Tempo di lettura: 13 minuti

di Franco Turigliatto

Nell’ultima settimana di maggio molti nodi economici e politici della crisi italiana hanno conosciuto una forte accelerazione chiamando il movimento delle lavoratrici e dei lavoratori e la sinistra di alternativa ad affrontarli in una ottica coerentemente anticapitalista.

L’Ilva e la crisi occupazionale
Il primo è costituito dalla vicenda della vendita dell’Ilva dove i progetti delle diverse cordate che si contendono l’acquisto della grande azienda siderurgica prevedono migliaia e migliaia di licenziamenti senza per altro che ci sia una seria proposta di risanamento ambientale di quel territorio. I lavoratori dell’Ilva sono tornati a scioperare rifiutando un futuro senza lavoro e le incerte e perdenti elemosine degli ammortizzatori sociali. L’Ilva fa seguito alla crisi Alitalia e alle innumerevoli ristrutturazioni di tante piccole e medie aziende che mostrano tutta la drammaticità della situazione occupazionale nel nostro paese, rappresentata anche dagli ultimi dati dell’Istat. Il tasso di disoccupazione è stabile intorno all’11,1% (ma crescono gli inattivi, che non cercano più un lavoro), quello dei giovani è 34%; l’unica occupazione che cresce un poco è quella precaria (il 67% dei nuovi occupati), coinvolgendo soprattutto, per effetto della riforma Fornero, gli over 50 anni e solo parzialmente i lavoratori tra i 15 e 34 anni, mentre la fascia che tendenzialmente dovrebbe essere la più produttiva (34-49 anni) subisce un vistoso crollo (-122.000 occupati). Renzi continua a vantare i successi del Jobs Act, ma l’unica certezza sono i 18 miliardi regalati alle aziende in tre anni con il contratto a tutele crescenti. Con la fine degli sgravi contributivi sono crollate drasticamente le nuove assunzioni.
Vale la pena di ricordare che le aziende in questi anni hanno avuto una “assistenza” pubblica pari a circa 40 miliardi: l’intervento dello stato c’è stato, ma solo per i padroni del vapore.
Una forte campagna per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, e per l’intervento pubblico per creare lavoro deve essere lanciata.

I voucher e il gioco delle tre carte
Il secondo nodo è costituito dalla vergognosa e antidemocratica vicenda dei voucher. Dei tre quesiti referendari su cui la CGIL aveva raccolto più di tre milioni di forme, la Corte Costituzionale aveva già provveduto a gennaio ad eliminare il più importante (la reintroduzione dell’articolo 18). Il governo, per evitare il voto referendario sui voucher, li aveva aboliti con un decreto, così come aveva modificato la normativa sugli appalti facendo decadere il voto referendario. Ma il comportamento dei media e le dichiarazioni dell’esecutivo e del PD lasciavano pochi dubbi sul fatto che il governo volesse fare il gioco delle tre carte, facendo rientrare dalla finestra, quello che aveva dovuto far uscire dalla porta. E così è avvenuto grazie ad un emendamento del PD alla manovra economica di primavera, prontamente sostenuto da Forza Italia e da Salvini che ha così confermato, se mai ce n’era bisogno, la natura padronale della Lega.
Così la CGIL resta con un pugno di mosche nelle mani. Non ha voluto nell’autunno del 2014 costruire una mobilitazione più forte e duratura contro il Jobs Act, quando pure ne esistevano le condizioni e la disponibilità dei lavoratori, ha scelto di ripiegare sullo strumento referendario ed ora l’azione congiunta della Corte Costituzionale e del governo la riporta alla casella zero.
Certo quello che Gentiloni e Renzi fanno è un vulnus gravissimo alle più elementari regole della democrazia, va denunciato e occorre mobilitarsi, ma da tempo si sarebbe dovuto capire che oggi i padroni e i loro rappresentanti politici e di governo sono disposti a tutto, violando anche norme costituzionali, pur di arrivare ai loro obiettivi. Per impedirlo, per imporre le stesse regole democratiche serve un movimento di massa e lotte di grandi dimensioni, un percorso che le direzioni sindacali maggioritarie non hanno nella loro agenda.
E’ proprio questo invece l’obiettivo su cui battersi e per il rilancio di un forte sindacalismo di classe.

