di Liz Mason-Deese
Quando le donne in Argentina, e in altri paesi dell’America latina, decisero di scioperare il 19 ottobre 2016, la mobilitazione superò tutte le aspettative. Organizzato in pochissimi giorni, l’appello allo sciopero risuonò per l’America latina e centinaia di migliaia di donne scioperarono, marciarono e protestarono.
Lo sciopero era una risposta immediata al brutale stupro ed assassinio della sedicenne Lucia Perez a Mar del Plata, ed anche a una serie di altri femminicidi e alla violenta repressione dell’Incontro nazionale delle donne a Rosario.
Con gli slogan “non una di meno” e “vogliamo vivere” [Ni una menos, vivas nos queremos], hanno scioperato non solo per la fine della violenza contro le donne, ma anche per denunciare il rapporto tra questa violenza e la violenza economica rappresentata dalla svalorizzazione del lavoro delle donne. Questo accento sul legame tra la violenza maschile e la svalorizzazione del lavoro delle donne ha costituito uno dei punti centrali dello sciopero e dei suoi stessi principi organizzativi.
Lo sciopero è dunque servito a rendere visibile il lavoro delle donne: il lavoro formale e informale, retribuito e non retribuito, il lavoro riproduttivo, il lavoro affettivo. Le donne non sono solo uscite dai loro luoghi di lavoro per scendere in strada e marciare, ma si sono anche rifiutate di cucinare, di pulire, di occuparsi dei bambini, di sorridere, di svolgere le attività di cura. Smettendo di vedersi solo come vittime della violenza maschile e delle istituzioni patriarcali, le donne sono state capaci di dimostrare il loro immenso potere politico ed economico. E, finita la marcia, questo potere è stato portato nelle case, portato l’indomani al lavoro, è stato preso con sé nelle strade, nelle discussioni sulla condivisione del lavoro domestico, sfidando il sessismo a casa e al lavoro, uscendo da relazioni violente e rafforzando le reti di cura e di sostegno tra le donne.
Lo sciopero ha illustrato in modo chiaro il legame tra la violenza maschile e le restrizioni all’autonomia economia delle donne e all’autodeterminazione sui loro corpi. L’appello allo sciopero ha messo in luce come l’insicurezza economica delle donne le renda ancora più vulnerabili alla violenza maschile, come le donne povere siano quelle che non hanno accesso all’aborto sicuro e legale e che per questo soffrono maggiormente per la sua criminalizzazione, come la ristrutturazione neoliberista significhi per le donne un aumento del carico del lavoro di riproduzione sociale. Oltre a rivendicare riforme legislative e maggiori risorse per i programmi pubblici contro la violenza e la povertà, lo sciopero ha anche messo in chiaro che le donne non staranno ad aspettare che lo Stato risolva i loro problemi.
Con l’appello allo sciopero dello scorso ottobre, le donne argentine hanno anche dato avvio alla lotta contro le politiche neo-conservatrici del presidente Mauricio Macri. Per mesi, la dirigenza sindacale aveva svenduto le lavoratrici e i lavoratori accettando la riduzione dei salari e la perdita di alcuni loro diritti, evitando una strategia più conflittuale. Sono state così le donne argentine a indire quello che sarebbe diventato il primo sciopero generale contro Macri e una della più ampie dimostrazioni d’opposizione al suo governo. Oltre all’accento sulla violenza maschile, lo sciopero è stato anche una protesta contro gli aumenti delle bollette e dei trasporti pubblici, contro i tagli alle scuole, i tagli alle cure sanitarie e ad altri servizi sociali, evidenziando come le donne siano particolarmente colpite da queste misure.
Lo scorso ottobre, il 19 non fu l’unico giorno di sciopero delle donne. In Polonia le donne avevano già scioperato il 3 ottobre per protestare contro l’introduzione di una nuova legislazione anti-abortista. In entrambi i casi, le donne dei paesi vicini hanno risposto all’appello e molte di loro hanno deciso di organizzare scioperi di solidarietà, capaci anche di riportare l’attenzione sulle lotte locali delle donne. Ed è stato proprio all’interno di queste recenti lotte che è sorto l’appello per uno sciopero internazionale delle donne in occasione dell’otto marzo.
