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di Lucio Finzi

Imprenditoriale, competitivo, interconnesso, digitale, sostenibile: basterebbe ricordare questi cinque aggettivi che accompagnano il termine Ticino nei cinque capitoli del documento finale del Tavolo di lavoro sull’economia ticinese per rendersi conto di quale sia la prospettiva che lo anima.

La logica che muove queste scelte è evidente: solo dalle imprese, dalla loro capacità di investimento e di profitto verrà la salvezza del Cantone, il suo sviluppo produttivo ed economico futuro. Nulla di originale se non il vecchio schema del capitale riproposto qui in chiave neoliberista.
Perché appare evidente, leggendo il documento, che le imprese, da sole, non ci arrivano. Ed allora ecco l’intervento dello Stato che, come nella più classica delle politiche neoliberali, deve foraggiare questo sviluppo sia attraverso gli investimenti propri, sia attraverso altre leve fondamentali: da quella fiscale e quella formativa.
La tesi di fondo è che lo sviluppo del Cantone conseguente a questo sforzo porterà occupazione, benessere e occasioni di reddito per tutti e tutte. Una sorta di paese di Bengodi dove il valore creato sarà così diffuso e cospicuo da permettere non solo la realizzazione di profitto, ma una sua distribuzione anche a coloro che questa ricchezza concorrono in modo determinante a produrre, cioè i lavoratori e le lavoratrici salariati.

La leva statale

Le indicazioni relative alle principali scelte di orientamento richiamate in entrata sono poi declinate in proposte concrete che, seppur ancora generiche, danno comunque il “tono” di quel che si va preparando.
Così, ad esempio, allo Stato si chiede uno sforzo enorme nella messa a disposizione, diretta o indiretta, di capitale che possa favorire la creazione di aziende (particolare l’attenzione ossessiva per le cosiddette start-up). Qui gli interventi sono i soliti: dalla messa a disposizione di capitale, al reperimento di terreni (magari riorganizzando aree dismesse), alla politica fiscale.
Naturalmente nessuno si è chiesto come mai se queste attività sono così promettenti, il capitale, ad esempio, non lo mettano – facilmente – a disposizione le grandi banche; una domanda alla quale sicuramente uno dei protagonisti del tavolo- il gran patron di UBS – sarebbe stato in grado di rispondere…
E invece questo lavoro dovrà farlo ancora lo Stato, attraverso meccanismi diretti e indiretti (BancaStato, il tecnopolo, etc.), ancora una volta con denaro pubblico per interessi privatissimi.
Che queste prospettive imprenditoriali (pensiamo alle start-up) siano più cartacei che reali lo potrebbero confermare i numerosi fondi creati a questo fine (già almeno un paio di volte si è mossa in questa direzione BancaStato) che molte volte sono rimasti inutilizzati…
Ma, evidentemente, la novità potrebbe essere costituita da un’altra leva importante, sempre a carico dello Stato, quello degli sgravi fiscali. Su questo punto il documento è assai preciso e concreto:”Cogliere l’occasione dei cambiamenti fiscali in atto a livello federale e internazionale per dotare il Cantone di un quadro legislativo moderno sia per le persone giuridiche…sia per le persone fisiche”. Modernità, come sempre per costoro, fa rima con sgravi fiscali.

Asservire la formazione

Se il grado di civiltà di un paese si giudica, tra le altre cose, dall’autonomia del livello culturale, possiamo dire che nelle prospettive del “Tavolo” essa è pari a zero. Raramente abbiamo trovato una formulazione così brutale dell’asservimento della formazione alle esigenze delle imprese: ” Sviluppare programmi e attività a favore della cultura imprenditoriale in tutti gli ordini scolastici, partendo ad esempio dall’esperienza didattica sviluppata in seno a fondounimpresa.ch”.
Il padronato dovrebbe essere contento di come stanno procedendo le cose. Dietro una fraseologica pseudo-egualitarista, La scuola che verrà marcia proprio in questa direzione, rivendicando la necessità di mantenere (riconoscendole e stabilizzandole) quelle differenze culturali (frutto di una differenziazione sociale) che porteranno il mercato del lavoro a disporre di molta manodopera tra la quale poter scegliere i migliori profili.

