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di Diego Giachetti

Percentuali da trionfo, numeri malvagi dietro il “trionfo” di Renzi. Dai 3 milioni delle primarie di Veltroni a 1 milione e 800 mila di quelle renziane. Un partito da riscrivere.

La procedura per nominare il nuovo segretario del Partito democratico (Pd) prevede due passaggi. Il primo riguarda gli iscritti al partito, chiamati a votare per una delle mozioni presentate dai candidati che erano tre: Renzi, Emiliano e Orlando. Nel secondo passaggio i candidati si sono sottoposti al voto delle primarie, elezioni aperte a tutti quelli che vogliono partecipare. I risultati della prima tornata congressuale hanno visto l’affermazione di Renzi con 176.743 voti, pari al 66,73% dei 264.879 voti validi (il 59,15% degli iscritti), secondo Orlando col 25,26%, terzo Emiliano con l’8%. Dopo i tre candidati si sono sottoposti al voto delle primarie alle quali hanno partecipato 1.839.000 elettori. Renzi ha ottenuto 1.257.091 voti (69,2%), Orlando 362.691 (20%), Emiliano 197.630 (10,9%).

Percentuali da trionfo, numeri malvagi

Questi dati nudi e crudi meritano alcune considerazioni. Innanzi tutto non bisogna fare come fa Renzi e il Pd che sbandierano la percentuale, dimenticando i valori assoluti. I numeri parlano di un partito, ancora grande, che si è fatto più piccolo. Ecco che il 67% sbandierato come vittoria travolgente di Renzi nei congressi di partito si ridimensiona per acquisire il suo reale peso: poco più di 170 mila voti. Stesso ragionamento vale per le primarie. Nel 2007 i partecipanti alle primarie, quelle che elessero segretario Walter Veltroni dell’appena fondato Pd, furono 3.554.169. Due anni dopo, quando Bersani fu eletto segretario, i partecipanti furono 3.102.709. Poi nel 2013, quando venne l’ora di Renzi, il numero degli elettori scese a 2.814.881. Oggi si è attestato su 1.800.00 circa. Un calo notevole che, sbandierando le sole percentuali, non risulta. L’odierno 69% di Renzi è conquistato su una base elettorale più ristretta rispetto a quella del 2013. In numeri assoluti il vincitore prende circa 1.200.000 voti, cioè centinaia di migliaia di voti in meno rispetto a quelli ottenuti (1.800.000) nel dicembre del 2013.

La propaganda di partito, assecondata da alcuni giornali “compiacenti”, ha giocato su previsioni di partecipazione inferiori per poi rallegrarsi del risultato migliore del previsto. E’ un approccio meschino che nasconde un dato di fatto: le primarie attuali hanno visto un milione di votanti in meno di quelle precedenti. Dal 2007 il numero dei votanti alle primarie è andato costantemente diminuendo: oggi sono circa la metà dei tre milioni e mezzo iniziali. Il dato indica un minore interesse degli elettori per questo tipo di partecipazione che e non si spiega solo con la scissione della minoranza di sinistra che ha dato vita, nel febbraio del 2017, al Movimento Democratico e Progressista. Esso rivela anche una perdita di consensi elettorali la cui dimensione non è compensata dai consensi attribuiti alla nuova formazione politica.

La percentuale di consenso che Renzi ha ottenuto in queste primarie nasconde un paradosso. Renzi ottiene le percentuali più alte (75-80%) nelle regioni in cui il numero dei votanti alle primarie è significativamente calato. Appare forte proprio nelle regioni di vecchio radicamento del Partito comunista, poi Democratici di sinistra, poi Pd, dove gli elettori invece diminuiscono di numero. In quelle che erano considerate le “regioni rosse” e nel nord la partecipazione scende mediamente del 40%. Solo in tre regioni del meridione i partecipanti alle primarie aumentano o non calano rispetto al 2013. Se in quelle zone le cose sono andate meglio è grazie alla presenza di leader locali forti, come in Campania e come in Puglia dove il governatore Emiliano, candidato a segretario, raccogliere un forte consenso personale. La diminuzione del numero dei partecipanti si accompagna ad un mutamento nella loro composizione sociale e politica. Le prime analisi descrivono un bacino di consenso per Renzi che si annida nella classe media il cui status scivola verso il basso, composta anagraficamente da cinquantenni e sessantenni: quattro elettori su 10 hanno più di 65 anni. Se il Pd resta il partito preferito dai pensionati, il calo della partecipazione lascia intravedere la prosecuzione della perdita di consensi in quella che veniva considerata la parte tradizionale dell’elettorato di sinistra: insegnanti, artigiani, piccoli imprenditori e fasce di elettorato giovanile. Insignificante l’apporto venuto dai disoccupati. Quanto agli operai la disaffezione verso il Pd dura da tempo. Già nel 2013 quasi il 30% degli operai aveva votato per il Movimento Cinque Stelle e appena il 20% per il Pd.