La relazione della Banca d’Italia e la prossima legge finanziaria
Il terzo nodo, quello economico, è rappresentato dalla relazione del Governatore della Banca d’Italia che ha fatto una radiografia della crisi capitalistica italiana. Visco ha ricordato che dal 2007 al 2013 il PIL italiano è sceso del 9%, la produzione industriale di quasi il 25% e gli investimenti del 30% e che il paese è ben lontano dall’aver recuperato i livelli produttivi ed economici antecedenti alla crisi. Il debito resta a livelli altissimi (133% sul PIL); la parziale ripresa (siamo ancora sotto del 7% rispetto ai livelli precrisi) è stata largamente inferiore a quella degli altri paesi europei (mediamente +5% sul 2007); la disoccupazione resta una piaga che vede peggio di noi solo Spagna e Grecia e la produttività del sistema Italia è molto bassa (soprattutto nei servizi) a causa del numero altissimo di aziende piccole o piccolissime (quelle fino a 10 dipendenti sono il 95%). Infine sulla situazione economica pesa la spada di Damocle delle altissime sofferenze delle banche. Alcune di esse sono a rischio, pur essendoci stato un forte intervento dello stato italiano (venti miliardi) e prima ancora un largo finanziamento della Banca Centrale europea di Mario Draghi.
Molti osservatori, tra cui anche le segretarie di CGIL e Cisl e il segretario della UIL, hanno sottolineato come fatto positivo la proposta di Visco di maggiori investimenti pubblici, tanto più che quelli privati continuano a latitare. Già, ma dove prendere i soldi?
In realtà Visco ha collocato come primo obiettivo la riduzione del debito attraverso un piano che dovrebbe contrarre il debito dal 133% al 100% sul PIL in dieci anni, grazie a una crescita annuale dell’1%, una inflazione del 2% e a un avanzo primario (l’avanzo al netto degli interessi del debito) del 4% annuo. Ai livelli attuali del PIL il 4% significa un risparmio di 68 miliardi ogni anno. Siamo di fronte, dato lo stato dell’economia che non ha nulla a che vedere con la seconda metà degli anni ’90 quando l’avanzo primario raggiunse il 5% del Pil, a un progetto che, se realizzato, non potrà che essere di lacrime e sangue per le classi popolari.
Il secondo obiettivo di Visco è un aumento della produttività. Ha invitato tutti i soggetti sociali, cioè il capitale, il lavoro e le loro forze politiche e sindacali a un patto straordinario che si dovrebbe concretizzare, ancor più di quanto non sia stato fatto con le recenti misure di svalorizzazione dei contratti nazionali di lavoro, in remunerazioni salariali sempre più collegate alle singole imprese e anche direttamente individuali. Forse la Camusso avrebbe dovuto dedicare più attenzione a questo passaggio del Governatore.
La terza preoccupazione di Visco è il salvataggio delle banche, trovare una soluzione ai crediti deteriorati, il cui ammontare, difficilmente quantificabile, raggiunge però le decine di miliardi. In questi giorni c’è stata, dopo sei mesi di trattativa difficile tra UE e Italia, un’ipotesi di salvataggio del Monte Paschi di Siena. Il numero degli esuberi previsti, cioè di licenziamenti, non è ancora stato comunicato ai sindacati… Non meno incerta appare la sorte delle banche venete che rischiano di saltare già nel mese di giugno e i cui dirigenti hanno inviato un messaggio molto chiaro al governo: “Fate presto”.
Il governatore ha lasciato in sordina, quella che si presenta un prova ardua per il governo italiano, la prossima legge di stabilità. Per rientrare nei parametri del Fiscal compact, la manovra si dovrebbe avvicinare ai 20 miliardi di euro, senza parlare degli investimenti aggiuntivi che sarebbero necessari. All’improvviso l’Istat ha fornito una previsione di crescita annuale del Pil superiore alle attese già ottimistiche del governo, cioè un possibile aumento dell’1,1% su base annua; il ministro dell’economia Padoan ha subito chiesto alla UE uno sconto di quasi 9 miliardi sulla manovra d’autunno, cioè di fissare il deficit nominale non all’1,2% del Pil, ma solo all’1,7-1,8% del Pil. Davvero una coincidenza fortuita nel momento in cui Renzi e soci vogliono far partire la corsa elettorale. Per le forze che hanno a cuore le condizioni della classe lavoratrice si prepara una nuova battaglia contro le politiche dell’austerità e i vincoli liberisti del Fiscal Compact.

