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di Tommaso Soldini

Pubblichiamo il testo dell’intervento dello scritto Tommaso Soldini alla manifestazione dello scorso 8 aprile; manifestazione della quale è stato uno degli iniziatori.

Il titolo è della nostra redazione. (Red)

Qualche anno fa, quando insieme ad alcuni amici mi occupavo di una rivista che si chiamava GroundZero, ci era capitato per le mani un libro davvero notevole nella sua semplicità: “Blacks out”(Laterza,2010).
L’autore, Vladimiro Polchi, immaginava un giorno, un giorno X in cui tutti gli stranieri, come per magia, davano consistenza reale a quello che le destre desiderano da tempo: ovvero scompaiono.
Un esercito invisibile di clandestini, illegali, stranieri, immigrati, alieni, usurpatori che finalmente si leva dalle scatole, torna al proprio paese, la smette di sporcare le nostre strade, di attentare alla sicurezza delle nostre donne, delle nostre figlie, non ci ruba più il lavoro.
Sarebbero certamente state queste le parole, le emozioni di chi questo panorama lo immagina con piacere.
“Blacks out” però non si sofferma su questi facili aspetti, e queste persone non hanno il tempo di gioire, perché da lì a poco cominciano a giungere notizie inaspettate.
A scomparire, infatti, è un esercito di lavoratori, un esercito di operai, negozianti, raccoglitori, infermiere e infermieri, baristi e camerieri, medici, preti, badanti, operatori ecologici, addetti alle pulizie.
SI comincia a rendersi conto che gli stranieri non solo non è detto che sporchino le strade, semmai le puliscono. Ci si accorge che senza di loro molti ospedali non hanno personale, le case per anziani sono abbandonate, il bar sotto casa non prepara più caffè, non ha tazzine pulite.
Ci si accorge insomma che tra noi e loro non c’è questa grande differenza.
Questo libro mi è sembrato subito un buon esempio di quello che il linguaggio può fare. La parola si mette al servizio della realtà e costruisce un mondo possibile in cui è facile capire che cosa avverrebbe se noi dessimo vero credito ai discorsi e alle idee di chi non vuole bene alla realtà, di chi oggi pensa di risolvere le nostre crisi economiche e sociali costruendo muri. Muri fisici e mentali, separazioni, divisioni che non solo incattiviscono il linguaggio politico quindi anche la cultura generale, muri che non tengono conto dei legami, dei rapporti di necessità che già ci sono, che già arricchiscono le vite di tutti.
Invece continuiamo ad assistere alla dinamica contraria.
Sarebbe facile alludere a uno dei troppi numeri del Mattino della Domenica, un giornale che se da una parte ha ascoltato tante rivendicazioni inascoltate, dall’altra ha sistematicamente fatto da megafono alle parole più violente, grette e tristi con cui si banalizza la realtà.
Lo ha fatto con il chiaro intento di porsi non solo come alternativa politica a un sistema di cui non condivideva più valori e metodi, lo ha fatto proponendo la logica del “con noi o contro di noi”.
L’intimidazione, il dileggio, la denigrazione dell’avversario, ormai lo abbiamo capito, funziona. Forse anche voi, come Beccaria, siete convinti che la verità, prima o poi, e quindi il linguaggio rispettoso, razionale, dilemmatico, tornerà a vincere e a caratterizzare le nostre vite politiche. Così come una spinta, lenta e costante, vince sempre su qualsiasi scossa violenta. Però è forse arrivata l’ora di contare le vittime.
Il linguaggio della lega dei Ticinesi ma anche di tutti quelli che l’hanno seguita, magari con varianti un poco più beltrasimpatiche, di vittime ne ha e ne sta procurando tante.
Se siamo qui, credo, è anche perché siamo stanchi di sentirci abituati a un modo di raccontare le cose così sprovveduto e banalizzante.
La retorica di queste persone alleggerisce chi di loro si fida, legittima l’uso e l’abuso di ignoranza e superficialità, rinvigorisce i sentimenti più arrabbiati e parziali di quella parte di popolazione che magari, per ragioni sue e altre, non può guardare al futuro con una legittima tranquillità economica.
Chi usa questi linguaggi, allora è coinvolto, è responsabile, perché questo tipo di impostazione del pensiero legittima un comportamento violento, illegale, denigratorio che può essere, per esempio, adottato da chi decide di maltrattare i frontalieri, gli italiani, ma anche ogni forma di alterità con cui, invece, siamo chiamati a convivere.
Mi sembra difficile, infatti, non vedere un legame tra i fatti legati ad Argo 1 o gli abusi relativi ai permessi di soggiorno e di lavoro e questa retorica politica superficiale, rozza, razzista e discriminatoria.
Io credo che il legame ci sia e che vada ancora una volta denunciato e combattuto. Con forza. Credo che un appello alla solidarietà non risponda soltanto a un bisogno sentimentale di vedere e ascoltare persone e discorsi che manifestino un maggiore rispetto delle persone e delle parole; credo che abbiamo il diritto di essere rappresentati da politici che abbiano un maggiore senso della Storia e dello Stato. Donne e uomini che sappiano esprimere delle opinioni articolate, almeno desiderose di rispettare la complessità, capaci di sentire il contatto che le parole intrattengono con la realtà.
Le parole, si sa, sono il mezzo attraverso cui diamo una prima forma alla realtà; ecco perché oggi assistiamo a un progressivo inasprimento delle norme che regolamentano, per esempio, la vita di chi cerca rifugio in questo territorio, ecco perché si pensa e si progettano campi e strutture che carcerano e non accolgono; ecco perché si possono leggere commenti entusiasti, su certe pagine della rete, di fronte alle morti di due persone che cercano di passare la frontiera avvinghiati a un fragile e pericoloso appiglio sul tetto di un treno regionale. Perché qualcuno, con pazienza certosina, domenica dopo domenica, twitt dopo twitt, dibattito dopo dibattito, ha trasformato la lingua, la cultura, il modo di raccontare e vedere le cose, le nostre cose.
È per questa ragione che noi, credo, siamo qui, perché riteniamo che la solidarietà non sia solo bella e buona; crediamo anche che sia utile e furba. Ci aiuta a dare forma a un mondo in cui è meno urgente la paura della diversità, la paura che le persone vicine a noi vogliano rubarci il lavoro non appena ci giriamo, la paura che il nostro prossimo sia un nemico, la paura che ci sia, sempre e ovunque, qualcuno che sia “più dei nostri” di noi.
Il compito nostro, il compito di chi ci rappresenta, il compito di chi usa la parola per raccontare, descrivere o analizzare ciò che sta capitando deve almeno rispondere a pochi requisiti minimi quali l’onestà, il rispetto della verità e delle persone, che a prescindere dalla ragione per cui si muovono, cercano la fuga, desiderano benessere e pace, sono persone, prima e alla fine, persone che nella maggior parte dei casi vogliono contribuire a rendere dignitoso e forte e fiero di sé il paese in cui viviamo.
Solidarietà non è allora un semplice sentimento, non è un auspicio, è l’inizio di un programma politico. Solidarietà è il termine che innesca la curiosità nei confronti delle vite altre, è la parola che mi protegge quando a essere l’altro sono io, è il concetto che mi ricorda che il mio diritto alla felicità è indiscutibilmente legato al diritto che tu hai di essere ascoltato, compreso e difeso.