Un partito da riscrivere

Il Pd vanta sulla carta 6.448 circoli, ma qual è oggi la loro funzione all’interno del partito? L’ossatura dei circoli è costituita da un apparato burocratico e amministrativo di assessorati e sottogoverno sorto e tenacemente aggrappato al governo, al centro come in periferia. Il Pd amministra 15 regioni su venti e un gran numero di città. E’ facile dedurre che è questo “ceto politico” che ha votato e tirato la volata a Renzi. E’ lo zoccolo duro che si schiera sempre con la “ragione”, cioè col segretario dato per vincente. Quando Renzi, nel 2013, divenne segretario del Pd e poco dopo capo del governo, ereditava un partito nel quale si sommavano le due componenti che lo avevano costituito: gli ex democristiani e gli ex comunisti. Nel corso della sua segreteria egli ha perseguito il progetto di trasformare questo partito in qualcos’altro. L’attuale tornata congressuale e la nuova affermazione a segretario concludono una vicenda politica e ne aprono un’altra. La conclusione renziana ha pagato un prezzo notevole e il calo della partecipazione alle primarie è solo uno degli ultimi sintomi, ma ha consegnato a Renzi un partito più coeso attorno alla sua leadership. Renzi ha vinto, ma vince in un mondo che si è fatto più piccolo, dentro un partito ridimensionato con tratti evidenti d’afasia. D’altronde non gli è stato difficile vincere contro avversari deboli: un ministro, Orlando, fino a ieri renziano, improvvisamente diventato antirenziano ed Emiliano che, con un piede già fuori dal partito, si è ritratto improvvisamente ed è rientrato. Una vittoria prevedibile la sua, dovuta anche all’inconsistenza dei suoi concorrenti i quali raccolgono comunque un sentimento antirenziano pari al 30%.

La scelta di rivotarlo, fatta da centinaia di migliaia di elettori, questa volta ha caratteristiche diverse dalla precedente avvenuta nel 2013. Chi lo ha fatto lo ha riconfermato, approvando col suo voto scelte politiche governative pesanti, sovente impopolari (Jobs act e riforma della scuola), insuccessi veri e propri, errori politici evidenti, come buttarsi a testa bassa nel referendum istituzionale, dubbi e ombre lasciate da inchieste aperte dalla magistratura e da alcuni conflitti di interesse familistici. Allo stesso modo il voto di approvazione per Renzi esprime la condivisione della modalità e delle decisioni prese in merito alla battaglia interna, che ha comportato la rottura nel partito alla vigilia del congresso.

Tre anni di segreteria Renzi non sono passati invano. Se il suo amico francese Macron ha dovuto uscire dal suo partito per poi svuotarlo, il nostro lo ha rivoltato dall’interno, gettando al macero i capitoli del libro precedente, assieme a una parte degli autori. Renzi ne è consapevole tant’è che a vittoria ottenuta ha parlato subito di “nuovo inizio” e di “un foglio bianco” tutto da scrivere, ma assieme a chi? Al correntone che lo ha supportato e ha favorito la sua rielezione col quale dovrà dividere posti di potere, a cominciare dalla formazione delle liste elettorali, quando ci saranno le elezioni politiche.

Dal partito al governo del paese

Sulle pagine del quotidiano del Pd, «L’Unità», a commento del risultato ottenuto dal nuovo segretario, si legge che l’identificazione fra segretario e candidato premier, che è uno dei capisaldi originari del partito, porta con sé la riaffermazione della “vocazione maggioritaria” che del Pd è, per così dire, la struttura genetica e la ragion d’essere. Ne consegue che il Pd si muoverà nei prossimi mesi per realizzare la propria vocazione al governo. La discussione un po’ stucchevole sulle alleanze, scrivono ferventi, appartiene ad un’idea antica della pratica politica che il Pd, con la sua stessa nascita, ha inteso superare. Oggi il Pd vuole candidarsi autonomamente alla guida del Paese. Come realizzare tale proposito? I prossimi passi del leader potrebbero ricalcare il suo consolidato modo di agire in tre direzioni: varare una legge elettorale che freghi il M5S, appoggiare l’attuale governo per poi farlo cadere e correre verso elezioni anticipate, prima del varo della manovra economico-finanziaria d’autunno i cui provvedimenti impopolari potrebbero trasformare in miraggio la sua speranza di tornare alla guida dell’esecutivo. Con la rielezione Renzi ha ricostruito la prima tappa del suo percorso: si è assicurato il controllo del partito. L’atto di investitura di Renzi potrebbe costringere pezzi della sinistra a riorganizzarsi senza contare o sperare di allearsi col Pd per ricostruire il centro-sinistra. La necessità c’è, ma non è sufficiente di per sé a trovare una risposta. In fondo il Pd rimane, rispetto alle altre organizzazioni politiche, un colosso, l’unico punto di riferimento sicuro per la borghesia italiana che continua ad appoggiarlo. La sinistra è debole e frammentata. Cinicamente si deve osservare che il numero dei votanti alle primarie, seppur diminuito, rappresenta all’incirca il totale dei voti raccolti alle ultime elezioni politiche da Sinistra Ecologia Libertà e Rifondazione Comunista. Lavoratori, disoccupati, impoveriti dalle misure governative e dall’applicazione ferrea delle normative europee, procedono a gruppi separati alla ricerca di un’alternativa. Soffrono e protestano per premiare poi, secondo i sondaggi, la destra populista, sovranista e nazionalista e il Movimento Cinque Stelle che, per il consenso che mantiene, rappresenta a livello numerico la maggiore forza d’opposizione.