di Giuseppe Sergi
I fenomeni storico-sociali hanno la memoria lunga. E le risposte sbagliate, o approssimative, date di fronte a momenti fondamentali della storia politico-sociale possono concorrere a determinare in modo negativo lo sviluppo della realtà per molti anni, per intere generazioni.
Il problema diventa drammatico se sono le organizzazioni di quello che un tempo si chiamava il movimento operaio (partiti, sindacati, etc.) a dare risposte sbagliate e inadeguate, concorrendo in questo modo a far subire ai salariati sconfitte che durano nel tempo e che, spesso, sono contrabbandate, al momento di quelle infelici scelte, come il “male minore”, come “sacrifici” da accettare per difendere l'”essenziale”.
In realtà, l’accettazione di controriforme rappresenta di solito il primo passo di una serie ulteriore di peggioramenti e di indietreggiamenti che, a volte, appaiono nella loro drammaticità solo qualche anno dopo; ma che hanno le loro radici proprio in quelle “riforme” accolte come il “male minore”.
Per illustrare quanto stiamo affermando facciamo riferimento a due temi, oggi di grande attualità: il sistema pensionistico e la riforma della Posta.
Il sistema dei tre pilastri
Non vogliamo fare qui una lunga ricostruzione storica. Ci limitiamo a rammentare che l’attuale sistema pensionistico (detto dei tre pilastri) ha origine nella metà degli anni ’70 quando; ad un’iniziativa popolare che chiede di potenziare il primo pilastro AVS (Iniziativa per vere pensioni popolari), governo e Parlamento nazionali, in modo quasi unanime, oppongono la realizzazione del cosiddetto sistema dei tre pilastri. L’idea di fondo è di costruire, a fianco del primo pilastro dell’AVS che funziona su un sistema solidale di ripartizione (in poche parole: i contributi degli attivi finanziano le rendite dei pensionati e vengono comunque garantite prestazioni minime) un secondo pilastro fondato su un sistema a capitalizzazione. Un sistema cioè nel quale ogni assicurato costruisce un proprio capitale (attraverso versamenti obbligatori di lavoratore e datore di lavoro) che, accumulato e aumentato da interessi e da redditi di investimenti, permetterà di versare una rendita corrispondente al volume di capitale di vecchiaia accumulato.
I due sistemi (primato delle prestazioni e primato dei contributi) mostravano le due vie alternative con le quali, negli anni successivi, tutti i sistemi pensionistici – dappertutto nel mondo – sarebbero stati confrontati: da un lato la solidarietà sociale e generazionale (AVS), dall’altro l’individualismo fondato su una redditività del capitale-risparmio individuale nel quadro dei meccanismi del mercato finanziario.
Non avrebbero dovuto esserci dubbi su quale avrebbe dovuto essere il posizionamento di coloro che affermavano di difendere gli interessi dei salariati, futuri pensionati. Eppure, nella votazione e nella campagna che opponeva, il rafforzamento dell’AVS alla costituzione del sistema dei tre pilastri, USS e PSS si schierarono apertamente per il sistema dei tre pilastri, garantendo in questo modo un successo scontato a questa opzione e il massiccio rigetto dell’iniziativa per vere pensioni popolari.
Dopo quella votazione (1972) passò molto tempo prima che il Parlamento (come al solito compiendo ulteriori passi indietro rispetto al progetto approvato) mettesse in pratica il secondo pilastro: fu nel 1985 che la Legge sulla previdenza professionale – LPP entrò in vigore.
Da allora, sia a livello nazionale che internazionale, li discredito dei fondi pensione e dei sistemi pensionistici fondati sulla capitalizzazione non ha fatto che amplificarsi: a tutti è apparso evidente che molto spesso il futuro pensionistico di milioni di lavoratori e lavoratrici è legato a speculazioni finanziarie che non reggono (e non possono reggere) sul lungo periodo.
Le crisi finanziarie più recenti (in particolare quella del 2008) hanno a messo a nudo tutti i limiti di questi sistemi. A tal punto che oggi, nel nostro paese, il secondo pilastro ha problemi chiari di sopravvivenza a medio-lungo termine: dove per “sopravvivenza” intendiamo la capacità di finanziare rendite adeguate per tutti coloro che vi contribuiscono e che abbiano un rapporto con i contributi che i salariati versano ogni mese.
Naturalmente, e val la pena ricordarlo, la crisi del secondo pilastro e dei suoi “rendimenti” non può essere compresa al di fuori della crisi di redditività complessiva del capitale: il profitto prodotto complessivamente a livello mondiale non è più sufficiente per remunerare adeguatamente sia il capitale che il lavoro. Ed è normale, dal punto di vista del capitale, che una quote sempre minore vada alla remunerazione del lavoro (sotto forma di salario normale o, è il caso delle pensioni, sotto forma di salario differito).
La riforma previdenza vecchiaia 2020 (PV2020) è la presa d’atto del fallimento del sistema dei tre pilastri rispetto ai problemi che, ci si diceva, avrebbe risolto: rafforzare le rendite per i salariati e garantire loro rendite adeguate (75% dell’ultimo salario), rispondere alla sfida dell’invecchiamento della popolazione, permettere anche ai bassi salari di avere pensioni adeguate.
Nulla di tutto questo è avvenuto o avverrà, le prospettive essendo ormai sempre più allarmanti. La sola cosa che si è potuta concretizzare è la messa a disposizione di enormi masse di capitali (centinaia di miliardi) da amministrate e far rendere, non solo per gli assicurati, ma, soprattutto, per gli amministratori: banche, assicurazioni, fondi pensionistici.
