A cura della redazione
Non sono stati certamente molti coloro che sono rimasti sorpresi di fronte alle prime scelte significative compiute da Emanuel Macron, in particolare la designazione di un rappresentante della destra repubblicana, Edourd Philippe, quale primo ministro. Solo surreali distinzioni (alle quali ci hanno abituato in questi anni i commenti dei politologici) riescono a distinguere un simile personaggio (e il suo referente Juppé) dal resto della sua famiglia politica: quella dei Sarkozy, dei Fillon, etc.
È solo passando all’analisi concreta delle politiche immaginate e proposte che si comprende come in Francia, ma non solo, vi sia un “grande centro” (di cui fanno parte una serie di partiti tradizionali di origine liberale, cattolico o socialdemocratico) che condivide gli stessi orientamenti.
Così, ad esempio, l’ultimo governo ha varato alcune leggi contestatissime dai lavoratori (dalla Loi Macron alla Lois Travail) che sia il nuovo presidente che il suo primo ministro designato hanno già annunciato di voler mettere in vigore (varando i relativi decreti) durante l’estate. E non sarà che l’inizio di quella “guerra sociale” che Macron ha annunciato con lo slogan “liberare il lavoro”. Da chi? Da cosa? Semplice, da quelle « rigidità » che oggi lo terrebbero “prigioniero”, realizzando quelle «riforme» che altro non sono che controriforme tutte tese a favorire padronato e capitale e le loro esigenze di redditività. Politica sociale, funzione pubblica, scuola: tutto verrà rimesso in discussione con, in prospettiva, diminuzione di prestazioni, soppressione di posti di lavoro, diminuzione dei finanziamenti, liberalizzazione del mercato del lavoro.
Nell’elezione di Macron e nel suo progetto (e nella maggioranza presidenziale “mista” che sicuramente lo sosterrà) vi è sicuramente un elemento di novità. Infatti negli ultimi trent’anni (in Francia come altrove), destra e sinistra si alternavano al governo continuando tuttavia (con qualche simbolica eccezione) a portare avanti le stesse politiche; ora, sono riunite nella stessa persona, nella stessa funzione presidenziale, nella stessa maggioranza. Uno scenario non dissimile, ad esempio, da quanto succede da anni in Germania (con i governi della grande coalizione) o in Italia con l’alleanza tra destra e sinistra (è difficile considerare Angelino Alfano un uomo di “centro”). O, ancora, da quanto in Svizzera avviene a livello federale da quasi sessant’anni.
La brutalità della crisi che colpisce la “sinistra” francese rilancia con forza un concetto che negli anni recenti avevamo utilizzato, e cioè l’idea che fossimo alla fine di una fase della storia del movimento operaio. Una fine che si manifesta nella crisi politica (di orientamento, elettorale, di dirigenza) dei suoi partiti “storici”, così come delle sue organizzazioni tradizionali (a cominciare dai sindacati tradizionali). Una crisi che, oggi, sembra accelerarsi.
Una cosa si può affermare con sicurezza: da nessuna logica elettoralista, da nessun “populismo di sinistra”, da nessun richiamo ai valori patriottici (seppur a difesa dei lavoratori e delle lavoratrici della “nazione”), nessun atteggiamento “leaderistico” e “provvidenziale” – come ci propone lo stesso Mélenchon: nulla di tutto questo potrà porre basi solide per un’alternativa al capitalismo realmente esistente.
È difficile oggi dire le forme che assumerà questa ricomposizione politica (in atto in Francia, ma anche in altri paesi – Italia, Spagna- e oggi ancora nelle fasi iniziali), ma appare sempre più evidente che i salariati potranno contare che su loro stessi e sulla loro capacità di mobilitazione se vorranno difendere i propri interessi e disegnare i contorni di una possibile alternativa ad un capitalismo sempre più regressivo e autodistruttivo.