Di corsa verso le elezioni in autunno
La quarta questione è l’accordo tra il PD, Forza Italia e il Movimento 5 Stelle su una nuova legge elettorale, presentata come una versione italiana del modello tedesco (vedi una sintesi dei contenuti).
In realtà il testo portato in Parlamento è assai lontano dal sistema elettorale tedesco se non per il fatto che assume lo sbarramento al 5% dei voti per avere diritto agli eletti. Il primo scopo di Renzi, Berlusconi, Salvini e Grillo è quello di liberarsi dei partiti minori con la speranza di diventare gli unici attori politici del parlamento.
Ma le finalità della banda dei quattro vanno ben oltre: il farraginoso sistema proposto vuole infatti garantire ai capoccia la nomina e il pieno controllo dei loro stessi eletti. Nell’epoca dei partiti leggeri, del dominio della rete e dei capi carismatici non è poi così strano che costoro non si fidino del voto elettorale e temano truppe parlamentari incerte e inaffidabili. I militanti e dirigenti dei vecchi e strutturati partiti di massa per arrivare alle cariche parlamentari, dovevano passare attraverso una collaudata adesione politica, verificata nel tempo e all’interno di direzioni politiche ben più complesse ed esperte.
Perché questa improvvisa accelerazione elettorale? Le ragioni di Renzi sono evidenti da tempo, ma anche Forza Italia e Lega si sentono oggi in condizioni migliori per reggere la sfida elettorale. E così anche il Movimento 5Stelle, che comincia a pensare che il tempo potrebbe non giocare più a suo favore, viste le troppe incertezze o contraddizioni incontrate e che il frutto sia maturo per andare rapidamente al voto con speranze di successo. Per queste quattro organizzazioni è opportuno portare a casa una nuova legge elettorale che meglio li assicuri nei loro intenti.
Rileviamo che il programma che Di Maio del M5S (la maggior forza di opposizione al governo) ha annunciato – il reddito di cittadinanza, cioè una elemosina per sopravvivere per coloro che sono in basso della scala sociale e l’abolizione di Equitalia, degli studi di settore e dell’IRAP, cioè dell’imposta sulle attività produttive, già variamente sforbiciata dai precedenti governi – non è poi così lontano dalle politiche economiche di Renzi e delle destre. Il che non ci stupisce, ma dovrebbe far chiarezza ai molti che pensano che il M5S sia la vera alternativa.
Vedremo se questa legge riuscirà ad andare in porto per votare ad ottobre. Molti sono ancora i dubbi, compresi quelli della Confindustria che con l’editoriale del Sole 24 Ore del 2 giugno, pone la domanda: “La grande corsa al voto, ma per fare che cosa?”. E dopo aver richiamato gli obiettivi indicati dal governatore della Banca d’Italia aggiunge: “Ridurre le tasse? A chi, su quale terreno e con quali risorse? Si vogliono tagliare le spese? Dove? Rilanciare il lavoro e gli investimenti? Come?”. La borghesia va al sodo, alla difesa dei suoi interessi e appare preoccupata di uno scontro elettorale in cui gli specifici interessi dei partiti possano offuscare la direzione di marcia complessiva delle cosiddette “riforme”, cioè delle politiche liberiste.
La classe dominante dispone del pilota automatico, cioè delle condizioni complessive, comprese le regole europee, all’interno delle quali tutti i soggetti che sono partecipi della logica del capitale sono chiamati ad agire, ma non può fare a meno di una centralizzazione politica che, agendo in piena consonanza con le sue scelte, sappia intervenire sulle dinamiche economiche e sulle contraddizioni sociali e politiche che di volta in volta si possono produrre.
Un bel carico di problemi politici e l’urgenza di costruire uno schieramento alternativo per le forze vere della sinistra; sulle loro scelte torneremo nella seconda parte dell’articolo.

