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A colloquio con Michel Husson

Le primarie a sinistra in Francia hanno rilanciato il dibattito sul “reddito di base”, incondizionato e universale: Benoît Hamon ne ha fatto una delle sue principali proposte, mentre Manuel Valls gli oppone il suo “reddito dignitoso” condizionato dalle risorse e Arnaud Montebourg, prima difensore del reddito universale, oggi lo rifiuta. Abbiamo chiesto quale sia il suo punto di vista a Michel Husson, economista e membro di Attac che ha appena prodotto un contributo sulla questione.(1)

In apertura del tuo contributo, tu scrivi: “Che una società garantisca un reddito decente a tutti i suoi membri è evidentemente un obiettivo legittimo. Questo non implica però un’adesione al reddito universale di base”. Cosa intendi con ciò?

Da 10 anni, i governi che si sono succeduti hanno rifiutato qualsiasi aumento significativo dei minimi sociali: si sono sganciati di almeno il 20% dallo SMIC (salario minimo interprofessionale, ndt.) e le associazioni implicate chiedono quindi un aumento del 25%. Una rivendicazione simile fa parte delle misure d’urgenza di lotta contro la povertà: bisogna battersi per l’aumento dei minimi sociali e la loro piena estensione ai giovani dai 18 ai 25 anni. Persino Manuel Valls propone un “reddito dignitoso” relativamente elevato (tra gli 800 e gli 850 euro); ci si può chiedere come mai non ci abbia pensato prima!
Tutto questo tuttavia non renderebbe tuttavia necessario uno spostamento del tutto verso un reddito universale di base. Il lato seducente di questo tipo di progetto è effettivamente il fatto che sia incondizionato, dunque universale: tutti lo ricevono senza nemmeno doverlo chiedere. Saremmo dunque in una “società buona” che garantirebbe a tutti i suoi membri un’esistenza decente indipendentemente da qualsiasi contributo. Purtroppo, non esistono i miracoli e, se si guarda da vicino il contenuto concreto di questi progetti, ci si accorge che tutti cozzano con la seguente contraddizione. Se il livello del reddito è “sufficiente” o “dignitoso” (ammettiamo attorno ai 1’000 euro al mese), allora esso dovrà essere compensato da un trasferimento quasi integrale delle attuali forme di protezione sociale: il reddito di base dovrà rimpiazzare le pensioni e coprire le spese sanitarie. Oppure il suo livello non è “sufficiente” (diciamo 400 euro), e il reddito di base non è nient’altro che una riorganizzazione dei minimi sociali che esistono già.

Il reddito universale è considerato una doppia risposta alla generalizzazione dell’uso dei robot, che distruggerebbe massicciamente gli impieghi salariati, e allo sviluppo delle nuove forme d’impiego legate all'”economia digitale”. Cosa ne pensi?

A causa dei robot, non ci sarà lavoro per tutti; a causa dell’economia digitale, non ci saranno più impieghi stabili. Quindi, in mancanza d’impieghi decenti, bisogna bisogna rivendicare un reddito. Questo “dunque” sarebbe al contempo realista e moderno. Ma poggia su una rinuncia definitiva, quella del diritto ad un impiego dignitoso.
Ammettiamo che si verifichino le previsioni catastrofiche che affermano che un impiego su due sarà rimpiazzato da un robot. In una società razionale, questa dovrebbe essere una buona notizia: i robot faranno il lavoro al nostro posto, perciò tutti potremo lavorare a metà tempo! Nella logica capitalista questo si trasforma nella distruzione della metà dei posti di lavoro! Se ci rassegniamo a questa logica, allora bisogna effettivamente cercare di ottenere almeno un reddito. Ma in questo c’è una grande ingenuità che consiste nel pensare che sarà più facile ottenere dai capitalisti, sotto forma di reddito, ciò che si rifiutano di dare sotto forma di riduzione del tempo di lavoro.
Quanto all’economia digitale, essa serve da pretesto a un ritorno a forme d’impiego ultra flessibili. Philippe Van Parjis, uno dei grandi promotori del reddito universale, spiega così che “la realtà del 21o secolo” non è la riduzione del tempo di lavoro, ma la “moltiplicazione del lavoro atipico, del lavoro indipendente, del lavoro a tempo parziale, dei contratti di ogni tipo” (L’OBS, 7 luglio 2016). Bisognerebbe quindi rassegnarsi a questo e rinunciare a uno statuto del salariato che tenga conto di queste nuove forme di lavoro, come se fosse la società a doversi adeguare alle innovazioni tecnologiche e non il contrario.

Secondo Benoît Hamon “il reddito universale è la nuova protezione sociale”. Qual è il tuo punto di vista?

