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Un’intervista di Natalia Uval a Edgardo Lander

Edgardo Lander non è solo un accademico prestigioso: da moltissimi anni è un punto di riferimento per la sinistra ed i movimenti sociali nel suo paese. In quest’intervista, pubblicata il 23 marzo scorso dal quotidiano “La Diaria”, in Uruguay, spiega che, su un piano globale, le sinistre non hanno “imparato ad imparare” dalle esperienze in corso. Hanno così finito per appoggiare un “governo di mafie” come quello del Nicaragua e non é da escludere che girino la faccia dall’altra parte quando ci sarà il collasso del modello venezuelano…

Tre anni or sono lei caratterizzò la situazione in Venezuela con l’espressione “implosione del modello basato sulla rendita petroliera”. Una diagnosi tuttora attuale?

Purtroppo, i problemi che possono essere associati all’esaurimento del modello basato sulla rendita petroliera si sono accentuati. Il fatto che, durante un centinaio d’anni, il Venezuela abbia vissuto della rendita petroliera e di una forma di centralismo statale ruotante attorno alla maniera di ripartire la rendita, ha modellato non solo il modello di Stato e di partito ma ha pure influenzato una cultura politica.
Così, nell’immaginario collettivo, il Venezuela viene considerato come un paese ricco dove l’abbondanza regna e nel quale l’azione politica consisterebbe semplicemente nell’organizzarsi per esigere dallo Stato una parte della rendita. Questa é la logica. E’ una logica che é stata quanto mai accentuata, malgrado le dichiarazioni d’intenzioni sulla necessità di perseguire altre strade, dal processo bolivariano. Da un punto di vista economico, é chiaro: é questa modalità coloniale di inserimento nella divisione internazionale del lavoro che si é approfondita.
Il collasso dei prezzi del petrolio non ha fatto che mettere a nudo quanto già era evidente per chi é dipendente da prodotti i cui prezzi necessariamente fluttuano.

Le critiche concernenti il rispetto dei diritti democratici in Venezuela si sono accentuate dopo l’accesso di Nicolas Maduro alla presidenza. Perché? Quale paragone con la situazione ai tempi di Chavez?

Prima di tutto c’è da tener conto delle condizioni nelle quali s’è svolta la transizione da Chavez a Maduro. Sono convinto che la maggior parte dei problemi che incontriamo oggi s’erano già venuti ad accumulare ai tempi di Chavez. Le spiegazioni fornite da una parte della sinistra venezuelana, che rivendica i tempi di Chavez come un periodo di gloria durante il quale tutto funzionava bene e al quale si oppone l’immagine di un Maduro incompetente e traditore, sono manichee e non permettono di capire ed individuare le logiche strutturali che hanno portato alla crisi attuale.
Schematicamente, il processo venezuelano si è sempre sostenuto su due pilastri fondamentali: da un lato il carisma di Chavez e la sua capacità di comunicare che rafforzarono la mobilizzazione sociale e, dall’altro, i prezzi del petrolio che veleggiarono, durante un certo numero di anni, al di sopra dei cento dollari al barile. Questi due pilastri cedettero in modo quasi simultaneo nel 2013: con la morte di Chavez da un lato e la caduta vertiginosa del prezzo del petrolio, dall’altro. Il re rimase, quindi, nudo. Ed apparve in modo chiaro la fragilità della dipendenza dal petrolio.
Sull’altro lato invece, é da rilevare la molteplicità delle differenze tra Chavez e Maduro. Chavez era un leader con grandi capacità nel definire un orientamento e godeva di una tale leadership all’interno dello governo bolivariano che si può dire che quando lui decideva qualcosa si poteva considerare come acquisita la decisione dal governo. Questo é una espressione evidente di assenza di dibattito e genera tanti errori, ma permette però un agire unitario, senza indugi.
Maduro, questa capacità non ce l’ha e non l’ha mai avuta: in tal modo, oggi le voci del governo sono tante quante il numero di ministri. D’altra parte, dacché Maduro é presidente, é stata incrementata una logica di militarizzazione sebbene Maduro non sia un pupillo delle forze armate. Anzi, é proprio per questo, per garantirsi l’appoggio dei militari, che accorda loro sempre più privilegi.
Si son create delle imprese gestite dalle forze armate; un terzo dei ministri e più della metà dei governatori delle province sono militari e sono gli stessi esponenti dell’esercito che occupano ruoli di primo piano nei settori della pubblica amministrazione affetti dai più elevati livelli di corruzione; come quello del controllo delle divise, il settore portuario e quello della distribuzione delle derrate alimentari. Il fatto che siano in mano ai militari rende le loro attività meno trasparenti, e ben più difficili da sottoporre al controllo popolare.

