Intervista a Cinzia Arruzza*
Puoi dirci in breve qualcosa sulle esperienze della tua formazione intellettuale e politica?
Questa è una domanda difficile, perché sono diventata un’attivista all’età di tredici anni, e a partire da allora questo fatto non ha mai smesso di dare forma alla mia vita, nella sua interezza. Se dovessi identificare le esperienze che hanno maggiormente influito sul mio impegno politico e sul mio modo di pensare, potrei fornire l’elenco che segue.
Anzitutto, il fatto di provenire da una famiglia povera siciliana, il che mi ha messa a contatto con l’ingiustizia e le diseguaglianze di classe, con il sessismo, con il razzismo culturale “soft” nei confronti della gente del meridione (specialmente negli anni Novanta, quando la Lega Nord ebbe un’impennata sulla base di un programma antimeridionale). Quando avevo meno di vent’anni, i punti di svolta nel mio processo di politicizzazione furono le conversazioni con un insegnante di storia e filosofia della scuola superiore, che era un vicino di casa e un amico, la lettura del Manifesto del partito comunista, quella di Stato e rivoluzione di Lenin, e la partecipazione, da studentessa della scuola superiore, alla lotta degli operai di una fabbrica della Pirelli della mia città, che stava chiudendo e stava licenziando centinaia di operai che non avevano alcuna speranza di trovare un altro lavoro, dato il livello di disoccupazione in Sicilia. Poi gli anni passati nell’organizzazione del movimento degli studenti a Roma, e in seguito del movimento altermondialista. Sul piano intellettuale, l’incontro con Daniel Bensaïd, gli anni passati a leggere Il capitale e Platone, la lettura dei testi femministi marxisti e, successivamente, la scoperta del black marxism, una volta che mi sono trasferita negli Stati Uniti. E direi anche che il trasferimento a New York è stato un punto di svolta per più aspetti, uno dei quali è consistito nell’essere venuta a contatto con il razzismo di marca americana, che mi ha fatto capire quanto parecchi dei miei presupposti precedenti a proposito del capitalismo fossero errati o parziali. Ma direi che il mio processo di apprendimento è ancora in corso, ammesso che sia un processo che possa mai avere fine…
La storia delle rivoluzioni dei lavoratori è sempre fonte di ispirazione e di motivazione, e alcune delle lotte più importanti del mondo moderno (la Rivoluzione francese e quella Russa) ebbero inizio quando le donne scesero in piazza a protestare e a reclamare il pane. Che cosa c’è all’orizzonte internazionale oggi per quanto riguarda le lotte progressiste e femministe intorno al mondo? Una delle più importanti azioni di lotta contemporanee è stata costruita attorno alla proclamazione (da parte di Linda Martin Alcoff, Tithi Bhattacharya, Nancy Fraser, Barbara Ransby, Keeanga-Yamatta Taylor, Ramsea Yousef Odeh, Angela Davis, e tua) dello sciopero internazionale delle donne l’8 marzo. C’è la possibilità di assistere a un nuovo movimento femminista?
Penso che un movimento femminista internazionale già lo abbiamo. Permettimi però di chiarire un fatto importante: noi non abbiamo proclamato uno sciopero internazionale delle donne, nonostante il fatto che la nostra dichiarazione è stata interpretata in questo modo da molti media. Abbiamo dichiarato di sostenere lo Sciopero internazionale delle donne [International women’s strike, n.d.r.] che attiviste di tutto il mondo avevano già organizzato e proclamato. Abbiamo anche intrapreso l’organizzazione dello sciopero negli Stati Uniti, e da questo punto di vista eravamo piuttosto in ritardo, vale a dire che poi abbiamo dovuto affrettarci a organizzare lo sciopero delle donne nel giro di tre settimane. Insisto su questo punto perché è molto importante capire che lo sciopero delle donne non è stato indetto in modo volontaristico da un gruppo di intellettuali attiviste. È stata una mobilitazione mondiale che ha avuto origine nello sciopero delle donne polacche contro l’abolizione dell’aborto (che ha conseguito una vittoria), nell’ondata di scioperi o manifestazioni di donne in Argentina, nel risveglio del movimento femminista in diversi paesi latinoamericani, e nella mobilitazione femminile in Italia. La proclamazione dello Sciopero internazionale delle donne è venuta fuori organicamente da queste lotte che già esistevano: è giunto il momento di un nuovo movimento femminista. Ci stiamo nel mezzo e dovremmo prenderlo molto sul serio.
