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di Giorgio Boccardo e Sebastián Caviedes

Fa male scrivere sul Venezuela. In parte significa, infatti, dar conto del dramma di un popolo che cominciava per la prima volta a partecipare alla redistribuzione delle proprie risorse. Ma vuole anche dire affrontare il declino di un processo politico che ha costituito un punto di riferimento per la sinistra latinoamericana negli ultimi decenni.

Perciò è fondamentale un dibattito critico e di riflessione sulla crisi venezuelana. Il che ovviamente non implica la subordinazione all’opportunismo di destra che, dietro una facciata democratica, riduce l’intera discussione al dilemma se il regime venezuelano costituisca o meno una dittatura, quando i suoi intenti puntano a reinstallare un modello socialmente e politicamente escludente quale quello neoliberista. Ma non è neanche responsabile eludere la discussione come ha fatto la maggioranza del pensiero critico, facendo appello a una sorta di solidarietà incondizionata con il processo [bolivariano], al punto di dimostrarsi indifferente alla tragedia del popolo venezuelano.
Da parte nostra, invece, l’interesse per la discussione sulla grave crisi attraversata dalla società venezuelana, sui successi e gli errori del chavismo, ha a che vedere con il cogliere la grossa posta in gioco in Venezuela, non solo per il futuro di questo paese e sicuramente di tutta l’America Latina, ma per la costruzione di progetti democratici e alternativi a quello della società capitalista.

1. La crisi del puntofijismo
Tra il 1958 e il 1993, l’ordine politico venezuelano si basava sul “Patto di Punto Fijo”,[1] consistente sostanzialmente nel fatto che i due principali partiti politici – Acción Democrática (AD) e Comité de Organización Política Electoral Indipendiente (Copei) – di orientamento socialdemocratico e cristiano-sociale, rispettivamente – concordarono che, indipendentemente da chi avesse vinto le elezioni, si sarebbero formati governi di unità nazionale sulla base di un programma minimo e della spartizione dei ruoli istituzionali statali. Quell’accordo diede vita a una società “meritocratica”, comprendente gruppi imprenditoriali, burocrati statali e operai del settore petrolifero, con al centro, appunto, la distribuzione della rendita generata dallo “Stato nello Stato”: Petróleos de Venezuela S.A. (PDVSA). Questa burocrazia “puntofijsta”, tuttavia, escludeva una parte considerevole dei lavoratori, dei contadini e dei gruppi emarginati.
Alla fine degli anni Sessanta comincia una lunga crisi economica e politica. Il calo della rendita petrolifera riduceva le capacità statali di dare risposte alle richieste delle forze inserite nel patto. Da parte loro, AD e Copei diventavano sempre più degli apparati elettorali clientelari e corrotti, allontanandosi dalle basi da cui avevano avuto il sostegno politico.[2] Durante il secondo governo (1989-1993) di Carlos Andrés Pérez (AD) prende avvio l’applicazione di politiche di radicali riforme strutturali che scatenarono, nel febbraio e marzo del 1989, proteste popolari di massa – note con il nome di Caracazo – che vennero violentemente represse, concludendosi con centinaia di morti e desaparecidos.