Violenza e lavoro delle donne
Nonostante le donne, come dimostrato anche dalla storia del giorno internazionale delle donne, abbiano sempre lottato in quanto salariate e abbiano anche partecipato alle lotte sindacali insieme agli uomini, lo sciopero delle donne è uno strumento particolare e potente perché mette esplicitamente in luce l’eterogeneità e l’ampiezza del lavoro delle donne, specialmente del lavoro riproduttivo. L’ondata di scioperi delle donne in vari paesi del mondo lo scorso anno non era in primo luogo focalizzata su questioni legate al mondo del lavoro salariato, ma ha utilizzato la tattica dello sciopero per protestare contro la violenza maschile e gli attacchi ai diritti riproduttivi. Gli scioperi hanno anche portato alla ribalta la questione della relazione tra la violenza e lo sfruttamento economico.
Il 19 ottobre, le donne argentine hanno annunciato che avrebbero scioperato perché:”le condizioni economiche continuano a riprodurre la violenza machista: perché le nostre giornate lavorative sono di due ore più lunghe di quelle degli uomini, dato che i compiti di cura e riproduttivi ricadono sulle nostre spalle e non hanno nessun valore nel mercato del lavoro. Perché la disoccupazione si alza di due punti quando si parla di donne, perché la differenza salariale è, in media, del 27%. Vale a dire che le donne guadagnano molto meno dei loro colleghi, a parità di incarico lavorativo. In un contesto di tarifazos [ossia di aumento dei prezzi dei servizi pubblici energetici e dei trasporti], di adeguamenti dei prezzi per via dell’inflazione, di incremento della povertà e restringimento delle garanzie date dallo stato, come quello che propone il governo dell’Alianza Cambiemos, noi donne sopportiamo il peso maggiore: la povertà ha un volto femminile e ci toglie la libertà di dire no quando siamo nel circolo della violenza.”
C’è un importante nesso storico tra i ruoli riproduttivi delle donne e la violenza nei loro confronti. Silvia Federici ha mostrato come il processo di transizione verso il capitalismo abbia “richiesto la trasformazione del corpo in una macchina produttiva e la sottomissione delle donne alla riproduzione della forza lavoro. E, soprattutto, ha richiesto la distruzione del potere delle donne, che è culminata – in Europa come in America – nello sterminio delle ‘streghe’.” (1) In altre parole, all’interno dei vari tipi di violenza dell’accumulazione originaria va inclusa la violenza contro le donne, contro l’autodeterminazione dei loro corpi e la loro sottomissione al ruolo riproduttivo.
L’accumulazione originaria non è stata un episodio violento limitato nel tempo, ma è una violenza continua e costante contro i corpi delle donne. Violenza per tenere le donne al loro posto, violenza per forzare le donne a continuare ad assumere il ruolo riproduttivo, violenza per limitare il potere delle donne di organizzarsi e resistere. La violenza serve a separare le persone dai loro mezzi di riproduzione e a scoraggiarle dal creare forme collettive di riproduzione al di fuori del processo dell’accumulazione capitalistica. (2)
Raquel Gutierrez Aguilar ha analizzato come l’assegnazione delle donne alla sfera domestica e la responsabilità dei compiti riproduttivi significhi in definitiva una limitazione della nostra capacità di “disporre di noi stesse”, di essere disponibili per noi stesse, sia in termini del lavoro che facciamo e delle cure che forniamo, sia in termini delle nostre stesse soggettività, della nostra possibilità di svilupparci in pieno accordo coi nostri desideri. Non possiamo veramente godere né del nostro lavoro, né dei nostri corpi. Questo è un tipo di violenza che consiste nel fatto che in quanto donne non abbiamo la possibilità di determinare noi stesse o controllare i nostri corpi e quello che producono. (3)
La struttura e la natura del lavoro delle donne sono state concepite per renderci difficile di poter disporre di noi stesse. Ciò emerge chiaramente dall’ampia ricerca militante condotta dal collettivo “Precarias a la Deriva” sulle lavoratrici di Madrid.(4) Insieme a diversi tipi di lavoratrici – lavoratrici domestiche, assistenti sociali, infermiere, maestre, traduttrici indipendenti, sex workers –, Precarias a la Deriva ha portato alla luce una serie di ‘derive’, che hanno permesso loro di vedere la città attraverso gli occhi delle altre e di vivere col proprio corpo l’esperienza di attraversare la città, evidenziando l’eterogeneità del lavoro delle donne, al di là di alcuni elementi comuni. Hanno messo l’accento sulla precarietà non come una categoria astratta per definire un nuovo soggetto teorico, bensì come una serie di caratteristiche concrete del lavoro delle donne all’interno di un contesto in cui è difficile tracciare una separazione netta tra il lavoro e la vita. Hanno analizzato la precarietà come una forma di lenta violenza economica, una violenza quotidiana che mette in pericolo la vita delle donne e provoca stress, ansietà e malattie.