Ma cosa é successo con le misure di partecipazione sociale promosse dal governo bolivariano?

Il tessuto sociale in Venezuela si sta oggi disarticolando. Si poteva supporre che, in un momento di crisi, l’esperienza straordinariamente ricca dei movimenti di difesa della salute pubblica, del diritto alle telecomunicazioni, all’appropriazione sociale del suolo urbano, all’alfabetizzazione e delle organizzazioni di base che hanno strutturato la partecipazione alla vita attiva di milioni di persone e generato una cultura di fiducia nei propri mezzi, avesse creato la capacità di far fronte. Invece non é stato così. Certo, parlo qui in termini generali: sussistono posti dove questa capacità di resistere ed anche di autogovernarsi permane. Però, in linea generale si può dire che ciò che prevale oggi sono i comportamenti individualisti impregnati di uno spirito di concorrenza. Anche se, credo che sussista una riserva di esperienze collettive capace, una volta o l’altra, di tornare a galla.

Ma com’é che questi fenomeni di partecipazione si son così tanto affievoliti?

Dall’inizio, questo processo è stato attraversato da una contraddizione molto seria. Da un lato, l’estensione delle organizzazione di base era uno strumento necessario ai processi di autogestione e di autonomia, di costruzione dal basso verso l’alto del tessuto sociale. Però, dall’altro, c’é da dire che la maggior parte delle organizzazioni di base si svilupparono nel quadro di politiche pubbliche, in base dunque ad una logica promossa dall’alto, dallo Stato.
Questa contraddizione s’è sciolta in modi diversi secondo le situazioni. Laddove pre-esistevano esperienze organizzative o leader comunali, esisteva anche una capacità di confronto con lo Stato: non per scontrarsi con esso, ma per negoziare.
Inoltre, dal 2005 si assiste ad una transizione del processo bolivariano. Si passa dalla ricerca di un modello aperto, differente da quello sovietico e dal capitalismo liberista, alla scelta di un socialismo come modello sulla base di un interpretazione statalista dello stesso. L’influenza politico-ideologica cubana su questa conversione fu molto importante. Ed é così che si incominciò a pensare le organizzazioni di base in termini di strumenti diretti dall’alto e che si sviluppò una cultura staliniana del rapporto con le organizzazioni popolari. Cosa che, ovviamente, le ha indebolite.

Ci parli della situazione dei diritti democratici e delle libertà

E’ evidente che la situazione s’è aggravata e questo perché la legittimità del governo è sempre più ridotta e la contestazione popolare sempre più grande, mentre l’opposizione si rafforza in modo significativo. Il governo controllava tutti i poteri pubblici sino alla clamorosa sconfitta alle elezioni parlamentari del dicembre del 2015. Da allora ha sempre più ricorso a delle soluzioni autoritarie.
Prima di tutto, il governo decise di non riconoscere il nuovo parlamento con un pretesto di irregolarità commesse localmente. Poi, decise di non riconoscere la stessa Assemblea nazionale che il governo considerò illegittima, inesistente. Alcuni mesi or sono, al momento in cui si trattò di rieleggere il CNE, il Consiglio Nazionale Elettorale, la Corte suprema del paese ha deciso di non riconoscere l’Assemblea nazionale e ha nominato essa stessa i membri del CNE, che sono naturalmente tutti chavisti.
All’inizio dell’anno Maduro avrebbe dovuto presentare un bilancio dell’anno precedente davanti all’Assemblea, ma non riconoscendola, il suo rapporto l’ha presentato davanti alla Corte. Lo stesso è accaduto con la legge finanziaria. Inoltre, il referendum revocatorio che dopo aver passato tutti gli ostacoli legali avrebbe dovuto aver luogo in novembre, non c’è stato perché la Corte suprema ha deciso di rimandarlo sine die. Lo stesso è accaduto in dicembre con il rinvio alle calende greche dell’elezione, prevista dalla Costituzione, dei governatori locali.
Ci si ritrova così in una situazione nella quale il potere legislativo non c’è, tutto il potere è concentrato nelle mani dell’esecutivo e, da più di un anno, Maduro governa a colpi di decreti urgenti ripromulgati più volte, malgrado il fatto che non siano stati validati, come prevede la Costituzione, dall’Assemblea. Siamo lontani assai da ciò che si potrebbe chiamare una pratica democratica. In questo contesto, le risposte sono sempre più violente, da quelle dei media e dell’opposizione alle reazioni del governo sempre più incapace d’altro che di reprimere le manifestazioni ed incarcerare gli oppositori. Tutti gli strumenti del potere sono utilizzati proprio per conservarlo, il potere.