Ti va di descrivere la tua esperienza di organizzatrice dello sciopero? Uno dei suoi slogan era che puntava a rappresentare il 99% delle donne: ci puoi dire che cosa significa? C’è la possibilità di proseguire questo tipo di lotta e quali passi dovrebbe fare il movimento allo scopo di avere una continuità?
L’idea di organizzare lo sciopero negli Stati Uniti è nata da una serie di considerazioni. Anzitutto la Marcia delle donne a Washington aveva rivelato la presenza di enormi potenzialità di mobilitazione femminista. Un’altra considerazione era che negli Stati Uniti c’erano già molti collettivi, reti e organizzazioni nazionali che stavano sviluppando un femminismo alternativo a quello liberal: di classe, antirazzista e inclusivo rispetto alle donne trans, alle persone queer e non-binarie. Ancora una volta, proclamare lo sciopero, anche negli Stati Uniti, non è stata semplicemente una mossa volontaristica, dal momento che è scaturito dalla consapevolezza che un altro femminismo c’era già: lo sciopero è servito allo scopo di creare una rete nazionale non settaria di organizzazioni e di individui, di rendere visibile questo altro femminismo, di mettere in discussione l’egemonia di quel tipo di femminismo da dirigenti d’impresa incarnato da Hillary Clinton e dalle sue sostenitrici femministe, e infine di dare forza alle donne della classe lavoratrice, alle donne migranti e a quelle nere. Questo è ciò che intendevamo con lo slogan “a Feminism for the 99%”: un femminismo di classe capace di articolare esigenze e posizioni politiche che parlino alla complessità dell’esperienza di vita delle donne cis- e transessuali trascurate dal femminismo dirigenziale e rampante. Da questo punto di vista, anche l’adozione del termine “sciopero” per definire la nostra giornata di mobilitazione intendeva enfatizzare il lavoro che le donne svolgono non soltanto sul posto di lavoro, ma anche al di fuori di esso. Per andare avanti e riuscire a mantenere una continuità, un movimento femminista per il 99% delle donne deve affondare le sue radici in un processo generale di riattivazione della lotta di classe. Abbiamo ricevuto alcune critiche per avere usato il termine “sciopero”, poiché non siamo un sindacato e non avevamo abbastanza contatti con le organizzazioni del lavoro. Qui mi piacerebbe fare una piccola digressione nella situazione della sindacalizzazione negli Stati Uniti, in modo da spiegare meglio la ratio della nostra mobilitazione e anche perché con ciò rispondo in parte alla tua domanda su che cosa faremo in seguito. Come considerazione preliminare, è importante non appiattire la lotta di classe sulla lotta sindacale nei luoghi di lavoro: la lotta di classe assume molte forme e manifestazioni importanti della classe in quanto attore politico e agente di conflitto hanno luogo nella sfera della riproduzione sociale, dove tali lotte hanno il potenziale per aggredire la profittabilità capitalistica. Pensa, per esempio, alle lotte che riguardano l’assistenza sanitaria… Ma diamo un’occhiata alla situazione del lavoro organizzato negli Stati Uniti. Dal 1983 al 2016 il tasso di sindacalizzazione è sceso dal 20,1% al 10,7%. La situazione è ancora più deprimente se consideriamo la sindacalizzazione nel settore privato, che nello stesso periodo è scesa dal 16,8% al 6,4%. Se guardiamo i dati degli scioperi ufficiali, dal 1947 al 2016 il numero di giorni di sciopero che coinvolgono più di 1.000 lavoratori è calato da 25.720.000 a 1.543.000, e il 2016 ha anche registrato una piccola impennata dei giorni di sciopero dovuta in particolare allo sciopero degli insegnanti e a quello dei lavoratori della Verizon. Questa situazione deprimente è il risultato sia della legislazione antisindacale sia degli orientamenti e delle azioni di buona parte delle maggiori federazioni sindacali. Ma questo ci dice tutto ciò che c’è da sapere sulla dinamica della lotta di classe negli Stati Uniti? Naturalmente no. Nel corso degli ultimi anni abbiamo visto una quantità di mobilitazioni importanti organizzate da reti e organizzazioni del lavoro non tradizionali, per esempio la campagna Fight for Fifteen o le mobilitazioni organizzate dal Roc [Restaurant Opportunities Center, n.d.r.], movimenti come Black Lives Matter, e nei mesi scorsi gli scioperi dei migranti e le mobilitazioni contro il Muro e contro il “Muslim Ban”. Ora, invece di considerare tutte queste forme di mobilitazione come alternative l’una all’altra o come alternative all’ organizzarsi nei luoghi di lavoro, dovremmo vederle tutte come differenti forme nelle quali la lotta di classe si espleta, forme che potenzialmente si rafforzano l’una con l’altra e creano le condizioni per l’organizzazione di interruzioni del lavoro nei luoghi di lavoro. Lo sciopero delle donne ha fatto parte di questo processo: ha contribuito a rilegittimare il termine “sciopero” negli Stati Uniti, ha chiuso tre distretti scolastici con uno sciopero selvaggio, e ha dato visibilità ad organizzazioni del lavoro nelle quali la maggior parte dei lavoratori sono donne, come il Roc o Nysna [New York State Nurses Association, n.d.r.], o a istanze locali di organizzazione del lavoro e di lotte nei luoghi di lavoro guidate da donne e da persone queer.