I nodi politici e sociali della crisi italiana richiamati nella prima parte di questo articolo chiamano in causa gli orientamenti e l’operato delle forze della sinistra radicale, caratterizzata da una grande frammentazione e frustrata da una serie di difficoltà ed insuccessi elettorali.
Precisiamo subito che sono causa delle sue difficoltà sia elementi oggettivi, le pesanti sconfitte subite dalla classe lavoratrice, sia elementi soggettivi collegati alle scelte politiche di cui la vicenda più significativa è stata quella del PRC, che aveva rappresentano agli inizi del secolo un riferimento alternativo per larghi strati popolari.

Presenza istituzionale e lavoro di massa
In questi ultimi anni poi, la capacità di presenza e intervento nella costruzione dei movimenti di massa è stata debole; le attenzioni politiche nei fatti sono state indirizzate soprattutto alla conquista delle posizioni istituzionali, per le quali in troppi sono stati disposti a subordinarsi alle logiche del centro sinistra e del PD. La pratica politica e sociale che ne è derivata ha reso arduo un reale inserimento nella classe lavoratrice determinando quindi anche la perdita di posizioni sul terreno istituzionale.
Non stupisce quindi che la scadenza elettorale ravvicinata abbia prodotto una grande attivazione politica di appelli, di proposte e buoni proponimenti. Non saremo noi a negare l’utilità di una presenza istituzionale e a sottovalutare l’importanza delle prossime elezioni politiche, la possibilità e necessità di presentare una proposta politica alternativa a livello di massa rispetto a quelle delle forze maggiori, PD, FI, Lega e M5S. C’è la consapevolezza nelle organizzazioni della sinistra che il voto possa permettere un nuovo ruolo politico, ma anche, vista la legge elettorale prospettata con l’antidemocratico sbarramento al 5% , del rischio di essere spinti ulteriormente nella marginalità politica.
Non possiamo che riaffermare che per preparare al meglio le elezioni le organizzazioni della sinistra, coinvolgendo anche i diversi collettivi e soggetti di “movimento” sia locali che nazionali, devono unire le loro forze militanti e gli strumenti politici organizzativi che hanno a disposizione per costruire una vasta campagna sui temi sociali, sull’occupazione, sull’unità dei lavoratori, sull’unità con i migranti, demistificando le menzogne e le ideologie reazionarie e di incitamento all’odio di Salvini e del neofascismo.
Non c’è dubbio che ci sia in settori sociali, tanto più dopo la bella vittoria del 4 dicembre, la domanda di uno schieramento di sinistra che si faccia portatore di obiettivi democratici, sociali, ecologisti e di solidarietà di fronte alla barbarie e alle ingiustizie del liberismo; potremmo chiamarla un’aspirazione, una coscienza, una richiesta riformista elementare.