Quali saranno a lungo termine le conseguenze di questa situazione?

Direi che ci sono tre motivi di preoccupazione a medio e lungo termine. Prima di tutto c’é la distruzione del tessuto produttivo della società e ci vorrà molto tempo per ricostruirlo. Per esempio, recentemente un decreto presidenziale ha autorizzato le compagnie minerarie transnazionali all’apertura di una zona di 120.000 chilometri quadrati nella foresta amazzonica, sui quali esistono una decina di villaggi di popolazioni indigene e dove si situano le principali riserve d’acqua dolce del paese.

In secondo luogo c’è la disintegrazione del tessuto sociale provocata da questa crisi. E difficile ammetterlo, ma oggi la società sta peggio di quanto stesse prima dell’arrivo di Chavez. C’è poi il deterioramento delle condizioni di vita, in particolare in termini di salute e di alimentazione. Il governo ha smesso di pubblicare statistiche in proposito. Ma, se ci si fida di alcune statistiche prodotte da aziende o da istituti universitari, si constata una diminuzione del peso medio della popolazione venezuelana. Certi dati parlano addirittura di una perdita media di sei chili per persona! Le conseguenze si misureranno a lungo termine nella misura in cui i bambini vivono oggi delle situazioni di insufficienza alimentare.
Tutto ciò ha un effetto sullo sviluppo di un immaginario del cambiamento: le nozioni di “socialismo” o di “alternativa” sono oramai svuotate di senso in Venezuela. Si è instillato l’idea che il settore pubblico é necessariamente inefficace e corrotto. Che fallimento!

Come giudica il rapporto con il Venezuela da parte dei partiti di sinistra, in particolar modo di quelli dell’America latina?
Credo che uno dei problemi che si porta dietro da sempre la sinistra é la straordinaria difficoltà che abbiamo ad imparare dalle esperienze. Imparare dalle esperienze presuppone una riflessione critica su quel che succede e su come succede. Per esempio, tutti conosciamo la complicità dei partiti comunisti con lo stalinismo, e sappiamo anche che non fu il frutto dell’assenza di informazioni. Non é che da allora non si sia imparato nulla.
Però, purtroppo, sussiste una complicità, quella che ci fa chiudere gli occhi sui misfatti di chi si pone in una logica anti-imperialista e affronta l’impero. E se poi una ha magari ammazzato tanta gente, evitiamo di parlarne. Credo che questo modo di concepire la solidarietà come incondizionata con chi tiene un discorso di sinistra e assume delle posizioni anti-imperialiste ci porta a non voler analizzare in modo critico i processi in corso.
Lo stesso discorso vale per coloro che per le proprie considerazioni geostrategiche esprimono una solidarietà incondizionata con chi entra in contraddizione con i settori dominanti del sistema globale. Si genera in tal modo una solidarietà cieca, acritica. Si finisce così non solo con l’astenersi dal criticare, ma con la celebrazione attiva di tante cose che si riveleranno poi come estremamente negative.
Il cosiddetto “hiperliderazgo” (iper-leaderismo) di Chavez, per esempio, era lì sin dall’inizio. Così come la prevalenza del modello “estrattivista”. (1) Stava già tutto lì quanto pesa oggi sulla crisi culturale della sinistra.