La burocrazia puntofijista oppose resistenza alle riforme, visto che queste richiedevano trasferimenti nonché ridimensionamenti delle prebende elargite alle clientele, destabilizzando così i delicati equilibri su cui si reggeva la coalizione di governo. Indipendentemente dal fatto che fossero andate in porto, le trasformazioni non riuscirono comunque a risolvere la crisi economica e politica. Di conseguenza, mentre nel 1993 il “puntofijismo” destituiva Pérez con accuse di corruzione, per la prima volta dal 1958 alle elezioni presidenziali si impose un candidato non proveniente dal patto. L’ex Copei Rafael Caldera dà vita a un nuovo partito social-cristiano e, in alleanza con organizzazioni di sinistra, vince le elezioni con un programma anti-neoliberista. Dopo avere però affrontato con difficoltà la peggiore crisi finanziaria della storia del paese, Caldora tratta con il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e promuove l’Agenda Venezuelana. Con questo piano, a parte le classiche misure monetariste applicate, si ridimensionano drasticamente le prestazioni sociali per i lavoratori e si avviano politiche di apertura e di internazionalizzazione dell’industria petrolifera, scatenando di nuovo le proteste
Dopo aver trascorso due anni in galera per aver partecipato nel 1992 al fallito colpo di Stato che lo fece diventare un punto di riferimento politico nazionale, Hugo Chávez viene liberato. Con l’appoggio di militari, intellettuali e militanti di sinistra, avvia una schiacciante attività politica. Nel contesto di una società profondamente divisa, in cui il sistema politico era ormai totalmente delegittimato e si approfondiva il deterioramento delle condizioni di vita della popolazione, Chávez fonda, nel 1997, il Movimiento Quinta República (MVR). L’anno seguente si impone alle elezioni presidenziali, facendo appello a un progetto che diede voce, indirizzo e speranza all’enorme malessere sociale.
Per riassumere: la trasformazione neoliberista scatena il collasso di un sistema politico corrotto, che durava fin dal Patto di Punto Fijio. Quelle condizioni di vuoto politico spiegano, in parte, la vertiginosa ascesa di Chávez. Dopo quindici anni di governo, il “chavismo” torna indietro su parte delle riforme neoliberiste e, tramite una radicale redistribuzione della rendita petrolifera, instaura nuove clientele per lo Stato, che sostengono un progetto nazionale e popolare, il quale non smette per questo di essere capitalista.[3]

2. Ascesa e sviluppo del “chavismo”
Il progetto iniziale di Chávez non si discosta eccessivamente dalle coordinate del populismo latinoamericano: un discorso anti-imperialista, il recupero della sovranità nazionale, la centralità dello stato, un caudillo militare, metodi autoritari di potere politico e rilevanti programmi di redistribuzione della ricchezza.[4]
Nel suo primo governo la priorità fu la convocazione di un’Assemblea Costituente per la creazione della Quinta Repubblica. Con larga maggiorana chavista, la Costituzione riafferma la natura capitalista dell’economia venezuelana, con un forte ruolo dello Stato, il quale si riserva l’attività petrolifera e di altre industrie di interesse pubblico o strategico. Politicamente, si inseriscono vari meccanismi di partecipazione che cercano di approfondire la democrazia. In termini economici, sociali e culturali, si estendono notevolmente i diritti.
Data l’estrema dipendenza dell’intera economia e dello Stato venezuelani dalla rendita petrolifera, il chavismo comincia con una revisione della politiche neoliberiste degli anni Novanta.[5] Perciò si scontra direttamente con PDVSA, che da anni anteponeva la redditività all’interesse nazionale. Se ne ristruttura la politica tributaria, si aumenta il suo contributo diretto allo Stato e si arresta il processo di apertura a capitali multinazionali avviato nel decennio precedente. Si recupera inoltre l’iniziativa nei confronti dell’OPEP, per controllare i volumi di produzione internazionale e aumentare così il prezzo del petrolio. Soprattutto la politica del controllo dei prezzi concordata con paesi quali l’Iraq e la Libia avvia gli scontri tra Chávez e il governo degli Stati Uniti.
Sono due le leggi che suscitano maggiormente opposizione politica nei settori imprenditoriali: la Ley de Tierras y Desarrollo Agrario (“Legge sulle terre e lo sviluppo agricolo”) e la Ley hidrocarburos (“Legge idrocarburi”). La prima costituiva un tentativo tardivo di riforma agraria per limitare il potere del latifondo e dare ai contadini una qualche sicurezza agroalimentare. La seconda consentì di recuperare il controllo politico ed economico di PDVSA. Entrambe furono considerate dal mondo imprenditoriale e dall’opposizione politica un attentato alla proprietà privata.
