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Intervista di Henri Wilno a François Chesnais

Secondo F. Chesnais,[1] il capitalismo, in preda alle proprie contraddizioni interne, ma anche di fronte alla crisi ecologica da lui stesso creata, si scontra con “limiti insormontabili”.

Henri Wilno – La discussione tra economisti sulle cause dell’attuale crisi non è assolutamente conclusa. Come sei schierato al riguardo? Come si articolano i vari fattori della crisi?

François Chesnais – Si suole datare l’avvio della crisi alla fine di luglio-inizio agosto del 2007. Negli anni trascorsi da allora, naturalmente la mia posizione è andata evolvendo. In un testo dell’autunno 2007 per il convegno “Marx International”, pubblicato nel n.1 della rivista congiunta A l’Encontre-Carré rouge, ho sostenuto subito che la crisi era cominciata in maniera del tutto classica nel sistema creditizio statunitense, che si trattava di una crisi di sovrapproduzione e sovraccumulazione basata su un massiccio indebitamento delle imprese e delle famiglie, facilitato da inediti strumenti di ingegneria finanziaria e il cui terreno era il mercato mondiale. La crisi di settembre 2008 a Wall Street si stava ergendo di fronte al sistema finanziario mondiale, e provocò una recessione mondiale parata al volo dalla Cina.

In prospettiva mondiale, si è avuta la ristrutturazione e non la distruzione del capitale produttivo. Non così è stato per il capitale fittizio, cioè nel caso delle azioni e obbligazioni private e dei buoni del Tesoro, da riscuotere tramite l’interesse del debito pubblico a carico degli introiti fiscali centralizzati. Per i detentori, questi titoli, che devono essere negoziabili in qualsiasi momento in mercati specializzati, costituiscono un capitale da cui sperano di ricavare una rendita regolare sotto forma di interessi e dividendi (una “capitalizzazione”). Dal punto di vista del movimento del capitale che produce valore e plusvalore non sono, nel migliore dei casi, se non il “ricordo” di un investimento già realizzato, donde il termine di “capitale fittizio”.

A partire da queste forme primarie, l'”ingegneria finanziaria” ha generato forme derivate (in inglese: derivatives). Ho posto in rilievo nei miei scritti l’attualità del “ciclo breve” del capitale-denaro (D-D’, vale a dire ricevere più danaro di quello apportato inizialmente), in cui gli investitori sperano di ottenere, senza uscire dai circuiti finanziari, flussi di introiti regolari, “come i peri danno le pere” (per riprendere un’espressione ironica di Marx).

Sul problema del saggio di profitto, rispetto al quale non avevo nulla da aggiungere, ho aderito alla posizione classica che lo lega alla composizione organica del capitale, ma ho insistito sulla necessità per il capitale industriale di realizzare l’intero ciclo, D-M-P-M’D’ (per ricavare D’ avendo anticipato D occorre che siano intervenuti acquisto di forza lavoro, produzione e commercializzazione), e che si sia poi tenuto conto della domanda.

Negli ultimi mesi in cui stavo scrivendo Finance Capital Today mi è capitato per le mani un testo in inglese di Ernest Mandel del 1986, che non si cita mai o quasi mai, sulle conseguenze di quello che chiamava il “robotismo” [la “robotizzazione”], allora incipiente. Mandel vi sostiene che “l’espansione dell’automazione oltre un determinato limite comporta inevitabilmente in primo luogo la riduzione del volume totale del valore prodotto, poi la riduzione del volume di plusvalore realizzato”.[2] Vi scorgeva un “limite insormontabile”, portatore della “tendenza del capitalismo al tracollo finale”. La robotizzazione blocca la possibilità di riduzione della composizione organica, vale a dire del rapporto tra la parte costante (il valore dei mezzi di produzione) e la parte variabile (il valore della forza lavoro, il monte salari), cosicché il gioco effettivo dei fattori “contrastando la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto” diventa sporadico e quello che era un limite relativo diventa un limite assoluto.

