di Cristiano Dan
«La Repubblica» del 12 giugno titola Macron trionfa, a picco Le Pen e i socialisti. E nel sottotitolo: Maggioranza assoluta per En Marche: 450 seggi. Il titolista doveva aver bevuto un bicchierino di troppo, giacché, sino a ora, nel primo turno delle legislative francesi, sono stati assegnati solo 4 seggi: 2 appunto a Macron, uno all’Union des démocrates et des indépendants, e uno a un «altro di sinistra», non meglio specificato dal ministero degli Interni francese.
Certo, è probabilissimo che nel secondo turno Macron farà man bassa di seggi, anche se è alquanto dubbio che se ne aggiudichi altri 448. Ma comunque non è questo il punto. La vittoria di Macron è sicura, anche se non nelle dimensioni desiderate da «Repubblica». Ma cosa significa? E cosa significherà in futuro?
Macron è un sintomo della crisi. Ma anche un acceleratore della crisi
L’entusiasmo suscitato da Macron in molti ambienti politici e in quasi tutti i media europei è il riflesso diretto e un po’ autistico del panico che si è diffuso in questi ultimi anni in “quelli di sopra”. La crisi economica ingovernabile ha prodotto tante lacerazioni nel tessuto sociale da far traballare non solo l’edificio dell’Unione europea, ma anche quelli di molti degli Stati che la compongono. L’impoverimento di larghi strati della popolazione, compreso quel mitico “ceto medio” da sempre ritenuto lo zoccolo duro dei regimi democratici; l’aumento della disoccupazione, occultato in gran parte dal diffondersi sempre più del precariato; il moltiplicarsi degli scandali che coinvolgono “quelli di sopra”; la crisi dei partiti tradizionali e il progressivo allentarsi, o addirittura la scomparsa, della loro funzione di “cinghia di trasmissione” fra società e sovrastruttura politica… Tutto ciò, e altri fattori che sarebbe troppo lungo enumerare, ha portato a una crisi generalizzata del sistema democratico, che si manifesta con gradazioni diverse nei vari Paesi.
L’indicatore più evidente di questa crisi è il precipitare verso il basso della partecipazione al più elementare e diffuso “rito” democratico: le elezioni. Buon ultimo esempio del progressivo aumento dell’astensionismo è proprio la Francia di Macron, che in questo primo turno delle elezioni legislative batte ogni record, con un’astensione che raggiunge il 51,3 %: un francese su due ha deciso, a ragione o a torto, che l’elezione dei deputati non gli interessava. Ma se l’astensionismo è il primo indicatore, ve ne sono anche altri: l’emergere di movimenti “populisti” di destra e d’estrema destra; il progressivo e spesso accelerato declino dei partiti “storici” sui quali s’è costruito l’edificio europeo: socialdemocratici, liberali e democristiani (sia pure con qualche significativa eccezione); i tentativi sempre più frequenti (l’Italia è all’avanguardia in materia) di ridurre la rappresentatività dei parlamenti a favore di soluzioni “decisioniste” e semplificatrici, in altre parole autocratiche (Porcellum, Italicum e via latineggiando); il diffondersi di illusorie teorie sulla “democrazia diretta” telematica (!), di cui il Movimento 5 stelle è in Italia l’alfiere, e che si rivela sempre più per quello che è: un sonno della ragione. E si potrebbe continuare.
Come hanno reagito a questa situazione di crisi generalizzata i partiti e le classi al potere? Non certo cercando di curare il male alla sua radice, cioè mettendo le briglie a un’economia internazionale sempre più scatenata e ottusamente cieca. Ma tentando di metterle, le briglie, a chi protestava (legislazioni sempre più restrittive in materia di libertà politiche e sindacali), e/o andando alla ricerca di soluzioni semplificatrici. Che cosa di meglio, per esempio, di pifferai in grado di improvvisare “narrazioni” incantatrici in grado di “far sognare le masse”? In Italia il prototipo è stato Berlusconi, il miliardario che prometteva di trasformare il Paese in un’Isola dei famosi. L’esempio ha fatto scuola, com’è noto, sul versante del centrodestra, ma è stato imitato anche su quello del centrosinistra, con la comparsa del Machiavelli di Rignano, il rottamatore di professione, che per ora ha rottamato solo i propri governi (a parte la rottamazione di cose più serie, come l’articolo 18). Ma se ci si guarda attorno di pifferai ce n’è in abbondanza: uno, negli Stati Uniti, ha il potere, se gli salta il ticchio, di far partire i missili con le testate nucleari; il suo amico-nemico, Putin, idem; nel Regno Unito, dopo Cameron, che ha distrattamente innescato la Brexit, è arrivata Theresa May, che ha combinato quel che sappiamo e si trova nei pasticci anche se sembra non capirlo bene. E tralasciamo di occuparci di pifferai di rango inferiore, come Salvini, Le Pen e soci.