Nel suo secondo mandato (2001-2007) Chávez avvia lo scontro con un’opposizione disposta a ricorrere a qualsiasi mezzo pur di far cadere il governo. Ne facevano parte settori militari, imprenditoriali, i partiti puntofijisti, la “meritocrazia” di PDVSA e quasi tutti i mezzi di comunicazione, con in più l’appoggio del governo statunitense. Nell’aprile del 2002 c’è un colpo di Stato. Ma le combattive proteste popolari costringono a restituire a Chávez la presidenza. Alla fine di quello stesso anno si verifica la serrata degli imprenditori petroliferi. [6]
Ancora una volta, la resistenza popolare si manifestò in favore del chavismo, consentendo di piegare il sabotaggio dell’opposizione. Avendo retto ad entrambi i colpi, e a parte il danno economico e la drastica riduzione degli introiti fiscali, Chávez ne uscì rafforzato. Si trattò di un cambiamento dei rapporti di forza che permise di disarticolare l’opposizione militare e le burocrazie del petrolio, ma in cambio di un nuovo patto con i gruppi popolari dai quali dipendeva la sopravvivenza politica del regime. Per quanto già avessero votato per Chávez, è nel vivo del conflitto che prendono atto che questo era “il loro governo”.[7]
Nei primi anni del chavismo, la crisi fiscale, la priorità costituzionale e la destabilizzazione causata dall’opposizione impedirono il miglioramento delle condizioni di vita dei settori popolari. Tuttavia, data la sua centralità nella continuità del processo, e con alle porte un referendum di revoca indetto dall’opposizione, il chavismo impegnò tutte le proprie energie nello sviluppo di una nuova politica sociale.
Con le cosiddette Misiones si avviò un radicale programma di trasformazione democratica dell’impiego della rendita petrolifera che migliorò in maniera significativa gli introiti, la sanità, l’istruzione, le comunicazioni e l’accesso alla cultura del popolo venezuelano.[8] In contrasto con le politiche specifiche che sono state prevalenti in gran parte dell’America Latina, la spesa sociale fu incentrata sull’obiettivo di ridurre le disuguaglianze, diventando una componente fondamentale della spesa pubblica. In sintesi, si costruì un tessuto produttivo e sociale, come anche un nuovo assetto istituzionale.
La legittimazione della nuova politica sociale si manifestò con chiarezza nel referendum di revoca del 2004. Chávez si impose con il 59% dei suffragi e, nelle elezioni dei governatori dello stesso anno, perse soltanto in 2 dei 23 Stati. L’anno successivo, di fronte alla possibilità di venire spazzata via dal Parlamento, l’opposizione non si presentava alle elezioni, lasciando il Parlamento composto esclusivamente da chavisti. Per le presidenziali del 2006, Chávez vinse quasi con il 63% di fronte a Manuel Rosales (AD-Copei).
Da allora in poi, Chávez si consolida come figura internazionale, non solo come guida della nuova strategia di controllo dei prezzi dell’OPEP, ma come colui che frena la politica statunitense di subordinazione latinoamericana (ALCA) attraverso l’alleanza con i governi di Brasile e Argentina, con la creazione dell’ALBA ed altre iniziative di inserimento economico e sociale, così come con il crescente sostegno a governi quali quelli di Bolivia ed Equador. Si trattava in definitiva di una significativa resistenza politica e culturale alle pretese egemoniche degli Stati Uniti sull’America Latina, con George W. Bush in testa.
Agli inizi del 2007, Chávez annunciò che la “fase di transizione” in Venezuela era finita ed era il momento di avanzare nella costruzione del “Socialismo del XXI secolo”. A tal fine si richiedevano leggi “abilitanti” che gli rilasciassero poteri eccezionali, una riforma costituzionale per dichiarare socialista la Repubblica Bolivariana del Venezuela e costruire il Partito Socialista Unito Venezuelano (PSUV). Tra le proposte specifiche, Chávez riaffermava la proprietà e il controllo dello Stato sugli idrocarburi, la soppressione delle restrizioni per la rielezione presidenziale per più di due periodi e la riorganizzazione politico-territoriale del paese.
