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di Paolo Gilardi

Cosa sia una rivoluzione non è complicato capirlo: è un momento di rottura fondamentale, strutturale, con il passato. Lo è stata la grande rivoluzione francese, lo è stata la rivoluzione russa. A riprova della loro portata è il fatto che le loro sconfitte – la restaurazione dopo il 1815 e la fine dell’URSS nel 1991- non significarono un ritorno all’antico regime: aboliti nella notte del 4 agosto del 1789, i privilegi feudali non furono ristabiliti in Francia, così come l’ordine zarista non lo è stato nella Russia del 1991.

Però, proprio per la loro portata sconvolgente, le rivoluzioni non possono essere ridotte a schemi. Che sia giusto ed importante capire le esperienze passate è una banalità. Lo è molto meno il fatto di non dover leggere i processi in corso secondo schemi prestabiliti. La rivoluzione, capricciosa, a volte scontrosa e sovente imprevedibile, gli schemi non li sopporta. Si guardi alla Cina, a Cuba… ed anche alla stessa Russia del 1905 o del 1917.

“Made in Socialism”?
Mi sembrano queste premesse doverose se si vuol parlare dell’attuale situazione in Venezuela. E tanto per esser chiari, in Venezuela, dal 1999, o forse meglio, dal 2002 in qua, è in corso un processo che avrebbe potuto aprire delle prospettive rivoluzionarie socialiste, ma una rivoluzione non c’è stata.
Insomma, una volta per tutte: il Venezuela non è un Paese socialista!
Malgrado le didascalie “Hecho en socialismo” stampate sulle bottiglie di latte, pacchetti di farina o rotoli di carta igienica, l’antico regime non è stato abolito. Non è stata abolita la proprietà privata dei mezzi di produzione e l’economia di mercato, completamente inserita nella divisione internazionale del lavoro, continua a ritmare, nel bene, e soprattutto nel male, la vita dei venezuelani e delle venezuelane.
Quanto al potere di cui essi dispongono, non è molto più esteso di quanto lo sia quello di un comune lavoratore di un paese capitalista, mentre i corpi costitutivi dello stato borghese – esercito, polizia, tribunali – son sempre gli stessi.
Quindi, lì, di rivoluzioni, per il momento, non ce ne sono state. Ed è d’altronde la ragione per la quale, non c’è persona sensata che non parli, in generale, di “processo”, nemmeno “rivoluzionario”, ma “bolivariano”, in corso in Venezuela.

Un decennio di portata continentale
Molti fanno risalire l’inizio al 1999, cioè all’elezione di Hugo Chavez Frias alla presidenza della repubblica. Questa era stata comunque preceduta da una lunga fase di disordini con centinaia di manifestanti ammazzati dall’esercito nel 1989, il Caracazo, la destituzione del presidente allora in carica, un tentativo fallito di golpe da parte di militari guidati da Chavez e soprattutto marcata dall’applicazione di massicce dosi di politica neoliberista.
Però, probabilmente il momento decisivo intervenne nell’aprile del 2002 quando, dopo un colpo di stato orchestrato dalle classi dominanti che destituì Chavez, l’irruzione delle masse plebee delle città e degli operai lo fece fallire e permise di rimettere in sella il presidente.
La portata storica di quel fatto non fu forse recepita come tale.
Dopo una serie sanguinosa di colpi di stato, in Guatemala, in Brasile, Cile, Bolivia e Argentina, per la prima volta da decenni le masse impedivano la realizzazione di un piano golpista, anzi, ribaltavano la situazione. Per l’America latina tutta intera non era certo cosa da poco.
Così, dopo l’aprile del 2002, il processo venezuelano ha conosciuto un’accelerazione risultante per un verso dalla presa di fiducia delle masse capaci di sconfiggere un golpe e, per un altro, dal fatto che per governare ed applicare i suoi piani, Chavez aveva bisogno di una base organizzata.
Contrariamente ai partiti storici che si spartivano la rendita petroliera, essa fu utilizzata da Chavez per sviluppare programmi sociali. Ed anche questa non è stata cosa da poco: da quand’è che si non si vedeva in America latina un governo privare le classi possedenti di quanto si appropriavano sino ad allora, per distribuirlo sotto forma di scuole, case, cibo e dispensari?
Questi fatti, così come la nazionalizzazione, nel 2004, della grande ditta siderurgica SIDOR sono per la sinistra radicale venezuelana e dell’America latina tutta, un punto di forza, una parte del patrimonio recente. E da questo punto di vista, l’attuale crisi del chavismo mette a repentaglio, non certo un socialismo inesistente, ma elementi chiave programmatici e costitutivi che un triste fallimento dell’esperienza chavista condannerebbero all’oblio.
Ed è per questo che, al di la delle conseguenze materiali che una Caporetto dell’esperienza bolivariana significherebbe per la maggioranza della popolazione, la sinistra in Venezuela e oltre, è oggi confrontata ad un vero dilemma di portata storica.