E la dimensione “sociale”?

Si potrebbe pensare che la presenza sindacale al tavolo abbia contribuito a rafforzare l’impronta sociale del progetto. Ma si sbaglierebbe a pensare questo: il testo fa brevissimi accenni a questa dimensione (ascrivendoli ad un Ticino “sostenibile”i cui contorni non sono nemmeno accennati, forse perché la vita diventa sempre più “insostenibile” per la maggioranza dei salariati che vi vivono e vi lavorano). E persino il “punto forte” (si fa per dire) della strategia sindacale odierna, quel partenariato sociale che dovrebbe essere rafforzato, si presenta come qualcosa di assolutamente vuoto e, nel solo accenno che vi si fa, esso viene recuperato ad una logica competitiva: “Valorizzare maggiormente il ruolo del partenariato sociale per far fronte ai cambiamenti in atto sul mercato del lavoro…”. Come dire, il compito dei sindacati è di pensare a rivendicare piani sociali…
Ora attendiamo il dettaglio di molte di queste proposte. Ma l’aria che tira è chiara: mani libere a ogni livello al padronato: solo dal trionfo della logica del profitto vi sarà salvezza e sviluppo.

Protagonisti e comparse
A farla da padroni, è proprio il caso di dirlo, nell’elaborazione, nella gestione e nella presentazione sono stati …i padroni, supportati dai rappresentanti di governo e partiti maggiori. La “star”, al quale è anche stato affidato il compito di presentare e commentare per i media il documento è stato il CEO di UBS Sergio Ermotti (accompagnato dall’intramontabile prof. Mauro Baranzini). Il quale ha spiegato la bontà di queste ricette per rilanciare l’economia ticinese.
Peccato che abbia dimenticato di ricordare quelle che ha utilizzato, di ricette, la sua banca per rilanciarsi all’interno dell’economia ticinese. La più importante è stata quella di ridurre di quasi la metà il personale negli ultimi 8 anni: infatti UBS Ticino nel 2016 occupava 820 persone; nel 2008 aveva più di 1’400 dipendenti!
Ma le soluzioni e le ricette di questo tipo per l’economia ticinese la banca di Ermotti le applica da decenni. Un sindacalista moderato come Mainrado Robbiani, per decenni segretario dell’OCST, intervistato qualche mese fa in occasione del suo pensionamento dal Corriere del Ticino che gli chiedeva quale fosse il ricordo più impressionante della sua carriera, così rispondeva: «Citerei un episodio puntuale ma che mi ha segnato. È il senso invasivo di impotenza che ho percepito in un incontro con i vertici di UBS a Zurigo nell’ambito della lotta per salvare la Monteforno di Bodio. Sono stato disgustato dal toccare con mano che, dietro una facciata di cortesia rituale, i giochi erano già stati decisi dalla banca abbondantemente al di sopra delle nostre teste, di ogni possibilità di discussione e di considerazioni a tutela dei lavoratori e del territorio». Ermotti e quelli come lui dovrebbero solamente stare zitti.
Le comparse, ancora una volta, sono quelli che amano giocare questo ruolo (ormai ci si deve accontentare di quello che passa il convento per piccoli momenti di celebrità e per avere – o per darla – l’impressione di contare qualcosa…). In questo caso la palma per la miglior comparsa va alle organizzazioni sindacali che si ritrovano ad essere partecipi di un progetto che è una vera e propria dichiarazione di guerra contro i salariati e i loro diritti. In particolare UNIA, che nei giorni festivi ama sfoggiare i panni di un sindacato antagonista (antenna ticinese del sindacalismo radicale europeo – si fa per dire), nei giorni feriali torna a rivestire i panni del più classico sindacalismo concertativo, tutto orientato verso il sostegno alla competitività del proprio territorio. Altro che internazionalismo proletario!