che questa giornata difficilmente possa essere derubricata come celebrazione o festa e che con altrettanta difficoltà potrà essere messa tra parentesi come un evento isolato: l’8 marzo 2017 è stata una delle tappa di un percorso internazionale del quale non si potrà non tenere conto nei prossimi mesi e che ha visto già altri momenti di mobilitazione, come gli scioperi delle donne polacche e argentine nell’ottobre 2016, come la straordinaria manifestazione del 26 novembre a Roma e come #womensmarch del 21 gennaio, che è stata una delle mobilitazioni più grandi degli ultimi decenni negli Stati Uniti.

L’appello delle donne argentine è stato chiaro e unificante fin da subito: si scende in piazza contro il patriarcato mondiale per dire basta ai femminicidi e alle violenze di genere, per chiedere un cambio di sistema e non toppe emergenziali che non ne scalfiscono la struttura e non ne mettono in discussione le radici. L’obiettivo riuscito è stato quello di rendere visibili i corpi di chi ogni giorno subisce la violenza domestica, la violenza della guerra, della tratta e delle migrazioni, la violenza ostetrica e dell’assenza di un welfare gratuito e accessibile a tutte, la violenza della povertà, della precarietà, della disoccupazione e della restrizione dei diritti, la violenza della devastazione ambientale e dell’inquinamento. Questo è stato anche uno sciopero per stare vicine a tutte quelle donne rinchiuse nelle carceri in giro per il mondo che subiscono la violenza degli apparati dello stato. “Non una di meno” è stato uno degli slogan della giornata e non una in meno doveva essere nelle piazze e nelle strade con noi.

Le iniziative dell’8 marzo sono diventate così anche oceaniche manifestazioni contro le politiche di austerità, contro il capitalismo e contro il neocolonialismo che colpisce in particolare le donne del Sud del mondo e le migranti. Così nelle piazze dell’America Latina, dove negli ultimi anni sono in aumento i femminicidi politici, sono state ricordate le ambientaliste femministe, come l’attivista honduregna Berta Caceres, uccisa un anno fa perché si opponeva alle multinazionali che stavano causando la devastazione ambientale del territorio dove viveva.

Secondo i dati della FAO (organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura), nei paesi cosiddetti in via di sviluppo, le donne sono il 45% della forza lavoro agricola e di queste il 20% sono in America del Sud e il 60% in Africa e Asia. È la FAO stessa che ricorda come l’accesso delle donne alle risorse naturali e all’educazione sia limitato da norme sociali, leggi e abitudini discriminatorie che impediscono loro anche una partecipazione attiva alla vita collettiva e politica. Uno dei dati di questa esclusione è il gap salariale che in maniera del tutto ipocrita è denunciato anche da molte istituzioni: a livello mondiale, ad esempio, solo il 25% delle donne lavora nell’industria digitale e la differenza salariale tra uomini e donne è in media del 23%, ma si eleva al 40% nel caso delle donne afroamericane negli Stati Uniti mentre i fatti dimostrano che i livelli di malnutrizione e povertà diminuiscono proprio quando le donne hanno accesso alla formazione e ad opportunità di lavoro.

In Italia, l’8 marzo è stato segnato da cortei e assemblee, nelle strade e nelle scuole, negli ospedali e nelle università al punto che è davvero difficile enumerare le tantissime iniziative di cui la cifra più bella è stata l’ampio protagonismo delle donne che hanno interrotto lezioni all’università e nelle scuole, che hanno sanzionato le farmacie che non distribuiscono la pillola del giorno dopo e fatto presidi sotto le istituzioni che nei fatti permettono che gli ospedali pubblici siano pieni zeppi di obiettori di coscienza, che hanno tenuto assemblee e lezioni in piazza per rivendicare un altro tipo di formazione e di educazione, che hanno scioperato, nonostante la risposta delle burocrazie sindacali non sia stata all’altezza della situazione e delle aspettative del movimento Non Una di Meno (NUDM).

Se il sindacalismo di base ha raccolto subito l’invito del movimento e ha indetto lo sciopero, così non è stato per il sindacalismo confederale. In particolare la Cgil ha avuto un percorso verso l’8 marzo con molte più contraddizioni di CISL e UIL che fin dall’inizio hanno deciso di promuovere solo iniziative unitarie, simboliche e istituzionali. Anche la Cgil sembrava avviata su questa strada: la segretaria generale, Susanna Camusso non è stata disponibile a indire lo sciopero generale, ma ha dovuto dare il via libera nelle singole realtà territoriali dove le delegate e le lavoratrici hanno potuto attuarlo. La spinta esercitata dal basso ha portato alla fine anche la FLC CGIL a indire lo sciopero di otto ore per la categoria della conoscenza, coinvolgendo il mondo della scuola, dell’università e della ricerca.