Ti preoccupano la “narrazione di sinistra” e l’articolazione delle proteste quotidiane contro Trump? Secondo te che cosa è importante per il problema della tattica della sinistra contemporanea, della costruzione della sua forza e della radicalizzazione della lotta quando si tratta dei pericoli dell’antitrumpismo? In un tuo recente articolo su Jacobin hai parlato di alcuni “pericoli” dell’antitrumpismo e delle lezioni di cui dobbiamo tener conto confrontandolo con l’antiberlusconismo, quali potrebbero essere i problemi?
Be’, il rischio è quello di non vedere la continuità fra le politiche di Trump e le politiche portate avanti dal Partito democratico sotto la presidenza di Obama. Non sto sostenendo che non ci siano differenze, ovviamente, ma penso che abbiamo bisogno di vedere la versione di Trump del neoliberalismo come il risultato di decenni di politiche neoliberiste, contro i migranti e contro i neri che sono state tenute sia sotto le amministrazioni repubblicane sia sotto quelle democratiche. L’elezione di Trump, per come la vedo io, rappresenta un atto di accusa nei confronti di otto anni di presidenza Obama. Perché come è possibile che dopo otto anni di una presidenza che è iniziata con lo slogan “Yes, we can”, siamo finiti in mano ad un misogino autoritario come nuovo presidente? Sotto questo aspetto, mentre i primi mesi della presidenza di Trump hanno visto una promettente ondata di lotte e di resistenza, sarebbe un errore strategico mobilitarsi soltanto contro Trump, senza rivolgersi anche contro il fallimento delle politiche del Partito democratico. Per sconfiggere Trump, abbiamo bisogno di articolare una radicale alternativa, non soltanto a Trump, ma anche al tipo di neoliberismo progressista incarnato da Hillary Clinton.
Secondo te un’eventuale vittoria di Hillary Clinton avrebbe davvero promosso gli interessi delle donne? La Clinton avrebbe rappresentato un’autentica soluzione contro la candidatura di Donald Trump? Le donne che l’hanno votata sono parzialmente responsabili dell’elezione di Trump?
Durante le primarie, la campagna di Sanders è stata oggetto di un costante attacco da parte delle femministe liberal che sostenevano la Clinton, le quali stigmatizzavano come “antifemminista” votare per Sanders e invitavano a mettersi sotto lo stendardo della “rivoluzione delle donne” incarnata da Clinton. Questo tipo di femminismo ha completamente fallito. Alle elezioni presidenziali la maggioranza delle donne bianche, soprattutto quelle prive d’istruzione universitaria, hanno preferito votare per un candidato apertamente misogino piuttosto che votare per la presunta campionessa dei diritti delle donne, Clinton. Naturalmente, è un voto che in parte si spiega con il puro e semplice razzismo. Ma ci sono altri fattori che andrebbero presi in considerazione, e la domanda da porsi è: quali donne hanno effettivamente ricevuto dei benefici dal femminismo liberal incarnato dalla Clinton? Negli anni Settanta una donna che aveva fatto l’università ancora guadagnava, in media, meno di un uomo privo di istruzione universitaria. Nel decennio 2000-2010 la situazione appariva interamente cambiata: mentre le entrate medie delle donne e degli uomini della classe lavoratrice rimanevano invariate, nell’ambito dell’élite i guadagni delle donne crescevano più rapidamente di quelli degli uomini, e nel 2010 una donna con un reddito elevato guadagnava in media più di una volta e mezzo di un uomo di classe media. In un pezzo apparso di recente su The Nation, Katha Pollitt ha esposto le istanze del femminismo liberal, peraltro dando per scontato che il femminismo liberal rappresenti nella sua interezza il femminismo, o ciò che in generale esso è e dovrebbe essere. I diritti riproduttivi e –suppongo – la battaglia contro la discriminazione di genere sono le uniche rivendicazioni chiaramente identificabili come “femministe”, a differenza della battaglia contro razzismo, guerra, povertà, crisi ambientale, eccetera. Se guardo alla realtà di vita delle donne lavoratrici, delle donne migranti e di quelle di colore, non vedo proprio che cosa questa declinazione del femminismo abbia davvero da offrir loro. La parità di retribuzione, per esempio, sembrerebbe una degna causa, ma se non è associata a richieste che riguardano un salario minimo non significa niente per le donne lavoratrici, dal momento che la parità di salario si può ottenere anche femminizzando il lavoro maschile e comprimendo i salari degli uomini verso il basso. Tirando le somme, questa marca di femminismo risulta essere un progetto per l’autopromozione delle donne appartenenti all’élite. Naturalmente possiamo allearci e combattere insieme su questioni unificanti come quelle dei diritti riproduttivi, ma al di là di questo temo che vogliamo cose molto diverse. Come puoi intuire dalle cose che sto dicendo, non credo affatto che una vittoria della Clinton avrebbe rappresentato una soluzione dei problemi delle donne.