Senza carisma e con la metà del petrolio
La situazione economica nel Paese è disastrosa. La caduta del PIL è importante: è stata del 18% nel 2016 ed il FMI pronostica un’ulteriore riduzione dell’ordine del 7,5% per l’anno in corso. L’inflazione raggiunge tassi record (le stime ufficiali parlano dell’800%); i prodotti di prima necessità mancano e la popolazione è costretta a fare code interminabili per cercare di trovare quello che poi magari non c’è.
Al contempo, il governo continua ad onorare, imperterrito, gli obblighi internazionali – il pagamento del debito estero – e a svendere i buoni della PDVSA: per esempio, Goldmann-Sachs ne ha comprato recentemente per quasi 3 miliardi di US$, scontati del 70%. Parallelamente, il mercato nero dei prodotti razionati si sta sviluppando così come quello delle divise. A titolo d’esempio, un dollaro statunitense vale 10 bolivares al cambio ufficiale delle importazioni e … 5000 al mercato nero!
Si sono create in tal modo strettissime connivenze e complicità tra i malavitosi che controllano il mercato nero, in particolar modo nei quartieri popolari di Caracas e nelle grandi città, e settori governativi, quelli che controllano l’approvvigionamento e il servizio del cambio e ne approfittano senza vergogna, la boliborghesia.
E non è poi per caso che siano i cosiddetti “coletivos” – quelli che, stando a tanti resoconti, controllano con metodi mafiosi alcuni quartieri dell’Est di Caracas – che intervengono brutalmente “in difesa del chavismo” con delle pattuglie motorizzate contro qualsiasi dimostrazione di scontento o collera popolare, all’interno stesso dei barrios più poveri.
Scriveva recentemente Pablo Stefanoni, giornalista e universitario che, se per Lenin il socialismo erano “i soviet e l’elettricità” e per Chavez “il carisma ed il petrolio”, per Maduro, il primo – il carisma – è un’astrazione ed il secondo vale la metà di quanto valesse tre anni or sono.
Chavez poteva, grazie alla sua popolarità e alla sua imprevedibilità. da un lato, ed alla rendita petroliera dall’altro, assicurare la continuità del processo bolivariano. Maduro, di margini di manovra nell’ambito economico non ne ha molti e non può che cercare di non ridurre troppo brutalmente la portata dei programmi sociali che sono poi un elemento che gli permette di disporre ancora di una base popolare.
Quanto all’assenza di carisma e con una serie di misure perlomeno discutibili – semantica dell’eufemismo! – quali il rinvio sine die delle elezioni regionali previste nel 2016, la sospensione del parlamento (poi annullata dalla Procuratrice della Repubblica, la chavista Luisa Ortega) e la convocazione di un’Assemblea costituente per la fine del mese di luglio, che il potere risponde.