Le teste d’uovo liberaldemocratiche, quelle che “fanno opinione”, hanno un moto di ribrezzo quando devono occuparsi di simili pifferai. Da dove sono saltati fuori? si chiedono sconcertati. Ma proprio dalle loro teorizzazioni, o per meglio dire, dall’ideologia che in questi anni hanno propagandato in tutti i modi: più libertà di mercato, meno lacciuoli sindacali, più individualismo, più consumismo, meno panem e più circenses, con l’aggiunta magari di qualche selfie. Hanno deliberatamente lacerato il tessuto sociale convinti di poterlo sostituire con una massa amorfa di individui, controllabili dall’alto, controllabili dal “mercato”. Non più cittadini più o meno organizzati, ma “clienti” del grande supermercato che sognano al posto della società. (Non a caso, se prendete un treno, non sentirete più gli altoparlanti trattarvi da “viaggiatori”, ma da “clienti”.)
Bene, le teste d’uovo hanno trovato il loro nuovo pifferaio: Macron. Sintomo della crisi che ha colpito anche la Francia. Ma anche fattore della prossima crisi che la colpirà.
I numeri di Macron
Qui non si tratta di cercare di consolarsi sminuendo la portata della vittoria di Macron. Questa c’è, ci sarà al secondo turno, e produrrà i suoi effetti, come vedremo. Si tratta piuttosto di ricondurla alle sue dimensioni reali e al suo contesto.
Inutile perdere tempo, dilungandosi sul retroterra che ha alimentato il fenomeno Macron. La Quinta Repubblica francese – quella fondata da un Macron d’altro spessore, Charles De Gaulle – era entrata in crisi terminale già da tempo, e la scialba presidenza del socialista Hollande ne ha rappresentato il crepuscolo. Alle origini della crisi stanno tutti i fattori economici e sociali che ritroviamo in quasi tutti i Paesi europei, cui va aggiunto uno specifico fattore politico. Il regime politico francese, presidenziale e maggioritario, strappa gridolini d’invidia a tante teste d’uovo nostrane, eminenti studiosi e meno eminenti giornalisti compresi, ma in realtà ha mascherato a lungo, aggravandola, la gravità della situazione. Il sistema a doppio turno, che costringe di fatto i francesi a votare contro un candidato (Le Pen padre, Le Pen figlia) più che a favore di un altro, piace in giro perché semplifica le cose. Certo, le semplifica: ma un po’ troppo. Per anni l’opposizione di destra e di sinistra al regime è stata emarginata dalla vita parlamentare – e quindi politica – ufficiale. Ma non è stata cancellata. Quella di destra è andata anzi crescendo, in un’occasione stoppata in extremis da un sussulto républicain, che ha costretto anche chi era di sinistra a votare un invotabile esponente della destra. Questo sistema semplificatore ha però anche abituato male la classe politica francese. Ormai allenata a fregarsene dell’opposizione, a non tenerne conto, perché non presente in parlamento o presente in modo irrilevante, ha finito con il perdere il senso della realtà. Il sistema politico francese, il suo parlamento, non rispecchia per niente la realtà del Paese: la deforma, favorendo un’illusoria sensazione di sicurezza nella classe politica sempre meno in sintonia con i settori sociali di cui si vorrebbe espressione.
La minaccia rappresentata dall’estrema destra lepenista è stata a lungo sottovalutata, convinti come s’era che il sistema era in grado di neutralizzarla o tenerla sotto controllo, riducendola all’angolo. Ma quell’angolo andava dilatandosi sempre più col passare degli anni. Alla vigilia delle ultime presidenziali il pericolo di un’affermazione della Le Pen era reale, il Partito socialista al governo era nel panico, e un suo settore era tentato tra l’altro da un’ipotesi “renziana” (Valls), mentre la destra tradizionale era impelagata in una serie di lotte interne con contorno di scandali economico-finanziari. A questo punto compare il pifferaio, Macron, che ha buon gioco nello svillaneggiare l’intera classe politica, autocollocandosi al centro («né di destra né di sinistra», dice in modo del tutto originale…) e circondandosi di un nucleo di giovani in minima parte ingenui e in massima parte ambiziosissimi.