Il tuo libro Le relazioni pericolose funziona come una sorta di rassegna storica di lotte femminili ma con l’accento sulla storia rivoluzionaria o progressista del movimento e della teoria femministi. Uno dei tuoi obiettivi teorici principali era provare a collegare il movimento femminista con la lotta di classe ma anche di portarlo più vicino alle questioni organizzative e politiche. Se leggiamo il femminismo marxista contemporaneo come una storia triplice (a partire dalle teorie “dual system” del dibattito sul lavoro domestico, dal materialismo nella linea di Christine Delphy e dalla teoria unitaria), puoi sostenere che la teoria della riproduzione sociale (come approccio unitario) è la migliore chiave di comprensione del genere e della sessualità nel capitalismo?
Be’, è il tipo di teoria che sto provando a sviluppare, quindi naturalmente la mia risposta è: sì! La domanda richiederebbe una lunghissima spiegazione, ma giusto per fornire una breve sintesi: le teorie “dual system” sono motivate a mio modo di vedere dall’aspirazione legittima a dare importanza all’oppressione di genere e razziale e di evitare quel riduzionismo economicistico che a volte è tuttora fatto proprio da alcuni marxisti o attivisti socialisti. Il problema di questa soluzione, tuttavia, è che fa sorgere più difficoltà teoriche di quante ne risolva. La teoria della riproduzione sociale prova a fare qualcosa di diverso, segnatamente a riconcettualizzare ciò che intendiamo per capitalismo, sfidando la nozione che il capitalismo sia un sistema economico, e insistendo piuttosto su una visione del capitalismo come di una totalità di rapporti sociali, il cui nucleo è costituito dall’accumulazione capitalistica, ma nella quale produzione e riproduzione sono intimamente connesse. Se consideriamo il capitalismo in questo modo, allora siamo in grado di vedere come il razzismo o il sessismo non siano due sistemi che interagiscono con un terzo sistema, economico – il capitalismo –, ma siano piuttosto serie di rapporti di dominio e di oppressione che sono parte integrante delle condizioni di riproduzione del capitale e vengono costantemente prodotti e riprodotti dalle dinamiche dell’accumulazione capitalistica. Ciò inoltre rende la questione se la lotta di classe debba avere la priorità sulle lotte anti-razziste, femministe, ecc. non soltanto obsoleta, ma anche del tutto fuorviante. Da un lato, se concepiamo la classe come agente politico, allora genere, razza e sessualità sono componenti intrinseche del modo in cui le persone fanno esperienza di sé stesse e della loro relazione con il mondo e con le loro condizioni di vita, quindi fanno necessariamente parte del modo in cui le persone si politicizzeranno e lotteranno. Le persone non sperimentano le diseguaglianze razziali, di classe o di genere come fenomeni separati, l’esperienza di vita non è compartimentata in questa maniera: il modo in cui una persona è discriminata dal punto di vista razziale modellerà profondamente il modo in cui sarà sfruttata e farà esperienza di tale sfruttamento, e viceversa. L’organizzazione politica deve veramente cominciare dall’esperienza concreta delle persone, altrimenti finisce per essere razionalismo, proiezione sulla realtà di vita delle persone di programmi più o meno libreschi riguardo a ciò che la lotta di classe significa o dovrebbe significare. Dall’altro lato, se il femminismo e l’antirazzismo vogliono essere progetti di liberazione per tutte le persone discriminate in quanto donne o a causa della loro razza, allora la questione del capitalismo è ineludibile. A questo punto la vera domanda diventa: di che tipo di femminismo o di antirazzismo abbiamo bisogno? Il problema che abbiamo avuto negli ultimi decenni, per esempio, non è che le lotte fondate sulle oppressioni abbiano preso il posto della lotta di classe, ma piuttosto che la posizione liberale sia diventata egemone all’interno delle lotte e dei dibattiti femministi. Ciò di cui dovremmo discutere oggi è come spezzare tale egemonia, il dibattito che vede le lotte fondate sulle oppressioni contrapposte a quella di classe falsa il problema, crea divisioni inutili, e dovrebbe essere lasciato cadere una volta per tutte.
