di Cristiano Dan
Il razzista non ha “sfondato”, e quindi l’Europa, tutta l’Europa, tira un sospiro di sollievo. Questo, grosso modo, il succo dei commenti di quasi tutti i quotidiani non schierati con la destra. Che Wilders non abbia “sfondato” è vero, e anche noi ne siamo naturalmente soddisfatti, ma da qui a sospirare di sollievo ce ne corre. Perché il quadro che emerge dal voto di ieri non è per nulla tranquillizzante.
Premesso che i dati su cui si può per ora ragionare sono ancora incompleti (riguardano il 95 % dei voti scrutinati; i risultati ufficiali definitivi arriveranno solo il 21 marzo), e che in un sistema elettorale basato sulla proporzionale pura anche differenze minime dello zero e qualcosa per cento possono comportare spostamenti di seggi, il quadro che per ora emerge è il seguente:
1) Il governo uscente, alleanza fra i liberali di destra del Partito popolare per la libertà e la democrazia (VVD) e i socialdemocratici del Partito del lavoro (PvdA), subisce una pesantissima sconfitta: aveva il 51,5 % dei voti nel 2012, e ora si ritrova con il 26,9 %, una perdita secca del 24,6 %, quasi un dimezzamento; disponeva di una maggioranza di 79 seggi su 150, e ora ne ha 42, ben 37 in meno. E dei due alleati, quello che paga il conto più salato è il partito socialdemocratico: dal 24,9 % del 2012 passa al 5,7 % (meno 19,2 %), e da 38 seggi passa a 9 (meno 29 seggi). Nel 2012 era il secondo partito del Paese, ora è il sesto: più che un tracollo, uno spappolamento. Nel confronto, il VVD appare quasi miracolato: scende infatti “solo” al 21,2 % dal 26,6 che aveva, e perde “solo” 8 dei 41 deputati di cui disponeva.
2) L’asse politico del Paese si sposta a destra. Infatti, la sinistra nella sua accezione più larga e generosa (comprendendovi cioè socialdemocrazia, verdi, anticapitalisti, animalisti e “musulmani socialdemocratici”) [1] passa dal 38,8 % del 2012 all’attuale 29,1 % (meno 9,7 %) e da 59 seggi a 45 (meno 14). Ciò che la sinistra perde si spalma su vari partiti di centro, centrodestra, destra ed estrema destra: più 4,0 % e più 7 seggi ai “liberali di sinistra” di Democratici 66 (D66), più 4,0 % e più 6 seggi all’Appello cristiano-democratico (CDA), più 3,0 % e più 5 seggi al razzista Partito per la libertà (VVD) di Wilders (cui vanno aggiunti un 1,8 % e due seggi del Forum per la democrazia [FvD], di estrema destra), e infine più 1,2 % e più due seggi al partito centrista dei pensionati 50 plus.
3) La destra “moderata” del VVD salva la mobilia estremizzandosi. Il VVD è riuscito infatti a ridurre le proprie perdite non sconfiggendo il PVV sul piano dell’antirazzismo, ma facendo proprie, in versione “moderata”, alcune delle tesi del PVV stesso, e cioè andando a occupare in parte il suo stesso spazio. Anche il noto incidente diplomatico con la Turchia (prescindendo per ora da una sua valutazione) rientrava in questa tattica (o strategia?). Si tratta di una lezione destinata a diffondersi in Europa? Probabilmente sì, anche perché ha già avuto dei precedenti in vari Paesi.
4) La crisi della socialdemocrazia si conferma anche in Olanda. Il crollo del PvdA rientra nella tendenza generale europea che vede la socialdemocrazia, convertita in gran parte alle ricette neoliberali, arretrare pesantemente, in preda a una lacerante “crisi di identità”: l’attuale 5,7 % dei voti è infatti il livello più basso raggiunto dal 1946 a oggi (il tetto lo aveva toccato nel 1978, con il 33,8 %). Il Partito del lavoro olandese paga così il prezzo di aver fatto parte di un governo che ha applicato ricette neoliberali, senza riuscire a distinguersene in alcun modo. Il guaio è che il suo crollo elettorale non viene per nulla compensato a sinistra, se non in minima parte. Infatti, il successo della Sinistra verde (GL), che sarebbe sciocco minimizzare in sé [2], va però relativizzato: solo poco più di un terzo di ciò che perdono i socialdemocratici finisce, apparentemente, a GL: il resto, salvo qualche rivolo andato a qualche formazione minore, si disperde sulla sua destra.
5) La sinistra anticapitalista non solo non s’avvantaggia della crisi socialdemocratica, ma fa qualche passo indietro. Nel panorama politico olandese l’unica formazione che si può classificare come anticapitalista (pur se con qualche riserva) è il Partito socialista (SP), dalle lontane radici maoiste. Formazione originale e interessante, sulla quale però non possiamo qui soffermarci [3], ha il pregio di essere saldamente ancorata a un programma attento agli aspetti economici e sociali, ma ha il grave difetto di sottovalutare pesantemente tutto ciò che esula da questa tematica. In particolare, il SP sembrerebbe non aver capito l’importanza che in queste elezioni aveva assunto il tema dell’antirazzismo, che ha mobilitato in modo particolare le giovani generazioni. E queste infatti sembrano essersi riversate in gran numero sulla Sinistra verde, che dell’antirazzismo ha fatto la sua principale bandiera. Risultato: il Partito socialista cala dal 9,7 % al 9,2 % e, stando ai risultati provvisori, perde uno dei suoi 15 seggi. Anche così, comunque, si conferma come una delle principali componenti della sinistra anticapitalista europea, e non si può che augurarsi che questa severa lezione serva a un suo riorientamento.
Per ora non è il caso di aggiungere altro a questa prima sommaria e provvisoria analisi. Sulla situazione olandese ritorneremo comunque quando saranno disponibili i risultati definitivi, se possibile traducendo contributi dei compagni olandesi.
[1] Nel definire questa sinistra, teniamo qui conto più della percezione che delle varie formazioni che le compongono hanno gli elettori che dei rispettivi programmi. Questo spiega perché vi comprendiamo gli animalisti del PvdD (che hanno un asse politico, l’animalismo, di carattere trasversale, ma elementi programmatici economico-sociali orientati a sinistra) e, con molte riserve, i “musulmani socialdemocratici” del Denk, frutto di una scissione del partito socialdemocratico, ma con forti ambiguità per quanto riguarda altri aspetti. Gli animalisti avevano l’1,9 % e 2 deputati nel 2012, e ora passano al 3,2 % e a 5 deputati; Denk, che si presentava per la prima volta, ottiene il 2 % e 3 seggi.
[2] La Sinistra verde è il risultato della fusione, nella seconda metà degli anni Ottanta, del Partito comunista dei Paesi Bassi, del Partito socialista pacifista e di due altre piccole formazioni della sinistra cristiana (Partito popolare evangelico e Partito politico dei radicali). Aveva toccato il massimo della sua espansione nel 1998 (7,2 %), poi aveva cominciato a declinare, fino a scendere al 2,3 % nel 2012. L’attuale exploit si nutre in parte del crollo socialdemocratico e in parte del forte afflusso di voti dei giovani (e delle donne in particolare).
[3] Sul Partito socialista rimandiamo all’articolo di Alex de Jong, The Netherlands lurches towards elections: Islamophobia, austerity and crisis of the left, pubblicato sul sito di «International Viewpoint» il 10 marzo:
http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article4891
utilissimo per un inquadramento di queste elezioni, molto più approfondito e articolato di queste nostre prime e affrettate note. (c.d.)