È appunto nel corso di questa fase che si verifica un’inflessione nel processo economico e politico, che avrà conseguenze fondamentali per il Venezuela. Infatti, innanzitutto, anziché avanzare nella diversificazione produttiva per rendere il paese meno dipendente dalla rendita petrolifera e dai cicli economici internazionali, si punta a rafforzare il “distribuzionismo”, nonché la formazione di un’imprenditoria chavista di natura commerciale e finanziaria. In questo modo, la “maledizione delle risorse naturali” finisce per seppellire a lunga scadenza gli sforzi democratici di trasformazione sociale fino ad allora conseguiti. In secondo luogo, Chávez finisce per ridurre la sua proposta di socialismo a statalismo e verticismo. Anziché, infatti, radicalizzare la democrazia politica, cade in preda all’autoritarismo militare e, al di là della retorica, dei retaggi del populismo e dei socialismi reali. Poi, anziché dare alle classi popolari maggior potere politico, finisce per perdere potere al prezzo di un accresciuto clientelismo statale e del controllo burocratico del processo.
Di conseguenza, al di là delle difficoltà legate allo scontro con gli Stati Uniti, alle forze reazionarie dell’opposizione e ai limiti del sottosviluppo latinoamericano, è proprio nel momento di maggiore auge del chavismo che si perde l’occasione storica di radicalizzare il processo sociale e politico in corso. In questo senso, Nicolás Maduro eredita condizioni socio-politiche esplose come prodotto dei bassi prezzi del petrolio, ma che hanno origine negli anni precedenti la sua ascesa.

3. Il Venezuela dopo Chávez
Con la morte di Chávez nel 2013, e non essendoci nel PSUV alcun dirigente paragonabile a lui, con la nomina di Maduro si è fatto sentire il peso della sua visione politica più ampia e dei suoi legami internazionali nel guidare l’amalgama di tendenze e movimenti convergenti nell’alleanza chavista.
Certamente, l’avvento al potere è avvenuto in coincidenza col declino di una rendita petrolifera arrivata a costituire circa il 95% delle entrate venezuelane grazie alle esportazioni, il 60% delle risorse del bilancio e il 12% del PIL. Nel declino, per il 2015, le entrate derivanti dalle esportazioni di petroli grezzi erano scese al 40% e, nel 2016, il debito estero aumentava di oltre il 360% rispetto al 1998.[9]
Insieme all’effetto devastante di questa contrazione economica, che rende difficile per il governo sostenere i programmi paganti di redistribuzione sociale, e avere quindi il consenso della coalizione dominante, si acutizzano i tratti autoritari del sistema politico, sia per il lascito del processo bolivariano nel suo complesso, sia per l’incapacità politica del nuovo presidente. Spicca in particolare la distruzione del tessuto sociale che aveva sorretto l’egemonia chavista, la cui pecca originaria, aggravata dalla crisi economica e politica, consiste nel modo in cui si è concepita l’organizzazione di base che aveva sostenuto il movimento, ben poco concepita come autogestita ed autonoma, essendo piuttosto il risultato di politiche pubbliche portate avanti dallo Stato venezuelano.[10]
In seno al PSUV e al movimento chavista questo si manifesta in una cultura politica che andava escludendo, fin dall’epoca di Chávez, il dibattito critico fra le basi del partito, tratto tipico fin dalla sua fondazione.[11] Per il resto, un aspetto specifico degli ultimi anni è l’incremento della militarizzazione dello Stato e del governo, probabilmente perché Maduro, non essendo organicamente legato all’Esercito, ne ha inseriti molti suoi membri in posizioni di potere, quasi un modo di assicurarne la lealtà. Oggi, ad esempio, un terzo dei ministri (12 su 31) e dei governatori (13 su 20) sono militari, e molti altri sono collocati in posti chiave dell’economia, dove, vista la mancanza di controlli democratici, si aprono contraddizioni che determinano il proliferare della corruzione, soprattutto in ambiti quali l’assegnazione di divise, i porti o la distribuzione dei prodotti alimentari.[12]