Il collettivo Precarias a la Deriva ha analizzato la precarietà in termini di nuove forme di lavoro, di modifiche dei tempi e dei luoghi di lavoro, di intensificazione del processo produttivo, di messa al lavoro di aspetti immateriali (come la comunicazione, l’empatia, il linguaggio, l’attenzione, i comportamenti), di tagli ai salari e di perdita di diritti. Soprattutto, il collettivo Precarias a la Deriva non si è occupato solo della precarietà a livello del suo impatto sul mondo del lavoro, ma l’ha concepita come “una serie di condizioni materiali e simboliche, che determinano una incertezza riguardo alla possibilità di accedere alla risorse essenziali per il pieno sviluppo della vita del soggetto” (5).In altre parole, ha utilizzato il concetto di precarietà per riferirsi sia alle condizioni di lavoro sia a quelle di vita, sia alla produzione sia alla riproduzione.
La frammentata geografia del lavoro delle donne e il modo individuale ed isolato in cui tendiamo a sperimentare questa oppressione hanno sempre reso difficile la sua organizzazione. Le donne lavorano sole nelle loro case o in quelle degli altri, e in qualsiasi momento del giorno o della notte. Il lavoro delle donne si svolge in luoghi separati e dispersi in tutto il panorama urbano. Si svolge negli ospedali, nelle scuole, nelle fabbriche, nei call centers, in strada, nei quartieri, nella casa, nella camera da letto. Il lavoro delle donne è spesso il più precario: gli mancano sia la sicurezza sia le protezioni legali. Ed è spesso frammentato e disperso, sia a livello spaziale che temporale. E resta generalmente non retribuito e non riconosciuto.
Perché lo sciopero?
È precisamente questa geografia così frammentata e dispersa del nostro lavoro ciò che rende uno sciopero delle donne al contempo così necessario e così potenzialmente potente. Uno sciopero è necessario per rendere visibile il nostro lavoro, per mostrare che il mondo non può funzionare senza di esso. Serve anche per costruire il nostro potere, per lasciare i luoghi in cui effettuiamo il nostro lavoro isolate e i ruoli che ci sono stati assegnati, per ritrovarci insieme e organizzarci.
Lo sciopero delle donne assume, inoltre, un ruolo specifico ed importante nei confronti del lavoro domestico e di cura che resta sempre invisibilizzato. In Potere femminile e sovversione sociale, Mariarosa Dalla Costa e Selma James hanno scritto:”Usciamo di casa; rifiutiamo la casa perché vogliamo unirci alle altre donne per lottare contro tutte le situazioni che presuppongono che le donne stiano in casa, per collegarci a tutte le situazioni che presuppongono che la gente stia nei ghetti, sia il ghetto l’asilo, la scuola, l’ospedale, l’ospizio o l’area dei baraccati. Già l’abbandono della casa è una forma di lotta perché questi servizi sociali non saranno più svolti in quelle condizioni e necessariamente tutti quelli che lavorano, chiederanno, rovesceranno sul capitale l’onere di organizzarli: tanto più violentemente quanto più violento, deciso e massificato sarà questo rifiuto del lavoro domestico da parte delle donne.” (6)
Anche se solo per un giorno, il rifiuto di questo posto e di questo lavoro che ci è stato assegnato rende visibile questo lavoro per come è realmente, ed apre la porta alla richiesta che il lavoro di riproduzione e di cura diventi finalmente una responsabilità collettiva di tutte e tutti.
