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di Pierre Rousset

In aprile, il presidente Xi Jinping si era recato in visita al suo omologo Donald Trump nella residenza di quest’ultimo, Mar a Lago (Florida). Sorrisi e atmosfera distesa… Tre mesi dopo, le illusioni di intesa si sono dissolte con sullo sfondo la rivalità USA-Cina. Benché su molti dossier, come il Medio Oriente, la Cina tenga un profilo basso, lasciando che Mosca occupi il primo piano della scena, l’influenza cinese si consolida in Asia, ma anche dall’Africa all’America Latina. Fatto nuovo, di fronte alla ritirata degli Stati Uniti, l’Unione Europea si volge verso la Cina, sperando tal modo di pesare di nuovo negli affari mondiali.

Nel Mar Cinese

Le tensioni USA-Cina si cristallizzano sulla gestione della «questione coreana», ma si esprimono in tutta l’Asia orientale, come conferma l’attualità recente.

Paracelso e Spratley. Pechino continua a rafforzare il proprio dispositivo militare sulle isole artificiali costruite nel Mar Cinese Meridionale: installazione di nuove batterie contraeree e rampe di lancio di missili terra-aria, di radar e di sistemi di difesa ravvicinata, costruzione di piste per elicotteri e aerei…

In risposta, dopo l’elezione di Trump, navi da guerra statunitensi per due volte sono passate vicino alle isole occupate da Pechino (e rivendicate da altri paesi della regione): il 25 maggio al largo di Mischief, nell’arcipelago delle Spratley, poi il 2 luglio, al largo di Triton, nell’arcipelago Paracelso.

Taiwan. Dopo l’elezione di una presidente indipendentista (ma molto prudente), Pechino fa pressione per isolare Taipeh in nome della politica di «una sola Cina». In tal modo ha ottenuto la rottura delle relazioni diplomatiche tra il Gambia e Taiwan [e anche di Panama]. Ora, il 29 giugno, Washington ha annunciato la vendita di armi a Taiwan per un ammontare di 1,42 miliardi di dollari (1,25 miliardi di euro), chiaramente presentata come una misura di ritorsione contro la Cina che non farebbe quanto «dovrebbe» sul dossier nordcoreano (tutto si tiene nella regione).
Hong Kong. Xi Jinping si è appena recato a Hong Kong, in occasione del ventesimo anniversario della retrocessione alla Cina dell’ex colonia britannica. Ha approfittato dell’emergere di una corrente indipendentista di destra (che in particolare oppone l’identità hongkonghese all’identità cinese), per un richiamo all’ordine muscolare diretto a qualsiasi velleità democratica – con il pieno accordo delle transnazionali nippo-occidentali impiantate sul territorio. L’ordine deve regnare in una piazza finanziaria che, in particolare, svolge una funzione particolarmente importante nello spiegamento degli investimenti diretti all’estero dei capitali cinesi. In effetti, i movimenti di capitali del tipo IDE (Investimenti Esteri Diretti) non sono semplici prestiti denominati in yuan. Hanno bisogno di una strutturazione particolare (strutturare investimenti cinesi denominati in dollari, emettere obbligazioni in dollari…) e di competenze nelle quali Hong Kong eccelle. Il territorio rappresenta l’ottava piazza mondiale per gli investimenti diretti all’estero, appena davanti a Parigi, e la terza piazza in Asia, dietro Pechino e Tokyo [1].
Filippine. L’avvenire del regime filippino è incerto, dato lo stato di salute del presidente Duterte e la natura delle decisioni politiche che questi deve prendere. Dopo la sua elezione, un anno fa, si è opposto violentemente a Washington, però senza rompere gli accordi economici e militari che legano il paese agli Stati Uniti. Ha aperto l’arcipelago prima alla Cina, poi ora alla Russia, invitandole a investire massicciamente, e cercando un’alternativa in materia di alleanze e forniture di armamenti. L’aumento delle tensioni nella regione e nelle stesse Filippine (acutizzate dall’assedio prolungato di Marawi, nel sud dell’arcipelago [2]) può obbligarlo a fare scelte più nette. È difficile valutare in quale misura l’elezione di Trump può incidere sui rapporti tra il palazzo di Malacañan e la Casa Bianca.

Ora, per ragioni tanto storiche quanto geostrategiche, gli Stati Uniti non possono permettersi di «perdere» la loro antica colonia a profitto di Pechino. Dal punto di vista degli USA, l’arcipelago continua a costituire un punto cardine del loro dispositivo regionale. Quanto all’esercito e alle élite filippine, queste mantengono legami organici con l’ex metropoli. Nel prossimo anno, dovranno essere prese decisioni forse decisive da un lato e dall’altro del Pacifico in questo ambito.

Il punto di attacco coreano

Il 3 luglio, Trump e Xi si sono parlati al telefono a proposito del dossier nordcoreano, per constatare il disaccordo. Il giorno dopo, Pyongyang ha effettuato – per la prima volta – un tiro di un missile balistico intercontinentale, capace, in teoria, di raggiungere l’Alaska. Era, ha annunciato Kim Jong-un nel giorno dell’Indipendenza degli Stati Uniti (4 luglio), un regalo inviato a quei «bastardi americani».