Quale programma per le elezioni
Per questo in tanti propongono uno schieramento che unisca ed assembli su alcuni punti le rivendicazioni avanzate nei movimenti sociali e nei programmi dei partiti. I buoni propositi espressi sulla carta sono molti; sul piano economico si tratta di obiettivi keynesiani, che certo non rifiutiamo, ma che il più delle volte non fanno i conti con le ferree regole e la crisi del sistema capitalistico.
Hanno queste caratteristiche non solo le proposte di SI o del PRC, ma anche il genuino appello emerso dalle “Rete delle città in comune” per costruire dal basso, partendo dalle città, una alternativa chiaramente distinta ed opposta al centro sinistra e al PD.
Il punto di riferimento è ridiventata la Costituzione italiana, di cui certo vanno difesi i diritti democratici e valorizzate le generiche indicazioni di giustizia sociale presenti, ma che resta pur sempre la magna carta di una società capitalistica.
La posizione di SI in una recente intervista a La Stampa del suo segretario è emblematica in proposito quando prospetta un progetto redistributivo per ridurre le ingiustizie sociali, tenendo conto contemporaneamente degli interessi e del funzionamento dell’impresa.
La crisi e la barbarie dell’attuale sistema capitalista chiedono qualcosa di più, misure più radicali, una sua rimessa in discussione contro ogni illusione di una sua riforma più o meno indolore.
Ma c’è anche un elemento materiale di prassi che vanifica tante buone proposte ed intenti; i giusti obiettivi sociali rivendicati non sono poi espressi in una azione conseguente, nel lavoro di massa e nelle organizzazioni sindacali che, per loro natura, sono lo strumento che può farsene carico nelle piattaforme rivendicative e di lotta. Nelle direzioni delle grandi Confederazioni dominano scelte politiche del tutto compromesse con le politiche liberiste dei governi; la subordinazione delle principali forze della sinistra ai vari settori dell’apparato burocratico è demoralizzante e perdente. Non possiamo non rilevare che anche molti soggetti dirigenti di movimenti sociali territoriali o di scopo non hanno avuto interesse, se non marginale, per quanto avveniva nel mondo del lavoro.
Solo che senza un forte intervento in questa struttura fondamentale della società capitalista (la classe lavoratrice), senza il suo protagonismo è impossibile costruire la credibilità e la forza di un progetto alternativo ed anche essere credibili sul terreno elettorale, dove le proposte generiche, ambigue ed interclassiste del M5S sembrano dare una risposta più immediata anche se fasulla, alla domanda di cambiamento. Non si può fare economia nella costruzione di un’azione permanente e di presenza nella classe, pretendendo contemporaneamente i voti per rappresentarla. Lavoriamo invece tutti invece per aiutarla a riorganizzarsi e a ridiventare un pieno soggetto politico nella crisi italiana.

La centralità della campagna per l’occupazione
La crisi occupazionale impone una vasta ed articolata campagna politica e sociale per una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario e per un massiccio intervento pubblico, comprese le nazionalizzazioni, per creare posti di lavoro stabili e retribuiti decentemente. Certo occorre dare subito a tutti la possibilità di vivere, ma il reddito di cittadinanza o salario sociale non è la soluzione decisiva; può essere solo uno strumento transitorio; potrebbe diventare una mera elemosina che non interviene sulle ingiustizie di fondo. Facciamola tutti insieme questa campagna; diventi anche uno degli assi della presenza elettorale. Incalziamo le stesse organizzazioni sindacali a partire dalla CGIL.
Nel 2009 Sinistra Critica, poi trasformatasi in Sinistra Anticapitalista, raccolse le 50.000 firme necessarie su un disegno di legge popolare funzionale a garantire un salario e un reddito a tutte e tutti. Al di là della quantificazione indicata 8 anni fa che dovrebbe essere aggiornata, riteniamo che i criteri e i contenuti del disegno di legge siano del tutto validi nella congiuntura attuale, molto di più di qualsiasi proposta di reddito di cittadinanza oggi in circolazione. Si tratta del Disegno di legge N. 1453 comunicato alla presidenza il 9 marzo 2009.