Arrivano le presidenziali e si grida al miracolo: Macron arriva in testa con il 24 % dei voti, contro il 21 % della Le Pen, il 20 % di Fillon (destra tradizionale) e il quasi 20 di Mélenchon (sinistra radicale: ma anche lui è un semi-pifferaio, sia pure di sinistra). Ripetiamolo: Macron è stato bravissimo, abilissimo, partendo da zero o quasi (ma di appoggi ne ha avuti, eccome), anche se in fin dei conti non è che avesse strafatto: a una percentuale simile potrebbe arrivare Grillo (se si presentasse) e Corbyn, con un partito che in gran parte remava contro e tutta la stampa scatenata nel dileggiarlo, ha ottenuto una percentuale di voti quasi doppia. Ma la fortuna di Macron era quella di disporre di un sistema elettorale che lo avvantaggiava: c’era da battere la Le Pen, come al solito, e così anche l’operaio che dalla legge sul lavoro che ha in testa Macron ha tutto da perdere s’è trovato di fronte al dilemma: se non voto Macron rischia di passare la Le Pen, se lo voto rischio di trovarmi a spasso…
Così Macron “conquista” al secondo turno presidenziale il 66 %, oltre 20 milioni di voti, almeno la metà dei quali datigli turandosi il naso. E arriviamo così alle elezioni di ieri. Dal 24 % del primo turno delle presidenziali Macron arriva, al primo turno delle legislative, al 28 %. Un bel progresso, certo, ma non ci sembra niente di trascendentale, per il partito del presidente della Repubblica. Se poi non ci fermiamo alle percentuali, ma guardiamo anche ai numeri reali, scopriamo un fatto interessante: dai quasi 8.700.000 voti del primo turno delle presidenziali (quindi voti macronisti, senza turarsi il naso) Macron “passa” a quasi 6.400.000, cioè ne perde per strada 2.300.000, fra un terzo e un quarto. Il fatto è che, come s’è detto più sopra, la partecipazione elettorale è caduta al 47,6 %, e tutti i partiti, nessuno escluso, perdono voti rispetto alle presidenziali. Per quanto riguarda Macron, dunque, sarà bene prendere nota di un fatto: il suo attuale 28 % equivale al 13,4 % del corpo elettorale; è più o meno un convinto macronista poco più di un francese su dieci. Quando al secondo turno, per non far passare i candidati lepenisti, il suo bottino di voti aumenterà, è bene non dimenticare questa cifra. Che però non gli impedirà di sferrare, come ha già annunciato, un pesante attacco alla legislazione del lavoro.
Resta da dire qualcosa sugli altri partiti. Tralasciando le percentuali, che in questo caso ci direbbero ben poco, rispetto alle presidenziali il Front national si attesta a tre milioni di voti (perdendone quasi 4.700.000), la destra dei Républicains è dimezzata (da oltre sette milioni passa a tre e mezzo), e tralasciando le formazioni minori, sorprendentemente il Partito socialista, pur subendo un tracollo rispetto alle precedenti legislative, “regge” meglio rispetto alle presidenziali: con circa 1.700.000 voti nel perde circa 600.000. Quanto alla sinistra, il movimento di Mélenchon ha rotto con il Partito comunista, che lo aveva sostenuto mugugnando un po’ alle presidenziali, quando assieme avevano raccolto sette milioni di voti: ora La France insoumise di Mélenchon ne ottiene due e mezzo, e poco più di 600.000 vanno al Partito comunista: circa quattro milioni sono finiti nell’astensione. Un disastro, cui non portano rimedio le poche liste presentate dal Nouveau parti anticapitaliste e da Lutte ouvrière (nemmeno 200.000 voti). Un disastro che si spiega in parte per i fattori generali che hanno prodotto una massiccia astensione, ma in parte anche per il narcisismo solipsista che ha spinto Mélenchon a trasformare in un’avventura personale un progetto che poteva essere in grado di unire tutta la sinistra. Per questo si parlava sopra di semi-pifferaio…
Questo il quadro, ma non ci si soffermi troppo a contemplarlo. Rischia di mutare abbastanza rapidamente. Macron avrà un governo, ma se vorrà esercitare la “governabilità” come la intende lui rischia di andare allo scontro con una fetta della società francese ben più consistente del suo 13 % di elettorato. Farà bene a stare attento: il suo movimento, La France en marche, “La Francia in marcia”, sta già prendendo la direzione sbagliata. Potrebbe, politicamente parlando, finire in una marche funèbre.