Lo sciopero è anche necessario per costruire il potere delle donne, sia ricollegandosi agli altri movimenti sia al loro interno. È necessario per giungere a una definizione più ampia e inclusiva dello stesso concetto di lavoro. Come osservato da Veronica Gago a proposito dello sciopero del 19 ottobre in Argentina:”Un altro punto centrale è il fatto che la nozione stessa di sciopero è stata molto pluralizzata. Da un lato, abbiamo sottratto il monopolio di questo strumento ai sindacati, soprattutto a quella tipica foto dei cinque uomini [i cinque leader dei principali sindacati] che appare ogni volta nei media e che vuole rappresentare coloro che hanno il potere di dire “noi decidiamo quando si può scioperare e quando invece non si può farlo” e che nel frattempo hanno continuato a negoziare le condizioni dell’obbedienza e dell’austerità. Da un lato ciò che abbiamo fatto è stato ridicolizzare questa situazione e, dall’altro, ci siamo riappropriate di questo strumento e lo abbiamo reinventato. Ciò che abbiamo fatto è stato dire “tutte noi donne possiamo scioperare”, qualsiasi sia la nostra condizione: salariate, disoccupate, lavoratrici del settore formale o informale, lavoratrici precarie, casalinghe,… e ognuna di noi inventerà e aderirà e dimostrerà come possiamo fare dello sciopero uno strumento di insubordinazione, d’espressione del nostro sdegno.
Abbiamo anche problematizzato il fatto che il lavoro è molto eterogeneo, in particolare il lavoro delle donne, abbiamo evidenziato il problema della differenza salariale tra i sessi, che è circa del 27%. La comprensione della complessità del mondo del lavoro, che è il mondo della vita e il mondo della cura, il mondo del salariato e il mondo delle relazioni familiari, è stata paradossalmente messa in moto proprio dallo sciopero. Lo sciopero è riuscito, ad esempio, a collegare il tema della violenza di genere con quello della violenza economica, politica, sociale e culturale.”
Il collettivo Precarias a la Deriva, capendo come le donne e i lavoratori precari erano stati marginalizzati nell’appello lanciato nel 2003 dai sindacati per un sciopero generale, si è chiesto “come possiamo inventare nuove forme di sciopero quando la produzione è frammentata e dislocata, quando è organizzata in modo tale che l’interruzione del lavoro per un paio di ore (o anche per 24 ore) non intacca necessariamente il processo produttivo, e quando la nostra posizione contrattuale è così fragile che scioperare significa rischiare di non poter più lavorare domani?”(7) Lo sciopero delle donne risponde a questi interrogativi, non rifuggendoli, ma collocandoli al centro stesso dello sciopero, moltiplicando e sperimentando le diverse forme di azioni che possono essere intraprese, e soprattutto mettendo in chiaro il fatto che si tratta di uno sciopero per tutte le donne, indipendentemente dal tipo di lavoro che fanno.
Lo sciopero serve anche come forma di investigazione, di ricerca per mettere in luce che tipi di lavoro fanno le donne, quando, dove, come e a che condizioni. Un’indagine sulle condizioni materiali e sulle lotte delle diverse donne nei diversi luoghi. Rende visibili le divisioni e le differenze, ricordandoci che “donna” non è una categoria chiaramente definita, assoluta ed universale. Dimostra che alcune donne sono state in grado di emergere appoggiandosi ad altre donne, scaricando il lavoro riproduttivo sulle donne di colore o sulle donne di altri paesi. Per questo, come afferma il manifesto di Ni Una Menos: “Scioperiamo per rendere visibile che se i lavori di cura non diventano responsabilità di tutta la società noi ci vediamo obbligate a riprodurre lo sfruttamento classista e coloniale tra donne. Per andare a lavorare dipendiamo da altre donne. Per spostarci dipendiamo da altre donne.” Lo sciopero ci da un’opportunità di rendere visibili queste gerarchie tra le donne e iniziare a combatterle.