In un articolo della metà degli anni Novanta Bianca Beccalli dice che il movimento femminista radicale creato in Italia negli anni Settanta è quasi scomparso. Sei d’accordo con lei? Se sì, perché è successo? E inoltre, è possibile dire che il femminismo radicale sia diventato la “cameriera” del capitalismo?
Sono assolutamente d’accordo con Bianca Beccalli. Ma si tratta di un processo che non è specifico dell’Italia e che ha a che vedere con il generale declino della lotta di classe. Ciò che è successo in Italia, nello specifico, è che il femminismo della differenza è diventato la forma egemone di femminismo, anche nelle organizzazioni di sinistra, per esempio Rifondazione comunista. La ricchezza dei contributi marxisti al femminismo, per esempio l’apporto dato dall’Operaismo, è stata per lo più trascurata. Non credo che il femminismo radicale sia diventato la cameriera del capitalismo, ma il femminismo della differenza sì. Tanto per farti un esempio, in un volume pubblicato nel 2008, la Libreria delle donne – che è la principale sostenitrice del femminismo della differenza in Italia – difendeva la diffusione del part-time come di una forma di lavoro che avrebbe permesso alle donne di dire un doppio sì: alla maternità e al lavoro. Bene, dal 1993 al 2013 il livello dei contratti part-time sul totale dei contratti di lavoro delle donne è cresciuto dal 21% al 32,2% e l’80,7% degli occupati part-time sono donne. Il 22,4% delle donne lavoratrici sotto i 65 anni esce dal mercato del lavoro per motivi legati alla famiglia, e il dato è superiore al 30% per quanto riguarda le donne con figli. Di conseguenza, l’Istat prevede che un’ampia massa di donne passerà gli ultimi decenni della propria vita in povertà. Questo sarebbe femminismo?
Sostieni giustamente che uno dei contributi più importanti alla teoria queer, il ripensamento di sessualità, sesso e genere, è stato fornito da Judith Butler in Gender Trouble e in Bodies that Matter. Nel tuo lavoro citi alcuni dei problemi che scaturiscono dall’enfasi di Butler (o del femminismo radicale e della teoria della differenza) sul carattere ideologico dell’oppressione di genere e sulle sue implicazioni psicologiche, al prezzo di ridurre spesso la complessità della realtà al livello del linguaggio, o perfino di destoricizzare le relazioni di oppressione tra i sessi. Puoi spiegare in breve la tua critica?
Non dico che Butler approcci il genere soltanto da un punto di vista ideologico o psicologico, perché non è affatto questo ciò che fa, dal momento che tiene conto della varietà di istituzioni e rapporti di potere che contribuiscono a costituire il genere, e questi vanno ben oltre le pratiche meramente discorsive. In un mio articolo critico piuttosto due aspetti del suo utilizzo del concetto di performatività.
Il primo è che presenta la performatività come il modo in cui il genere viene reificato in generale, e non prende in considerazione la possibilità che la sua descrizione si riferisca piuttosto ad una forma specifica di reificazione del genere, che avviene nel tardo capitalismo e ha direttamente a che fare con il consumo di massa (una tesi sostenuta riguardo alla reificazione delle identità sessuali da Rosemary Hennessy e Kevin Floyd, ad esempio). Nel suo primo lavoro sul genere il capitalismo non viene neppure menzionato.
Il secondo aspetto è che Butler adotta l’interpretazione di Derrida della teoria degli atti linguistici di Austin come metodo di interpretazione dei rapporti sociali e più in generale della storia, per esempio applicando la nozione di “iterazione” all’interpretazione degli atti sovversivi, delle lotte. Ciò che tento di spiegare nell’articolo è che tale applicazione di nozioni linguistiche alla realtà extralinguistica ha dei seri limiti e non aiuta a comprendere la dinamica storica delle lotte. Ad esempio, non vedo come qualcosa come un evento storico possa verificarsi all’interno di questa struttura concettuale.
Come professoressa di filosofia ti chiedo di commentare due cose: com’è essere una donna filosofa oggi in una disciplina tradizionalmente molto “maschile”, dato anche il fatto che la filosofia è stata storicamente piuttosto misogina? E che cosa pensi della metodologia molto diffusa in filosofia di evitare la storia sociale, che suggerisce che comprenderemo meglio il filosofo se abbiamo a che fare “soltanto” con il testo, per esempio nell’approccio straussiano “esoterico”, molto popolare, alla filosofia politica antica o moderna?