Ed allora, ecco il progetto PV 2020 che propone qualche briciola per l’AVS (i famosi 70 fr. di aumento per le future rendite – ricordiamo che nulla andrà gli attuali 2,3 milioni di pensionati) chiedendo in contropartita sacrifici alla maggioranza della popolazione (le donne: che saranno costrette ad andare in pensione un anno dopo!); e che al contempo prosegue lo smantellamento delle prestazioni del secondo pilastro: accanto al tasso di interesse, ormai ridotto a quasi nulla negli ultimi anni, ecco una ulteriore diminuzione del tasso di conversione (la percentuale che trasforma il capitale di vecchiaia accumulato in rendita) dal 6,8% al 6%, una diminuzione delle rendite del 12%. Una decisione che ci indica chiaramente che, in prospettiva, le rendite del secondo pilastro saranno estremamente ridotte, senza rapporto con i contributi che oggi vengono prelevati. Contributi che tenderanno ad aumentare poiché, paradossalmente, il secondo pilastro si rafforzerà, andando a prelevare ulteriori contributi anche nei salari più bassi che finora sfuggivano alla contribuzione. Paradossalmente, nel momento in cui questo sistema mostra tutto il suo fallimento, Parlamento e governo decidono di “potenziarlo”, perlomeno da punto di vista del capitale messo a sua disposizione.
Quel che sta succedendo è il punto d’arrivo di un sistema scelto quasi cinquant’anni fa e che ora, giunto a maturazione, mostra tutti i suoi limiti. Chi lo ha voluto dovrebbe trarne le conseguenze. E se è normale che la parte padronale non voglia farlo (perché è un sistema per lei redditizio), meno normale appare che coloro che, a sinistra, lo hanno fortemente voluto, non solo non lo rimettano in discussione, ma votino una riforma(PV2020) che non fa che perseguire in quell’errore. Certo direzioni di PSS e USS mostrano in questo una posizione coerente (nell’errore!); ma oggi, come quasi cinquant’anni fa, assolutamente contraria agli interessi dei salariati e delle salariate.
E la Posta?
La riforma che alla fine degli anni ’90 ha portato alla separazione delle PTT e alla costituzione de la Posta era gravida dei processi di privatizzazione e aziendalizzazione che hanno portato ad una diminuzione del personale, ad un peggioramento delle condizioni di lavoro e salario, ad un indebolimento del servizio pubblico.
I diversi progetti di ristrutturazione che si sono susseguiti negli anni hanno dimostrato come nella riforma della PTT e nella creazione de La Posta vi fosse una logica di mercato. Gli attuali progetti di soppressioni di uffici postali, l’ennesimo progetto dopo altri già concretizzati, affonda le sue radici proprio nella riforma della Posta.
Eppure, anche su questo punto, coloro che avrebbero dovuto opporsi non lo fecero. Anzi, rivendicarono il loro ruolo nella riforma della Posta. Christiane Brunner, deputata PSS – sarà poi presidente – e dirigente dell’USS, così commentava quella riforma: ” Iborghesi hanno cominciato i lavori in commissione con due chiari obbiettivi. In primo luogo volevano fare passare la nuova legge sulle telecomunicazioni, senza considerazione per la legge sulla Posta. Secondariamente, volevano una pura legge di mercato.[…] I borghesi non sono riusciti a realizzare questi due obbiettivi. Sotto la direzione del PS, con il sostegno dei Verdi, di una parte del PPD e di qualche radicale delle regioni periferiche e di montagna, il Parlamento ha adottato la riforma delle PTT come un tutto. Con questa riforma, abbiamo fatto del servizio pubblico e dell’approvvigionamento di base dei soggetti maggiori e siamo riusciti ad ancorarli nella legge. Con questa riforma abbiamo creato le condizioni sul piano nazionale che permetteranno alle Telecom di sussistere nel mercato globalizzato delle telecomunicazioni e di conservare i suoi posti di lavoro. La riforma delle PTT è giudiziosa”. Oppure, ancora più specificatamente, sentiamo cosa diceva a quei tempi Simonetta Sommaruga (oggi consigliera federale socialista): “nell’ottica del consumatore e della consumatrice, è decisivo che dopo la riforma della Posta, il servizio universale resti assicurato sull’insieme della Svizzera.[…] La rete di uffici postali potrà fondamentalmente restare intatta. […] Così la Posta continuerà a soddisfare i bisogni di grande parte della popolazione.»: abbiamo visto come è andata, e sta andando, a finire. E le citazioni potrebbero moltiplicarsi a molti altri esponenti politici e sindacali.
Dal male minore…al peggio
Questi due esempi ci confermano come le politiche del “male minore” portino, praticamente sempre, al peggio. Si giustifica il sostegno ad una riforma “moderata”, “equilibrata”, che “concede qualcosa” senza rendersi conto che proprio in quelle “piccole concessioni” vi sono gli elementi di fondo che poi permetteranno a borghesi e padronato di accelerare e andare a fondo nella loro controffensiva.
Proprio la mancanza di opposizione, di resistenza a queste controriforme incoraggia i loro sostenitori più agguerriti che, e ce lo insegna la storia degli ultimi trent’anni, torneranno immediatamente alla carica. E, a poco a poco, dal male minore al peggio il cammino sarà breve.
È proprio anche alla luce di queste esperienze fallimentari, per le direzioni del PSS e dell’USS, che il loro atteggiamento di sostegno alla riforma della previdenza 2020 apre drammaticamente la strada ad altre sconfitte, in linea con quelle che hanno già favorito in passato e le cui conseguenze sono oggi sotto gli occhi di tutti.