Un reddito universale pienamente realizzato rappresenterebbe come minimo il 30% del PIL. Può essere finanziato solo a condizione che si sostituisca alla protezione sociale nella sua totalità: i 1’000 euro al mese sostituirebbero le pensioni e dovrebbero anche coprire le spese sanitarie. Questa “nuova protezione sociale” sarebbe dunque per sua natura individualizzata, quindi in rottura con la logica di solidarietà e di mutualismo che ha storicamente sotteso ogni progresso sociale. In realtà, il progetto di Benoît Hamon è più prudente. Propone nell’immediato una rivalutazione del RSA (2) del 10% che sarebbe esteso in modo incondizionato a tutti i giovani dai 18 ai 25 anni (les Échos, 18 dicembre 2016). Per andare oltre, il reddito universale dovrà “articolarsi con gli aiuti sociali esistenti” e Hamon parla di “fusioni mirate” con i minimi sociali (23 miliardi di euro), gli aiuti all’alloggio(18 miliardi) o le prestazioni familiari (53 miliardi). Ma questo non è sufficiente a finanziare i 300 miliardi di euro del suo progetto e Hamon spiega che “affronta queste proposte con prudenza” (les Echos, 3 ottobre 2016). Riaffermando che “il reddito di base deve rinforzare, e non ridurre, la protezione sociale”, dimostra che questo non è per nulla garantito automaticamente.

Quale sarebbe l’alternativa?

La vera alternativa è una prospettiva ecosocialista. Il capitalismo ha effettivamente raggiunto i propri limiti ed è incapace di rispondere ai bisogni sociali, né di fare fronte alla sfida climatica. Dobbiamo dunque immaginare progetti che avviino una svolta verso un altro sistema, una sorta di “programma di transizione”, il cui asse centrale sarebbe la riduzione del tempo di lavoro. D’altronde, possiamo citare quello che Trotsky aveva redatto nel 1938, perché questo punto ha sicuramente conservato tutta la sua attualità: “Se vuole evitare la propria disgregazione, il proletariato non può tollerare la trasformazione di una parte crescente degli operai in disoccupati cronici, in miserabili nutriti dalle briciole di una società in decomposizione. Il diritto al lavoro è il solo diritto serio che rimanga all’operaio in una società basata sullo sfruttamento. Ma questo diritto gli è strappato ad ogni istante. Contro la disoccupazione sia strutturale sia congiunturale, è tempo di lanciare la parola d’ordine della scala mobile delle ore di lavoro. I sindacati e le altre organizzazioni di massa devono unire coloro che hanno lavoro e coloro che non lo hanno in un impegno di reciproca solidarietà.
Il lavoro che c’è deve essere suddiviso tra tutti gli operai e su questa base sarà definita la durata della settimana lavorativa. Il salario di ogni operaio deve restare lo stesso della vecchia settimana lavorativa. I salari, con un minimo rigorosamente garantito, dovranno seguire il movimento dei prezzi. Nessun altro programma può essere accettato per l’attuale periodo di catastrofi “.(3)
La riduzione del tempo di lavoro deve essere l’occasione di un’incursione nel diritto di proprietà che istituisca un controllo da parte dei lavoratori delle decisioni d’assunzione. Tanto la borghesia è disposta a distribuire un reddito a saldo di ogni ulteriore pretesa, quanto essa è assolutamente ostile a qualsiasi rimessa in discussione del potere padronale. Da un putno di vista generale, e coerentemente con la transizione ecologica, dobbiamo invertire la logica capitalistica partendo dai bisogni e dai vincoli e creando ex nihilo gli impieghi socialmente ed ecologicamente utili. Per prolungare il paragone con gli anni ’30, “la parola d’ordine dei lavori pubblici”, evocata da Trotsky, trova oggi la sua estensione nell’idea dello Stato “datore di lavoro in ultima istanza”.
Queste piste radicali sono all’altezza della posta in gioco che caratterizza il “periodo di catastrofi”, ma sembrano fuori portata, tenendo conto dei rapporti di forza realmente esistenti. È in questo scarto che prospera un progetto come quello del reddito universale che appare come un mezzo per aggirare gli ostacoli e passare all’offensiva. Esso ha almeno il merito di suscitare una riflessione sulla società che vogliamo, ma funziona anche come derivato recuperabile e come ostacolo alla costruzione di una strategia alternativa.

* L’intervista è stata raccolta da J.C. Laumonier.

1. https://mps-ti.ch/index.php/component/content/article/125-archivio-nuovo/economia/2069-il-miracoloso-mondo-del-reddito-universale
2. Revenu de solidarité active, si tratta di una prestazione sociale gestita dai consigli dipartimentali, che mira a garantire ai suoi benficiari (2.5 milioni nel 2016), siano o meno in grado di lavorare, un reddito minimo. La contropartita è l’obbligo a cercare un lavoro o definire e seguire un progetto professionale che miri a migliare la propria situazione finanziaria (ndt.).
3. La versione italiana del passaggio è tratta dal sito www.marxists.org. Il link esatto è: https://www.marxists.org/italiano/trotsky/1938/6/transiz.htm