Ben più di recente, in uno scritto illuminante del 2012, Robert Kurz[3] parla di “insufficiente produzione reale di plusvalore”, su sfondo di “terza rivoluzione industriale” (la microelettronica). La debolezza dell’investimento produttivo fa sì che il capitale fittizio viva sempre più in vaso chiuso. “I peri producono sempre meno pere”, tranne per i buoni del Tesoro, il lavoro dei traders consiste nel fare profitti, minuscoli per la maggior parte delle transazioni, passando da un compartimento di mercato all’altro. Il risultato è l’endemica instabilità finanziaria, il formarsi di bolle, che è un altro dei tratti della fase.

D. – Si può dire che l’unico orizzonte del capitalismo sia il perpetuarsi di questa crisi?

R. – Penso di sì, tanto più che si verificherà l’intreccio del cambiamento climatico con gli effetti economici, sociali e politici. Due poderosi meccanismi, che si consideravano “pro-ciclici”, sono diventati strutturali e aprono a questa situazione in cui l’uscita dalla crisi, cioè una nuova lunga fase di accumulazione capitalistica, non può verificarsi.

D’altronde la crisi economica, protraendosi, si combinerà con gli effetti economici, sociali e politici del cambiamento climatico; i rapporti che il capitalismo ha stabilito con la “natura” sono approdati a un ulteriore limite sul cui concretizzarsi si sta discutendo. Marx non poteva prevedere la distruzione ad opera della produzione capitalistica degli equilibri dell’eco-sistema, soprattutto della biosfera. Si è limitato ad intuire l’esaurimento dei suoli per effetto dell’industrializzazione della produzione agricola. Alcuni marxisti, a partire da O’Connor, hanno cercato di colmare il vuoto, cominciando a definire la distruzione delle risorse non rinnovabili nelle sue molteplici forme e più tardi il cambiamento climatico come “limite estremo”.

Io sostengo la tesi dell’internalizzazione del limite, la necessità oggi di abbandonare la contrapposizione tra “contraddizione interna” e “contraddizione esterna” in ragione dell’impossibilità per il capitalismo di modificare i suoi rapporti con l’ambiente. Infatti, l’infinita valorizzazione del denaro diventato capitale nel movimento di produzione e di vendita delle merci, a sua volta infinito, gli impedisce di rallentare le proprie emissioni di gas a effetto serra, di controllare il ritmo dello sfruttamento delle risorse non rinnovabili. Il meccanismo che sfocia nella “società di consumo” e il suo sperpero dissennato è quello che segue: perché sia concreta l’autoriproduzione del capitale occorre che il ciclo di valorizzazione si chiuda con “successo”, quindi che le merci fabbricate, la forza lavoro acquistata sul “mercato del lavoro” e utilizzata a propria discrezione dalle imprese nei luoghi di lavoro, siano vendute.

Perché vengano soddisfatti gli azionisti occorre che venga riversato sul mercato un ampio quantitativo di merci che cristallizzano il lavoro astratto contenuto nel valore. Per il capitale, è del tutto indifferente che queste merci costituiscano realmente delle “cose utili” o che ne abbiano semplicemente la parvenza. Per il capitale, l’unica “utilità” è quella che consenta di liberare profitti e protrarre all’infinito il processo di valorizzazione, così che le imprese sono diventate maestre con la pubblicità nell’arte di dimostrare a coloro che dispongono realmente o in modo fittizio (il credito) del potere d’acquisto che le merci che offrono loro sono “utili”.

D. – A proposito della crisi ecologica, si utilizza spesso il termine “antropocene” per indicare la tendenza e denunciare le responsabilità. Puoi precisare le poste in gioco di questa discussione?

R. – La sfida è quella di fornire una base solida all’eco-socialismo. Non va dimenticato che il mio articolo uscito su Inprecor è la traduzione della conclusione del mio Finance Capital Today. Il mio obiettivo era quello di offrire un punto di riferimento a un pubblico anglofono. Il nome di Jason Moore gli è familiare. Il termine “antropocene” è stato inventato da alcuni scienziati per indicare l’attuale era geologica, contraddistinta dal fatto che l'”umanità” diventa una forza geologica a pieno titolo che interviene a modificare l’insieme dei fenomeni climatici, geologici, atmosferici.