La funzione trainante del movimento nei confronti degli apparati sindacali non si è conclusa qui ma è continuata con un’ulteriore richiesta: alla diffusione della notizia di abusi e intimidazioni nei luoghi di lavori verso chi si accingeva a scioperare, le attiviste hanno chiesto «di vigilare, affinché fosse garantito alle lavoratrici l’esercizio di un diritto individuale sancito e tutelato dalla Costituzione. Perché non indire lo sciopero è legittimo, impedirne l’esercizio no». L’atteggiamento della burocrazia sindacale non deve meravigliarci; è quello che essa assume quando, di fronte ad uno sciopero che ha delle forti possibilità di riuscita: vuole starci dentro senza restare ai margini ma allo stesso tempo vuole tenerne a bada la radicalità, per evitare che acquisiscano forza le ali più combattive e meno disposte al compromesso.

L’elemento che, invece, dobbiamo valorizzare è il carattere di questo sciopero che, pur essendo stato a macchia di leopardo, ha visto l’adesione e la partecipazione di diversi settori: dal trasporto pubblico che ha mandato in tilt la capitale, alle metalmeccaniche della Necta di Bergamo e della Electrolux di Susegana, dalle insegnanti che hanno portato in piazza anche l’opposizione alla Buona Scuola e ai decreti di recente approvazione alle maestre degli asili nido comunali, dalle impiegate del comune di Milano alle lavoratrici licenziate da Almaviva che non hanno ceduto alla rassegnazione ma che, ancora una volta, hanno voluto portare la loro protesta in piazza, saldandola a quella delle altre donne.

È stata la combinazione non scontata di tutti questi elementi che ha fatto sì che ci fossero cortei in tantissime città italiane, dalle più grandi e capoluogo di provincia alle più piccole e periferiche. Quella dell’8 marzo è stata una vera propria marea in movimento che ha riacceso gli entusiasmi di quanti in questi anni non hanno smesso di credere nella possibilità di costruire mobilitazioni radicali e di massa, continuando a scommettere sulla disponibilità e la voglia di lottare che attraversa anche il nostro paese.

Lo stesso percorso del movimento NUDM fino a questo punto non stato un cammino lineare e privo di dialettica: le assemblee di Roma e di Bologna sono servite anche a costruire una presenza in piazza che non fosse solo testimoniale o simbolica, come alcune aree del movimento auspicavano. La richiesta di tenere una linea radicale, di lotta concreta, con strumenti reali di lotta è stata una conquista strappata alla dialettica interna al movimento ed è su questa strada che bisogna proseguire nei prossimi mesi, provando ad allargare ulteriormente la partecipazione, dandosi come obiettivo la costruzione di un forte radicamento territoriale.

La giornata dell’8 marzo è stata individuata fin da subito come una tappa naturale nel percorso che il movimento italiano sta realizzando, verso la scrittura del piano femminista contro la violenza; l’aver individuato fin dall’inizio un obiettivo condiviso da tutte e un percorso che non si chiudesse con la grande manifestazione del 26 novembre è stato uno dei punti di forza di questo movimento insieme ad una piattaforma chiara e aperta che ha permesso il mantenimento dell’unità e la condivisione di pratiche e obiettivi concreti, evitando così che le numerose differenze, che pure ci sono tra i diversi collettivi e associazioni che animano NUDM, prendessero il sopravvento. L’internazionalismo di questa nuova ondata femminista è un elemento in controtendenza rispetto a quel che succede in giro per il mondo e rispetto alla piega nazionalista entro cui si stanno chiudendo molti movimenti, anche di sinistra.

Nei prossimi mesi il movimento delle donne, sia a livello globale che in Italia, farà ancora parlare di sé e sta indicando una strada anche a tutti quegli altri movimenti, in primis al movimento operaio, indebolito dalle sconfitte e dalle offensive subite in questi anni. Certo non mancano le difficoltà; ancora molto deve essere fatto dal punto di vista territoriale per un coinvolgimento maggiore sia delle lavoratrici che di altre donne ma le basi gettate in questi mesi fanno ben sperare. Abbiamo di fronte una delle sfide più concrete che ci siano palesate in questi anni; la scommessa è non solo mettere in discussione l’esistente ma costruire le basi del cambiamento.