Come non aprire un dibattito su queste cose in modo d’avere un pensiero critico ed essere propositivi?
Non si tratta per la sinistra europea di dire ai Venezuelani “fate così o fate cosà” ma nemmeno di porsi in una posizione di sostegno acritico che finisce per legittimare qualsiasi cosa. In tal modo, i prigionieri politici, prigionieri politici non lo sono più, anche se restano in galera, ed il deteriorarsi della situazione economica si riduce agli effetti della guerra economica e dell’azione della destra sul piano internazionale. Certo, guerra economica e boicottaggio internazionale giocano un ruolo, ma non bastano per spiegare la profonda crisi che stiamo vivendo in questo momento.
Per esempio, la sinistra latino-americana ha una storica responsabilità nell’approccio della rivoluzione cubana. Durante moltissimi anni si astenne da qualsiasi critica a Cuba vittima del blocco. Ma, nel rifiutare di criticare Cuba, si astenne pure da una riflessione critica su quanto stesse succedendo nell’isola, sulle difficoltà alle quali era confrontata la società cubana, sulle possibili opzioni per uscire dalla crisi.
Una parte importante della popolazione cubana é cosciente del fatto che oggi ci si trova in un vicolo cieco. Questa convinzione individuale non può però esprimersi pubblicamente perché il governo non lo permette. Così, la sinistra latino-americana s’é disinteressata della cosa limitandosi ad affermare la sua solidarietà incondizionata.
Il caso più estremo é poi definire come “rivoluzionario” un governo corrotto e mafioso come quello del Nicaragua, uno dei più oppressivi di tutta l’America latina in materia dei diritti delle donne, alleato ai settori borghesi più corrotti e al nemico storico della rivoluzione nicaraguense, la Chiesa cattolica.
In fin dei conti, cosa succede? Che si rafforzano le tendenze negative che sarebbe stato possibile invece evidenziare. Perdipiù, non impariamo niente! Se pensiamo la lotta per la trasformazione anticapitalista non come un semplice movimento di solidarietà con quanto accade qua o là, ma come una lotta di tutti, é evidente che gli errori fatti qua o là hanno conseguenze per noi tutti; abbiamo quindi tutti il dovere di segnalarli e d’imparare da queste esperienze per non dover ripetere gli stessi errori.
Però, questa capacità d’imparare non l’abbiamo perché, al momento in cui implode l’esperienza venezuelana, noi distogliamo lo sguardo, ci giriamo dall’altra parte. E questo, é un disastro tanto per la solidarietà internazionalista che per la responsabilità politico-intellettuale che é la nostra.

Ma come spiegare un tale atteggiamento della sinistra?
Ha in parte a che vedere con il fatto che ancora non abbiamo finito di ripulire il pensiero della sinistra da una tendenza assai sviluppata ad una visione unidimensionale delle poste in gioco. Se la posta in gioco é l’interesse di classe e l’anti-imperialismo, dobbiamo pure prendere in considerazione il fatto che oggi il processo di trasformazione passa si, da lì, ma passa pure dalla definizione di una prospettiva critica femminista, dalla ridefinizione del rapporto con la natura.
Come approfondire la democrazia, la sua natura pluridimensionale, se non riconosciamo la natura multidimensionale dell’oppressione e dunque delle lotte? Perché relegare ad un ruolo secondario i diritti dei popoli indigeni, la devastazione dell’ambiente o la riproduzione del patriarcato? Si finisce così per ridurre la trasformazione anticapitalista ad una visione assai monolitica. Infatti, a che serve liberarsi dall’imperialismo yanqui se poi stabiliamo gli stessi rapporti con la Cina?
Riconosciamolo, esiste un problema politico, teorico e ideologico – e magari anche generazionale – per chi aveva fatto di queste esperienze l’ultima scommessa su un’altra società e che non può accettare d’averla persa.

1. Sistema di accumulazione neo-sviluppista, nazionalista e statalista, che in questi ultimi decenni si è affermato in modo particolare in America latina. Fondato sullo sfruttamento intensivo delle risorse naturali in una logica di crescita infinita a servizio del consumismo individuale incurante dei limiti ecologici.