Lo sciopero ci permette però anche di ritrovarci, di costituire insieme un nuovo soggetto collettivo, mettendo insieme i nostri corpi in un’azione comune e in un territorio condiviso. Proprio come il lavoro delle donne assume molteplici forme distinte, allo stesso modo lo sciopero deve sperimentare varie forme di lotta: interruzione del lavoro, astensione dal lavoro, marce, picchetti, blocchi, boicotti degli acquisti, rifiuto collettivo dei ruoli di genere. Lo sciopero può e deve avvenire ovunque: nelle case, nelle scuole, nei negozi, nei quartieri, nelle strade. E, altrettanto importante di quello che non faremo, sarà quello che invece faremo: rendendoci finalmente disponibili per noi stesse e le une per le altre, ci consentirà di creare le nostre proprie forme di organizzazione, le nostre pratiche di auto-difesa e le nostre strutture di assistenza.
Nonostante le attività domestiche siano un po’ meglio condivise oggi e alcune donne abbiamo un po’ più facilmente accesso a lavori stabili e ben pagati, le donne negli Stati Uniti hanno ancora innumerevoli ragioni di scioperare. La violenza maschile ci colpisce tutte, nelle nostre case, nei nostri quartieri, nelle scuole e nelle università, sui luoghi di lavoro, all’interno dei media. I nostri diritti riproduttivi e l’accesso a cure sanitarie di qualità sono sotto attacco in tutto il paese. Le donne nere sono state prese di mira ed attaccate dalle forze dell’ordine, le donne native sono state stuprate ed assassinate, delle donne scampate alla violenza domestica sono state incarcerate dall’Immigration and Customs Enforcement [l’agenzia federale statunitense responsabile del controllo delle dogane e dell’immigrazione]. Le donne sono quelle che devono raccogliere i cocci quando i raid e i divieti distruggono le nostre comunità, quando spariscono lo Stato sociale e i sussidi del “Programma di Assistenza Alimentare Supplementare” (SNAP – Supplemental Nutrition Assistance Program), quando siamo lasciati senza accesso alle cure mediche. Il debito e il capitalismo finanziarizzato estraggono valore da tutte le nostre attività quotidiane e mettono in pericolo le nostre esistenze.
Andare a scioperare rende visibile questo sfruttamento e questa violenza. E lo sciopero propone anche qualcosa di diverso. Non solo un giorno, ma un mondo in cui non abbiamo paura della violenza maschile. Non solo un giorno, ma un mondo in cui il lavoro riproduttivo è condiviso. Un mondo in cui le donne non sono definite semplicemente dalle loro funzioni e dai loro compiti riproduttivi, in cui il nostro tempo e i nostri corpi sono a nostra disposizione. Questo è l’altro lato dello sciopero delle donne: quando non lavoriamo per gli altri costruiamo il nostro potere, costruiamo delle pratiche concrete, delle reti di auto-difesa e di cura. Tutto ciò è sottinteso al lavoro di organizzazione richiesto per rendere possibile lo sciopero: organizzando il lavoro di cura necessario, lo sciopero sostiene e supporta le reti che permettono alle donne di non fare il loro normale lavoro e scendere in strada. Lo sciopero è perturbatore, e questo è un rischio. Ma le donne, lo si sa, sanno cosa significa prendere dei rischi – la nostra vita quotidiana è piena di rischi, spesso anche le nostre stesse case non sono dei luoghi sicuri. Il potere dello sciopero risiede nel rendere questo rischio collettivo e nel creare un momento e uno spazio in cui torniamo ad essere disponibili per noi stesse e le une per le altre.
Articolo apparso in Viewpoint magazine il 21 febbraio 2017
1. Silvia Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Milano, Mimesis, 2015.
2. Silvia Federici, Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, Verona, ombre corte, 2012.
3. Raquel Gutiérrez Aguilar, Desandar el laberinto. Introspección en la feminidad contemporánea, Buenos Aires, Tinta Limón, 2015.
4. Precarias a la Deriva, A la deriva por los circuitos de la precariedad femenina, Madrid, Traficantes de Sueños, 2004.
5. Ibid., p. 28.
6. Mariarosa Dalla Costa e Selma James, Potere femminile e sovversione sociale, Padova, Marsilio, 1972, p. 36.
7. A la deriva, cit., p. 21.