In un lavoro che vuole “moltiplicare i punti i vista”, Christophe Bonneuil e Jean-Baptiste Fressoz hanno proposto una “lettura eco-marxista dell’Antropocene” consistente “nel rileggere la storia del capitalismo attraverso il prisma non solo delle ripercussioni sociali negative della globalizzazione come nel marxismo standard (cfr. il concetto di “sistema mondo” di Immanuel Wallerstein e quello di “scambio disuguale”), ma anche dei suoi metabolismi materiali insostenibili (fatti di ricorrenti fughe in avanti verso l’investimento di nuovi spazi in precedenza vergini rispetto a rapporti estrattivisti e capitalisti) e delle relative ripercussioni ecologiche”.[4] Bonneuil e Fressoz, come Jason Moore, stabiliscono entrambi un nesso tra la svolta nei rapporti dell’uomo con la natura teorizzata da Francis Bacon e Cartesio e quella nei rapporti tra gli uomini con la creazione della schiavitù e la conseguente costruzione del predominio imperialista.

Moore è meno ecumenico degli autori francesi e affonda il chiodo. Il termine “capitalocene” serve a sostenere che viviamo “l’età del capitale” e non “l’età dell’uomo”. L'”età del capitale”, per lui, non ha solo un’accezione economica, ma indica un modo di organizzare la natura, facendone qualcosa di esterno all’uomo ed anche qualcosa di “cheap”, nel duplice significato che il termine può avere in inglese: a basso costo, ma anche, dal verbo “cheapen”, ribassare, deprezzare, degradare. Questo vale per i/le lavoratori/lavoratrici, con l’intensità dello sfruttamento della forza lavoro che ha raggiunto l’apice nelle miniere e nelle piantagioni.

D. – Tu di nuovo attualizzi il dibattito sui limiti del capitalismo. Questo innalza le sfide della fase attuale. Ora, contrariamente agli anni Trenta, è evidente l’ascesa delle forze reazionarie di ogni tipo, ma non quella del movimento operaio, il movimento altermondialista nel migliore dei casi ristagna, gli ecologisti sono capaci di feroci resistenze locali ma niente di più… In un simile contesto quali possono essere le prospettive e i punti d’appoggio dei marxisti rivoluzionari?

R. – Bisogna fare attenzione all’analogia degli anni Trenta sempre più marcata dalla prospettiva di una nuova guerra mondiale. Per altro verso, tuttavia, hai ragione. Tutto sta nelle mani di “quelli/e che stanno in basso”. Il peso della disoccupazione grava sulle lotte operaie. Il compito del momento è trasformare l’indignazione in collera sui tanti terreni in cui le disuguaglianze la suscitano, seminarne i germi e sostenerla quando esplode. È essenziale rivoltarla contro il capitale e contro la proprietà privata. A fare la forza delle lotte ecologiste sono la convinzione e l’individuazione precisa del nemico cui puntare. Viceversa, il movimento altermondialista ristagna perché ha espunto la quota di anticapitalismo che ha avuto per un momento.

[1] Membro del Gruppo di lavoro economico del NPA e del Comitato scientifico di Attac, François Chesnais ha scritto tra l’altro “Les Dettes illégitimes” (Editions Raisons d’agir), e ha diretto “La Finance mondialisée” (Editions La Découverte, Parigi 2004). La conclusione della sua opera più recente, Finance Capital Today, è stata pubblicata in Inprecor, nn. 631-632 (settembre-novembre 2016).

[2] Ernest Mandel, Introduction, in: Karl Marx, Capital, Libro III (Penguin, 1981), p. 78.
[3] Cfr. Attac, Les Possibles, n. 3, primavera 2014, in cui si riassumono le posizioni sostenute in J. Baptist Fressoz, Christophe Bonneuil, L’Événement anthropocène – La Terre, l’histoire et nous, Le Seuil, 2013

[su Robert Kurz cfr: http://www.palim-psao.fr/tag/sur%20robert%20kurz/]

[4] Jason Moore, Capitalism in the Web of Life, Ecology and the Accumulation of Capital, Verso, 2015.