La «minaccia» che il regime dispotico e dinastico nordcoreano brandisce contro gli Stati Uniti è prima di tutto simbolica e politica. Non è ancora in grado di installare una testata nucleare su questo tipo di missile. Soprattutto, il suo obiettivo è di sopravvivere in un ambiente ostile – e non di attaccare gli USA, che sarebbe oggi, e resterà domani, suicida.

Il messaggio è chiaro: la distensione deve essere negoziata direttamente tra la Corea del Nord e gli Stati Uniti; per Kim Jong-un, la palla è nel campo di Washington. La Cina, il programma di sabotaggio con il cyberattacco elaborato sotto Obama, l’isolamento e le sanzioni internazionali, non possono impedire a Pyongyang di proseguire il suo programma nucleare.

L’ultima prova rivela in effetti importanti progressi tecnici. I Nordcoreani possono d’ora in poi effettuare tiri in verticale, il che permette ai missili di essere provati su lunga distanza senza far loro sorvolare i paesi vicini. Utilizzano motori più potenti e carburanti solidi, più sicuri e più maneggevoli. Si possono trasportare le batterie di missili su veicoli fuoristrada, senza dipendere da una rete stradale poco sviluppata. [3] La dispersione dell’armamento nel paese significa che non può essere distrutto interamente da alcuni attacchi mirati.

L’amministrazione Trump continua a rendere Pechino responsabile della crisi coreana, mentre in realtà è lei che può decidere sia di puntare sull’aumento della tensione (l’opzione attuale), sia di iniziare misure reciproche di distensione, negoziando un accordo di sospensione parallela delle prove nucleari e balistiche nordcoreane e delle esercitazioni militari Stati Uniti-Corea del Sud.

Il nuovo presidente sudcoreano Moon, dal canto suo, difende la distensione militare combinata a un rafforzamento delle pressioni. Ha manifestato la sua inquietudine in un incontro con Angela Merkel in occasione dell’incontro del G20 di Amburgo: «in un tale clima di tensione, un solo incidente può far nascere una situazione pericolosa». Moon sostiene la denuclearizzazione della penisola. [4]

La situazione economica della Corea del Nord sembra essere un po’ migliorata di recente, malgrado le sanzioni. Dalla fine degli anni 1990, il paese non ha più conosciuto una carestia devastante, malgrado la persistenza dell’insicurezza alimentare. La piccola produzione privata e le reti commerciali si sono sviluppate in modo informale stimolando l’economia. Molteplici canali paralleli permettono agli scambi commerciali internazionali di mantenersi. È possibile che il principale freno alla crescita sia il peso delle spese militari e non le misure di embargo (ciò che potrebbe provocare divergenze nell’apparato del partito-Stato). [5]

Ciò non vuol dire che le sanzioni non abbiano effetto e che non ne avranno domani. Semplicemente, poiché che il regime si preoccupa poco della sorte del popolo lavoratore, non è per ora soffocato; al contrario le condizioni di vita della élite migliorano. La dinastia al potere pensa di poter durare.

L’amministrazione Trump evidentemente non tiene in nessun conto tutti questi molteplici fattori, resta chiusa in una posizione intransigente e vuol fare pagare a Pechino la sua «cattiva volontà». Ricorre anche a misure di ritorsione, come l’annuncio, il 29 giugno, oltre alla vendita di armi a Taiwan, della messa sulla lista nera della banca di Dandong, che ha sede nella città che è il principale punto di passaggio del commercio tra la Cina e la Corea del Nord.

In risposta al tiro del 4 luglio, il Pentagono ha organizzato una nuova esercitazione militare aeronavale, simulando un attacco contro la Corea del Nord, lanciando una serie di missili nella sua direzione. Secondo il suo portavoce, Dana White, è pronto a utilizzare «il pieno ventaglio dei mezzi a [sua] disposizione contro questa minaccia crescente».

Più in generale, facendo della questione coreana la pietra angolare della sua politica cinese, Trump si chiude in un vicolo cieco. Blocca il progresso di altri dossier USA-Cina e riduce le proprie opzioni nei confronti di Pyongyang all’aumento infinito della (contro)minaccia. In una regione polveriera dove una scintilla può scatenare un incendio.

Note

[1] Sébastien Le Belzic, ESSF (article 41486), Investissements directs à l’étranger : Hongkong, véhicule financier de la Chinafrique :
http://www.europe-solidaire.org/spip.php?article41486

[2] Reymund de Amor, Pierre Rousset, ESSF (article 41215), Marawi (Mindanao) : état de guerre et loi martiale dans le Sud philippin :
http://www.europe-solidaire.org/spip.php?article41215

[3] Al Jazeera, ESSF (article 41499), Technical milestones : Three things to know about North Korea’s missile tests :
http://www.europe-solidaire.org/spip.php?article41499

[4] Emma Graham-Harrison, Patrick Wintour Sabrina Siddiqui, ESSF (article 41433), New US-North Korea tensions :
http://www.europe-solidaire.org/spip.php?article41433

[5] Benjamin Katzeff Silberstein, ESSF (article 41481), North Korea’s ICBM Test, Byungjin, and the Economic Logic :
http://www.europe-solidaire.org/spip.php?article41481