Oltre alla corruzione, vecchio problema venezuelano che va oltre l’esperienza chavista, la crisi porta in evidenza gli effetti negativi connessi al sistema della rendita petrolifera estrattivista che regge l’economia. Ne è un esempio il settore energetico, dove l’assenza di investimenti ha provocato tagli e restrizioni nella somministrazione di energia, sommergendo il paese nella mancanza di rifornimento di gas naturale e suoi derivati, pur disponendo il Venezuela di una delle maggiori riserve a livello mondiale di gas convenzionale che si conoscano. Peggio ancora, il governo ha dichiarato il proprio interesse all’impiego di tecnologie di perforazione orizzontale e fracking, notoriamente dannose per l’ambiente e la salute, per avviare lo sfruttamento di gas nel bacino del Lago Maracaibo.[13] Tecnologie che, paradossalmente, hanno consentito agli Stati Uniti di ottenere una relativa autonomia energetica, determinando uno squilibrio del mercato mondiale del petrolio che ha peggiorato i prezzi globali, danneggiando lo stesso Venezuela.[14]
La crisi, inoltre, accresceva la penetrazione del capitale multinazionale, come dimostra la creazione della Nuova Zona di Sviluppo Strategico Nazionale “Arco Minerario dell’Orinoco”, che aprirà alla grande industria mineraria nazionale e straniera circa 112.000 km2, sotto la supervisione e il controllo dell’esercito.[15]
Tenendo conto della debolezza di Maduro, la stessa opposizione che si era scontrata con Chávez si riarticola per tentare di ricostruire parte della sua legittimità perduta nel 2002. Raccolti intorno alla Mesa (“Tavolo”) de Unidad Democrática (MUD), convivono gruppi che vanno dalla sinistra moderata all’estrema destra golpista, ciascuno con il proprio programma. Per il loro peso in Parlamento, le organizzazioni che guidano la MUD sono Primero Justicia (PJ) e Voluntad Popular (VP),[16] insieme al vecchio partito AD. Tra i membri di PJ troviamo il candidato alla presidenza Henrique Capriles e Julio Borges, l’attuale presidente del Parlamento, archetipo della generazione politica che, con l’ascesa del chavismo, si era visto frustrare il logico passaggio alla politica puntofijista, dopo essersi formata all’estero e provenire dalla COPEI. VP, da parte sua, guidata da Leonardo López, fa appello alla mobilitazione di piazza con elevati livelli di violenza, rifiutandosi di accettare la legittimità del governo e caldeggiando l’intervento esterno contro il Venezuela.[17]
Per quel poco che c’è stato, l’atteggiamento dialogante dell’opposizione è durato fino alla promulgazione dei risultati elettorali delle presidenziali del 2013. A partire infatti dall’insostenibile accusa di frode elettorale che farà Capriles,[18] che provocò 11 morti, la radicalizzazione dell’opposizione ha dato luogo a episodi brutali come quelli verificatisi nelle manifestazioni studentesche del febbraio 2014, quando López e il suo partito, insieme alla parlamentare María Corina Machado e al sindaco di Caracas, Antonio Ledezma, alimentarono una protesta che provocò 47 morti, e in cui si videro tendere fili metallici per le strade per decapitare i motociclisti governativi. L’appello a far cadere il governo portò López e Ledezma a scontare in carcere una condanna che naturalmente, grazie all’offensiva internazionale capeggiata dall’ex presidente spagnolo José María Aznar ed altri ex mandatari ispano-americani, insieme al sostegno del segretario generale dell’ OEA, Luis Almagro, li ha trasformati, nonostante i loro precedenti golpisti, in “martiri”, difensori della democrazia e dei diritti umani.[19]
Il grosso problema dell’opposizione è la mancanza di un progetto comune e alternativo al chavismo. È risultato evidente quando entrò in funzione la “super maggioranza” parlamentare ottenuta nel dicembre 2015.[20] L’opposizione si è incentrata esclusivamente sullo smantellamento di tutto quello che si era fatto prima e sulla strategia più adeguata per sbarazzarsi di Maduro, tralasciando la ricerca di misure concrete per affrontare i crimine e l’insicurezza, o per mitigare la crisi economica. Le poche proposte programmatiche al suo attivo sono il richiamo all’aumento della rendita petrolifera, alla liberalizzazione e all’aiuto che sarebbe potuto venire dal FMI, il tutto scarsamente attraente per la società venezuelana, visto che molti settori popolari pensano che perderebbero più di quel che hanno già perso se arrivasse al potere l’opposizione.[21] In definitiva, punta alla riarticolazione del patto elitario che ha governato per tutta la storia venezuelana, sollevandosi contro il regime che l’ha esclusa dalla redistribuzione dello Stato e ne ha limitato la partecipazione a questo sistema, cercando di destabilizzarlo con la forza.