Coalizione con chi?
Lo sbarramento al 5% ha subito messo in moto la ricerca frenetica a garantirsi degli eletti (per alcuni questo sbarramento antidemocratico è stata una comoda giustificazione per agire le loro propensioni politiche moderate); ha aperto una corsa verso le alleanze più larghe, improponibili e subordinate ancora una volta ai soggetti politici (Bersani, D’Alema e company) che sono stati tra i principali protagonisti delle politiche del centro sinistra.
Fare il grande listone con gli uomini che nel corso degli ultimi venti anni, (dal primo ministro che ha bombardato Belgrado al ministro che ha compiuto le grandi liberalizzazioni), sono stati l’asse portante di gestione delle politiche liberiste e delle scelte della borghesia italiana ed europea, che si sono staccati dal loro figlio legittimo, Renzi, solo perché li ha presi a pedate, continuando però a votare le peggiori cose del governo Gentiloni, è una contraddizione di fondo. E’ negare la costruzione del progetto alternativo, ancorché riformista, che si pretende di difendere. Mostra tutta l’inconsistenza dei soggetti che lo propongono, il suo carattere meramente rivolto alla presenza istituzionale e non al progetto sociale.
Certo che ci può essere la richiesta di apparente “buon senso” di avere una lista unica a sinistra del PD, ma farla con Bersani e soci significa avvelenare l’acqua della fonte in cui si beve, significa ingannare gli elettori marciando verso un obiettivo del tutto diverso da quello che si afferma.
Non può stupire che Pisapia che voleva governare col PD e costituire un nuovo centro sinistra, respinto da Renzi, cerchi di essere il punto di riferimento di questa operazione. E così è per il Mdp che vede in questa possibile coalizione la sua sopravvivenza e il suo futuro.
Per quanto riguarda SI, i buoni propositi di alternativa del suo congresso, che aveva già scontato una fuga a destra verso l’Mdp, si sono sciolti come neve al sole, pronta a tornare in un ovile più accogliente. Del resto la pratica di governo in comune con il PD in alcune importanti regioni italiane – applicando a livello locale le politiche di austerità – segna il carattere opportunista di questa formazione più di qualsiasi proposito programmatico.
Questa rapida scelta fa saltare però anche l’ipotesi congressuale del PRC che aveva puntato le sue carte in un forte raggruppamento di sinistra che comprendesse SI, garanzia anche di una riconquistata rappresentanza parlamentare, e che aveva voluto riaffermare la sua piena alternatività sociale e politica all’austerità e a coloro che l’avevano gestita e rappresentata. A dire il vero questa impostazione politica di Rifondazione è fortemente contraddetta ogni volta che i dirigenti del PRC, indicando lo schieramento europeo che la interpreta, vi inseriscono una forza come Syriza che, come è noto, ha voltato le spalle al voto popolare del luglio 2015 e sta applicando il terzo memorandum della Troika.
Che cosa farà Rifondazione: cercare di garantirsi qualche eletto rinnegando l’anima radicale ed anticapitalista proclamata al congresso, oppure fare “il salto” difficile di una lista di alternativa programmatica?
Per parte nostra pensiamo che nelle prossime elezioni vada costruito lo schieramento più largo possibile che coinvolga forze politiche, soggetti ed esperienze sociali realizzate; per esistere deve essere costruito dal basso, ma anche con la convergenza indispensabile delle forze politiche che vogliono impegnarsi. Per essere realmente alternativo deve avere una composizione politica coerente e un programma che esprima obiettivi radicali corrispondenti alla gravità della crisi. Per usare l’espressione evangelica deve dire “pane al pane e vino al vino”, deve indicare chi sono gli avversari e i nemici, deve saper introdurre le parole e le spiegazioni anticapitaliste. Deve dire la verità e trovare i modi e le forme più semplici per farsi capire.
Lavoreremo nelle prossime settimane perché questa alternativa si possa esprimere; vogliamo realizzarla con il maggior numero di forze possibili, ma non seguiremo gli opportunismi o i cedimenti; non ci tireremo indietro dal compito indicato.

Print Friendly, PDF & Email