Sono una storica della filosofia, più specificamente della filosofia antica, e ho studiato in Italia dove la disciplina non è particolarmente maschile, o per lo meno lo è di certo in misura minore rispetto agli Stati Uniti o alla Germania. Nel mio campo ci sono parecchie donne filosofe molto eminenti e da questo punto di vista sono stata piuttosto fortunata, in quanto meno esposta al tipo di isolamento che, per esempio, spesso sentono i miei studenti queer o donne. Detto questo, la filosofia ha chiaramente un problema. Da un lato, il suo canone, e l’esclusione da esso dei filosofi non occidentali, ad esempio le varie scuole della filosofia cinese, così come di molte donne filosofe. Dall’altro lato, la predominanza della Ideal Theory nella filosofia morale e nel pensiero politico, specialmente all’interno della tradizione analitica. Charles Mills ha articolato una grande critica della Ideal Theory come ideologia, e non ho molto da aggiungere alle sue critiche. Permettimi soltanto di dire che se affidiamo alla teoria politica e alla filosofia morale il compito di aiutarci ad affrontare, identificare e chiarire i problemi sociali, politici ed etici di oggi, la Ideal Theory è fondamentalmente inutile.
Dopo che Syriza ha sperimentato la propria sconfitta, il governo greco ha rimodellato la propria politica allo scopo di recuperare legittimazione: repressione dei gruppi dissidenti e austerità a livello economico – scelte tradizionalmente associate alla destra – puntando adesso al consenso della classe media conservatrice. Qualcosa di simile – per quanto non identico – ha fatto il Pci nella seconda metà degli anni Settanta con la strategia del compromesso storico, appoggiando le politiche della Democrazia cristiana. Quel periodo culminò nelle misure di austerità dietro alle quali c’era il Fmi e nella repressione violenta dei gruppi sociali che ad esse resistevano, con il Pci che puntava a recuperare uno status egemonico. Quali somiglianze rilevi tra questi due casi?
Non sono sicura che quella con il compromesso storico sia una buona analogia, nonostante io sia consapevole di quanto Tsipras e altri dirigenti di Syriza siano pesantemente influenzati dall’Eurocomunismo. Il compromesso storico fu uno dei maggiori errori strategici e fallimenti del Partito comunista italiano. Era un tentativo di raggiungere un compromesso con la Democrazia cristiana allo scopo di superare la lunga esclusione, per decenni, del Partito comunista dalle coalizioni di governo, e fu anche motivato dalla – ampiamente infondata – paura di un colpo di stato fascista o reazionario in Italia, in seguito a quello cileno del 1973. Avvenne in un momento in cui il Partito comunista era forte dal punto di vista elettorale, poiché aveva capitalizzato lo spostamento dell’elettorato a sinistra prodotto dalla stagione di grandi mobilitazioni sociali che ebbe inizio nel 1967. Con il compromesso storico il Partito comunista legittimò a sinistra l’inizio delle politiche di austerità, e sostenne – perfino invocò e organizzò – la repressione dei movimenti sociali. Ma alla fine furono esclusi dal governo! Quando nel 1980 Berlinguer tentò un’inversione strategica, era troppo tardi. Ora, il fallimento di Syriza è più paradossale di quello del Pci. Negli anni Settanta, il Pci era già un partito socialdemocratico, ma veniva sistematicamente escluso dal governo a causa dei suoi legami con l’Unione sovietica: la strategia di Berlinguer fu un tentativo disastroso di superare tale situazione, contribuendo alla stabilizzazione sociale del paese e diventando così un partner politico della Democrazia cristiana. Era tutto sbagliato, stava per avere conseguenze tragiche, ma c’era una ratio. Con le scelte politiche e il comportamento di Syriza passiamo dalla tragedia alla farsa: Syriza ha effettivamente vinto le elezioni sulla base di un programma piuttosto radicale e, specialmente, della promessa di resistere alla Troika, aveva il sostegno elettorale e sociale, è andata ai negoziati con i tecnocrati europei nel modo più dilettantesco possibile, forse ritenendo che la persuasione razionale avrebbe ottenuto dei risultati, si è rifiutata di prendere in considerazione un piano B basato sulla Grexit, ha indetto un referendum che ha vinto mentre forse sperava di perderlo, e poi ha fatto il contrario di ciò che aveva promesso di fare il giorno prima del referendum. Tutto questo in sei mesi. Dopodiché sono state lacrime e sangue per il popolo greco, e a quanto pare non è mai abbastanza, il popolo greco ha da soffrire ancora di più. Più che un compromesso storico sembra una combinazione di imbecillità politica e di stupefacente opportunismo…
Il partito della Rifondazione comunista in un breve arco di tempo ha conosciuto una severa sconfitta, se paragoniamo il conseguimento di quasi l’8% dei voti italiani nel 2006 alla quasi totale estinzione politica attuale. Secondo te quali sono le cause principali di questa sconfitta? Vedi qualche possibilità per il partito della Sinistra italiana che è stato appena fondato?