Una Costituzione contro la miglior costituzione del mondo
Certi, in Europa così come in America latina, potrebbero essere tentati dalla fraseologia pseudo-rivoluzionaria che presenta la convocazione della nuova Assemblea costituente come una forma di costruzione di un nuovo potere popolare. Infatti, le modalità di elezione strutturano il peso dell’elettorato in modo tale da offrire una rappresentatività importante a settori sociali plebei così come alle campagne contro le città, e da assicurare una maggioranza al governo.
Così, sui 545 deputati che dovrebbero essere eletti, 354 lo sarebbero su base territoriale – con una sovra rappresentazione delle campagne – e 181 su basi “settoriali”. In tal modo, per esempio, un pensionato, un pescatore, un operaio ed altre categorie, potrebbero votare due volte, mentre la partecipazione dei partiti politici all’elezione è proibita.
Nell’articolo citato, Stefanoni stabilisce addirittura un’analogia tra questa Costituente e la Yamahiria Libia messa in piedi da Gheddafi!
Senza un limite di tempo definito, l’Assemblea costituente finirebbe così per sospendere di fatto il Parlamento – in seno al quale le destre sono maggioranza – e sarebbe chiamata a modificare quella che Chavez definì la “migliore Costituzione al mondo”, proprio perché fissava nella carta fondamentale del Paese la proprietà ed il controllo pubblico sulle risorse del suolo e del sottosuolo nazionali.
Ed è proprio in questo ambito che le modifiche costituzionali potrebbero legittimare il controllo e l’appropriazione di fatto della gestione delle risorse naturali e petroliere del Paese da parte di componenti dell’apparato statale e dell’esercito.

Pericolo di guerra civile?
D’altra parte però, l’esistenza ed i lavori della Costituente potrebbero significare di fatto la sospensione, nell’attesa di una nuova Costituzione, delle istituzioni ed in particolar modo, del Parlamento. Potrebbe così pure essere rinviata sine die l’elezione presidenziale del 2018. Uno scenario del genere è temuto perché potrebbe sfociare in una guerra civile.
Infatti, la sospensione delle dinamiche istituzionali porterebbe acqua al mulino di quelle frange dell’opposizione di destra che la MUD ha sinora potuto contenere nella prospettiva di vittorie elettorali. Sino ad ora era infatti prevalsa la posizione del principale dirigente dell’opposizione, Enrique Capriles, favorevole ad un cambiamento istituzionale; la sospensione legittimerebbe di fatto la linea dei nuovi capetti della destra decisi a far cadere Maduro “desde la calle”, cioè grazie alla mobilitazione delle piazze. Già circolano appelli alla costituzione di un “Comando de la Resistencia”.
Dall’inizio delle manifestazioni di strada, la repressione e gli scontri hanno provocato la morte di quasi un centinaio di persone. E possibile e probabile che il governo abbia sempre più ricorso alla forza, come lo dimostra la volontà di Maduro di sviluppare la “Milicia nacional bolivariana”, una milizia volontaria armata dal governo i cui effettivi dovrebbero passare in tempi brevi dagli attuali 100’000 a 500’000. Verrebbero ad aggiungersi ai 170’000 uomini dell’Ejercito nacional ed ai 70’000 della Guardia nacional bolivariana direttamente dipendente dal ministero della difesa.
Da parte sua, la MUD, la “tavola d’unità democratica”, sta cercando con una proposta di plebiscito, peraltro sprovvista di basi legali, di dividere le forze armate, cercando di attirarne una parte nell’ambito di un progetto di unità nazionale.

La questione è “il da farsi”
Di fronte a questa situazione, la sinistra radicale in Venezuela, dopo aver attivamente partecipato allo sviluppo delle potenzialità del processo bolivariano, si ritrova oggi divisa sul da farsi.
Da un lato, Marea socialista propone la costituzione di un largo fronte in difesa della Costituzione del 1999, quella che le destre combattono. Esige che si annullino tanto la convocazione di un’Assemblea costituente che il plebiscito, chiamato Consulta, proposto dalla MUD, che siano tenute le elezioni regionali e che siano pubblicate le date della prossima elezione presidenziale.
Tutto ciò, secondo Marea socialista, non sarebbe comunque sufficiente senza un piano economico d’urgenza per venire in aiuto alle frange più fragili della popolazione grazie alla sospensione del pagamento del debito estero.
Il problema però è che il tempo stringe e che la costruzione della base sociale necessaria per imporre queste scelte rischia, per l’appunto, di essere una corsa contro il tempo. E ciò in un Paese dove la mobilitazione di massa conosce un calo tremendo, essendo diventata “fare la spesa” l’attività principale.

