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di Giuseppe Sergi

Non è certo una novità sentir “teorizzare” che il nuovo accordo sulla fiscalità negoziato e (quasi) approvato da Italia e Svizzera svolgerà un effetto benefico nella lotta al dumping salariale. Già in passato erano state adottate dal Parlamento cantonale misure fiscali che prendevano di mira, in modo assolutamente ingiustificato i lavoratori frontalieri, con l’idea che questo servisse a combattere il dumping salariale e sociale.

Alludiamo, ad esempio, all’aumento – deciso dal Gran Consiglio e con il beneplacito dei partiti di tutti i partiti di governo e anche di qualcun altro – del moltiplicatori dell’imposta comunale (al 100%) proprio per i lavoratori frontalieri. Misura che, evidentemente, non ha assolutamente contribuito né a diminuire il flusso dei lavoratori frontalieri presenti in Ticino, né ha costituito una risposta, nemmeno parziale, al fenomeno del dumping salariale, cioè della spinta dei salari verso il basso.
Ora – ce lo ha spiegato il presidente del governo Bertoli e alcuni “esperti” già scesi in campo – si punta su questo nuovo accordo, sottolineando come se, da un lato, il lavoratore frontaliere pagherà meno imposte in Ticino (solo il 70%), il suo reddito verrà poi – seguendo precisi meccanismi – sottoposto a tassazione nel luogo di residenza. Essendo le aliquote più alte (visto che i redditi conseguiti in Ticino appartengono comunque alla fascia dei redditi medio-alti in Italia per le evidenti ragioni legate al cambio) i frontalieri si vedranno aumentare in modo importante la “fattura fiscale”; in alcuni casi, ad esempio per redditi superiori ai 50’000 franchi, con un aumento esponenziale che può andare fino cinque o dieci volte più di quanto paghino oggi in Svizzera (ricordiamo che in Italia non pagano imposte se non nella forma indiretta dei ristorni che il Ticino riversa all’Italia per i comuni di frontiera).
Da qui si è propagata l’idea (che ha visto uniti governo, partiti e “specialisti”) che questo possa rendere meno attrattivo venire a lavorare in Svizzera o, altra geniale ipotesi, che i lavoratori frontalieri possano essere spinti – proprio da un assai più robusto onere fiscale complessivo – a “negoziare” salari più alti e a non accettare condizioni salariali svilenti.
Tutto questo non avviene e non avverrà. Millantare presunti benefici alla lotta contro il dumping da un simile accordo è pura fantasia, disonestà politica, oltre ad essere un ulteriore contributo allo sviluppo di quel clima xenofobo – di cui i lavoratori frontalieri sono l’oggetto principale – che si è istallato nel nostro cantone e di cui i successi elettorali del 9 febbraio 2014 (iniziativa sul freno all’immigrazione) e dello scorso 25 settembre (“Prima i nostri”) sono state le manifestazioni più eclatanti sul piano politico.
Un odio xenofobo costruito sull’idea che siano i lavoratori frontalieri a mettersi direttamente in concorrenza nei confronti dei lavoratori residenti (cioè offrendosi sul mercato del lavoro ad un “prezzo” più basso) e non invece, come è la realtà dei fatti, a doversi adeguare alla domanda del padronato costruita attorno a salari sempre più bassi, sulla base di una vera e propria logica di concorrenza. È il padronato (pipidino, liberal-radicale-leghista-democentrista – non a caso in questi partiti militano, in posizione preminente, alcuni dei dirigenti delle associazioni padronali) a costruire un politica di dumping offrendo salari sempre più bassi che i lavoratori, parte debole nel rapporto contrattuale, non possono far altro che accettare, in particolare quando questa contrattazione avviene su base individuale.
Questo ragionamento di un presunto effetto benefico nella lotta contro il dumping mostra poi una grassissima ignoranza su quale sia la situazione economica e sociale nelle regioni vicine e, più in generale, in Italia e in tutti i paesi del sud dell’Europa.
Basterebbe ricordare pochi dati per rendersi conto quale possa essere il “termine di paragone” con il quale si confronta un lavoratore frontaliere quando decide di accettare, senza avere alcuna possibilità di scelta alternativa, le remunerazioni che vengono “offerte” in Ticino. Nella ricca Lombardia, il salario medio lordo (2016) si è fissato a poco più di 31’000 euro annuali; a questo dato va aggiunta la constatazione che si tratta di salari lordi e come su questi livelli salariali gravi poi il peso di contributi sociali ed assicurativi assai onerosi per i salariati. Le province di Como e Varese, dal quale giunge storicamente il grosso dei lavoratori frontalieri, hanno salari medi lordi annuali ancora più bassi (attorno ai 29’000 euro). Si tratta di salari medi, che includono tutti i livelli salariali (quindi anche i salari di quadri medi e superiori, dirigenti, etc.); se dovessimo limitarci ai salari di impiegati ed operai subordinati (che rappresentano la stragrande maggioranza dei lavoratori salariati che vengono in Svizzera) non andremmo oltre il 24-25’000 euro mensili.
Già alla luce di questi semplici dati la questione della presunta “dissuasione” indotta dal nuovo accordo fiscale si rivela per quello che è: un tentativo di colpevolizzare, in un’ottica xenofoba, i lavoratori frontalieri “rei” non solo di “rubare” il lavoro, ma anche di pagare poche imposte.
In realtà i lavoratori frontalieri che guadagnano poco in Ticino non solo non subiranno un forte incremento fiscale una volta l’accordo arrivato a regime( e forse, visti anche i ritmi e la prudenza delle autorità italiane, ci vorranno decine di anni); ma anche con questo incremento sarà per loro sempre “conveniente”, rispetto alle situazioni salariali delle province lombarde che abbiamo evocato per sommi capi, lavorare in Ticino. Ed anche coloro che pagheranno molto di più (anche dieci volte di più) perché appartenenti ad un livello salariale più elevato converrà ancora, e moltissimo, continuare a lavorare in Ticino.
A questo proposito basti ricordare une esempio illustrato in televisione da uno dei maggiori esperti fiscali del cantone; questi spiegava che un lavoratore frontaliere con due figli e un reddito di circa 70’000 franchi oggi paga poco più di 700 franchi, mentre in futuro ne pagherebbe dieci volte tanto, più di 7’000 franchi. La domanda che ci si può porre: quale lavoratore frontaliere rinuncerebbe al suo lavoro in Ticino perché potrà contare solo su un reddito – dopo imposte – di 63’000 invece dei 69’000 percepiti in precedenza?
Siamo dunque dinnanzi ad un vero e proprio tentativo di intossicazione. Governo e maggioranza delle forze politiche si trovano con un accordo complessivo sostanzialmente misero, frutto di un negoziato mal gestito e senza serie proposte ed inquinato da un atteggiamento negoziale tatticamente disastroso – ve li ricordate i blocchi dei ristorni? Poche decine di milioni di franchi di fronte a quello che, all’inizio del negoziato, sembrava dovesse apportate alle casse cantonali molto, ma molto di più.
E così, non potendo far valere un risultato finanziariamente buono rispetto alle attese, ecco che ci si inventa il valore anti-dumping dell’accordo; con la speranza che le passioni xenofobe che simili messaggi sollevano vadano a beneficio (elettorale) di tutti coloro che queste panzane propagano, siano essi partiti etichettati di “destra” o di “sinistra”.
Tra qualche anno, come è stato con la commedia delle cosiddette “misure di accompagnamento” ai bilaterali, ci troveremo confrontati con la stessa situazione. Una situazione ideale per il padronato, sempre più drammatica per i salariati.

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