La causa principale della sconfitta è stata l’alleanza con il centrosinistra e la partecipazione all’ultimo governo Prodi dal 2006 al 2008. Per una breve stagione, tra la fine degli anni Novanta e il 2003, Rifondazione ha svolto un ruolo chiave nei movimenti contro la guerra e altermondialisti, e sembrava essere orientata verso una svolta a sinistra e una rottura con la storia dello stalinismo e del togliattismo. Poi, nel 2002, dopo mesi di lotte sindacali e sociali contro il tentativo di Berlusconi di abolire l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, Bertinotti ha avuto l’idea di lanciare un referendum per l’applicazione dell’articolo 18 a tutti i posti di lavoro. Il referendum si è tenuto nel 2003 ed è stato un disastro, perché l’affluenza è stata soltanto di circa il 25%. La lezione che Bertinotti ha tratto da tale risultato è stata che i movimenti possono arrivare solo fino a un certo punto, poi deve intervenire la politica, quindi che era necessario raggiungere un accordo con il centrosinistra e formare una coalizione di governo allo scopo di guidare una grande stagione di riforme sociali. Quello è stato l’inizio della fine: da quel momento in poi, nel partito e nei movimenti sociali si è diffuso lo scoraggiamento, Bertinotti ha impegnato l’intero partito in una discussione del tutto strumentale sulla non-violenza, e alla fine Rifondazione è riuscita a far parte del governo e ha perso tutta la sua credibilità politica nel giro di due brevi anni.
Dal 2008 ad oggi, i resti di Rifondazione e di altre organizzazioni della sinistra parlamentare hanno ciclicamente messo assieme nuove liste e coalizioni elettorali, con risultati in genere tremendi, e uno spostamento a destra ad ogni nuova lista. Adesso c’è la formazione di Sinistra italiana, che combina insieme resti di Sinistra ecologia e libertà (un’evoluzione verso destra di un settore di Rifondazione) e alcuni reietti del Partito democratico. Sfortunatamente la logica è sempre la stessa: quella di un raggruppamento di dirigenti di organizzazioni di sinistra precedenti, senza relazioni di sorta con i processi sociali in atto, senza radici di classe o in organizzazioni del lavoro, senza alcun investimento nelle mobilitazioni sociali. Sinistra italiana può riuscire a ottenere alcuni seggi in parlamento, a seconda di quale sarà la prossima legge elettorale, ma non la vedo come un progetto utile per ricostruire la sinistra e la lotta di classe in Italia. Tutti questi vari esperimenti hanno in comune il presupposto che il modo migliore per ricostruire la sinistra sia attraverso politiche elettoralistiche, ma in Italia il vero problema della sinistra è che ha poca o nessuna connessione sociale e politica con la classe, non ha una base di classe. Da questo punto di vista, penso anche che queste iniziative elettorali, nel corso di quasi dieci anni, siano state di danno alla possibilità di ricostruire una sinistra ampia in Italia, poiché hanno contribuito a trasmettere l’impressione che in definitiva assicurarsi un posto in parlamento o comunque un posto di lavoro politico a tempo pieno sia tutto ciò che conta per i presunti dirigenti della sinistra, e che da questo punto di vista essi non siano diversi dal resto dei politici.
Gli scritti politici recenti di Toni Negri appoggiano l’Unione europea suggerendo la possibilità di una sua riforma nel senso di “un’Europa sociale e democratica” come antidoto politico ai crescenti nazionalismi. Pensi che questo “europeismo di sinistra” sia la soluzione alla crisi che sperimentiamo attualmente? Questo tipo di riformismo è fattibile e potrebbe essere efficace all’interno delle istituzioni europee? Come possiamo approcciare le dichiarazioni di Negri sulla Ue se teniamo a mente che anche gli attuali dirigenti della Ue non sembrano appoggiare tale progetto come una autentica possibilità? Si può spiegare l’opinione di Negri come un aspetto caratteristico della tarda autonomia italiana?