Con il PSUV contro il ritorno delle destre?
La difficoltà legata al debole livello di mobilitazione non ipoteca solamente la proposta di Marea socialista. Altri in Venezuela, in particolar modo la Liga unitaria chavista socialista, la LUCHAS, fanno una scelta interna al PSUV e chiamano in questo frangente ad un fronte unico sociale e politico contro il ritorno della destra.
Certamente, sussistono nel Paese settori di lavoratori beneficiari delle conquiste degli anni passati pronti a mobilitarsi in questo senso. Però, già al momento la vittoria delle opposizioni alle elezioni dell’Assemblea nazionale nel dicembre 2015, il disamore del popolo chavista risultava evidente.
Quasi due anni dopo, la situazione economica è ancora peggiorata e non ha di che spingere la gente nelle piazze per difendere un governo chiaramente corrotto. Anzi, è proprio nelle manifestazioni di piazza organizzate dalla MUD che tanta gente trova non convergenze politiche, ma lo spazio per esprimere il suo malcontento. Ed è li che sta il dramma attuale del Venezuela.
In questo contesto, la tentazione potrebbe essere forte di sviluppare reciproche accuse di “settarismo” o “opportunismo” che non facilitano certo la convergenza attorno ai compiti di difesa delle conquiste del chavismo, in particolar modo dei programmi sociali, delle misure di controllo operaio esistenti e della Costituzione del 1999.

Ma per favore…
E’ una situazione che richiede da parte delle forze della sinistra di evitare di ricorrere a schemi e dogmi.
L’anti-imperialismo pavloviano che affligge una parte della sinistra già produce un sacco di sciocchezze. La più assurda è quella che stabilisce un’analogia tra il Cile di Allende del settembre del 1973 ed il Venezuela del 2017. E’ in primo luogo assurda perché l’ambito internazionale dei rapporti di forza era ben altro che l’odierno.
Gli USA si trovavano allora nel pantano vietnamita, la rivoluzione cubana rappresentava ancora un punto di riferimento per l’intero subcontinente e focolai di rivolta si sviluppavano un po’ ovunque, in particolare in Argentina e Uruguay.
Va poi detto che, nel contesto particolare della guerra fredda, per l’imperialismo statunitense, qualsiasi forma di crescita delle lotte, qualsiasi affermazione di conquiste sociali comportava pericoli assai più importanti che quelli rappresentati oggi da un chavismo derelitto.
Nel 1973 l’esperienza dell’Unidad popular non era né esaurita, né corrotta. La ferocia della repressione intervenuta dopo l’undici di settembre è la misura della portata della mobilitazione popolare allora in atto. Fu il rifiuto di Allende di armare i cordones industriales, cioè le strutture militanti delle miniere e delle grandi fabbriche, a far precipitare il Cile nella tragedia.
Oggi, in Venezuela, si è ben lungi da tutto questo e la volontà di Maduro di rafforzare la Milicia nacional bolivariana assomiglia ben più alla costituzione di una guardia pretoriana al servizio di burocrati e generali corrotti che all’armamento del proletariato.
D’altra parte, gli interessi in gioco non son gli stessi: nel 1973, l’Unidad popular ed il processo in corso in Cile minacciavano direttamente gli interessi delle grandi compagnie nord-americane. La nazionalizzazione delle miniere di rame attaccava direttamente gli interessi della multinazionale statunitense della telefonia AT&T che fu fra i più attivi nella preparazione del golpe.
Oggi in Venezuela, non son gli interessi di Goldman Sachs che la politica di Maduro minaccia, anzi… Come scrive l’edizione spagnola del New York Times, “che governi Maduro o la destra, gli investimenti nella PDVSA dovranno essere onorati, e questo, Maduro lo fa”…