Sinceramente non vedo come sia possibile pensare che questa Unione europea possa essere riformata, dopo aver visto come ha gestito la crisi greca e quella dei rifugiati. Oggi non prendere posizione contro la Ue contribuisce, a mio avviso, alla morte dell’ideale di un’Europa democratica e sociale, perché l’Unione europea, per com’è, è la negazione nei fatti di quell’ideale ed è la causa principale dell’ascesa della destra xenofoba e nazionalista in numerosi paesi europei. Questo tipo di formazioni di destra non si battono opponendogli un qualche vago ideale di un’Europa sociale unita, costantemente contraddetto nei fatti, o facendo appello ad un vago transnazionalismo. Ciò di cui avremmo bisogno oggi in Europa sarebbe una sinistra abbastanza coraggiosa da opporsi in modo frontale alla Ue e all’Eurozona, denunciandone le misure economiche e sociali e le politiche xenofobe sull’immigrazione. In altre parole, dovremmo articolare un anti-europeismo di sinistra che si opponga a questa Unione europea in nome di un autentico internazionalismo. Siccome non lo stiamo facendo, lo spazio politico per un’opposizione alle politiche di austerità dettate dalla Ue rimane spalancato per la destra xenofoba. Per tornare a Negri, non penso che la sua posizione sia sintomatica dell’intero spettro dell’autonomia italiana. Il post-operaismo è soltanto una delle correnti che discendono dall’Autonomia operaia degli anni Settanta. Info-Aut, per esempio, è una delle organizzazioni di sinistra in Italia che hanno assunto una posizione anti-Euro e anti-Ue.
Nell’ultimo referendum il Pd sosteneva l’idea che il popolo italiano dovesse votare “Sì” perché altrimenti il populista M5S – rappresentato come fascista – di Beppe Grillo sarebbe andato al potere. Tale pericolo era reale o si trattava soltanto di una tecnica discorsiva da parte del Pd allo scopo di fuorviare l’elettorato italiano? Quali erano le più importanti scommesse politiche del referendum? Un’eventuale vittoria di Grillo alle prossime elezioni è davvero il pericolo principale nell’attuale quadro politico italiano?
La più importante scommessa politica del referendum era di concludere la lunga transizione cominciata alla fine della Prima Repubblica all’inizio degli anni Novanta, trasferendo il potere decisionale dal parlamento all’esecutivo. Questo referendum è stato soltanto uno dei vari tentativi negli ultimi anni di riformare la Costituzione in senso antidemocratico. Era anche abbinato ad una nuova legge elettorale per la Camera dei deputati che avrebbe attribuito un forte bonus di maggioranza alla lista che avesse raggiunto il 40% dei voti. La mente dell’operazione era Giorgio Napolitano, il cui progetto per la conclusione della transizione consisteva precisamente, da un lato, in una stabilizzazione delle istituzioni politiche attraverso un attacco alla Costituzione e una legge elettorale iper-maggioritaria, dall’altro, in un significativo indebolimento del potere di negoziazione dei sindacati e delle altre organizzazioni della società civile. Questo era fondamentalmente il progetto del governo Renzi. C’erano anche delle considerazioni opportunistiche relative alla crescita del M5S, la cui stessa esistenza sta mettendo a rischio decenni di tentativi di stabilire e consolidare un sistema elettorale bipolare. Cosa accadrà adesso è ancora abbastanza poco chiaro. In linea di principio il M5S è in buona posizione per capitalizzare sulla vittoria del “No” al referendum e sulla crescente insofferenza nei confronti del Partito democratico. Tuttavia, i problemi e gli scandali che circondano il sindaco di Roma, Virginia Raggi, rischiano di causare una grossa perdita di credibilità al M5S. Detto questo, eviterei il termine “pericolo”. Il M5S non è un partito fascista, è un movimento elettorale onnicomprensivo, con tratti dilettanteschi e politiche contraddittorie. Non vedo come un loro governo possa essere significativamente peggiore dei governi neoliberisti e antidemocratici di Renzi e di Gentiloni. Quanti si preoccupano del “fascismo” del M5S dovrebbero forse passarsi un po’ di tempo a leggere il piano per la sicurezza elaborato dall’attuale ministro degli Interni, Marco Minniti, e scendere in piazza per opporsi al governo autoritario che c’è già.
* Intervista di George Souvlis e Ankica Čakard a Cinzia Arruzza uscita su PalermoGrad. Cinzia Arruzza insegna Filosofia presso la New School for Social Research di New York ed è autrice, per le Edizioni Alegre, di Storia delle storie del femminismo (con Lidia Cirillo, 2017) e Le relazioni pericolose (2010).