A parte questo, nell’ultimo periodo, la crisi umanitaria suscitata dal deterioramento del paese ha permesso all’opposizione di strumentalizzare a proprio favore la mobilitazione popolare dell’ovest di Caracas, bastione del chavismo, aprendosi un varco nell’indiscutibile radicamento popolare bolivariano. Così, mentre l’opposizione fa appello alla creazione di un canale umanitario per risolvere il problema della mancanza di generi alimentari e di farmaci, ma si mobilita soprattutto per rivendicazioni politiche come la liberazione dei prigionieri politici o del referendum di revoca contro Maduro, il popolo, nella sua maggioranza chavista, lo fa per fame, per la scarsezza di medicinali e di prodotti basilari, e per la violenza e l’insicurezza generalizzate.[22]
Il sistema di controllo del tipo di cambio e dei prezzi, imposto nel 2002-2003 per far fronte al sabotaggio economico degli oppositori, non funziona più e consente la speculazione tra i settori che controllano le divise. La cronica mancanza di dollari ha minato ogni capacità economica, specie nel campo delle importazioni. Di conseguenza, i più colpiti sono stati gli strati popolari che dipendono dai prodotti che il governo importa e vende a prezzi controllati. Questo ha permesso la crescita del mercato nero, grazie anche all’assenza di una strategia di rifornimento e di distribuzione, un’altra tara del modello di sviluppo bolivariano.[23] Insieme a questi gravi problemi di rifornimento, gli ultimi dati economici diffusi dall’INE (Istituto Nazionale di Statistiche) venezuelano e dal CEPAL, relativi al dicembre 2015, indicano un’inflazione generale del 180,9% e di quella dei generi alimentari del 218,7%.[24] In queste condizioni, oggi aumenta la denutrizione, per la prima volta, a causa della fame e non per malattie, subendo la popolazione una perdita media di 8 chili, mentre aumentano coloro che denunciano di mangiare due o meno volte al giorno.[25]
Dopo aver preso definitivamente l’impegno con i settori popolari agli inizi del secondo millennio, le politiche sociali chaviste comportano il calo della povertà e dell’indigenza, praticamente in modo ininterrotto: Arrivano al punto più basso nel 2002, quando la povertà raggiunge il 25,4% e l’indigenza il 7,1%.[26] Nonostante questo, tra il 2014 e il 2016, la percentuale delle famiglie povere balza dal 48,4% all’ 81,8%, con il 51,5% del totale che versa in condizioni di povertà estrema.[27] Questo mette in risalto l’importanza avuta dalla politica di redistribuzione della rendita petrolifera, mentre ne evidenzia al tempo stesso la sua natura di tallone d’Achille.
La crisi politica si è accentuata dall’aprile del 2017, mentre si inaspriscono con Maduro i tratti autoritari del regime, al punto di infrangere la stessa Costituzione del 1999. E, questo, con il Consiglio Nazionale Elettorale (CNE) e il Tribunale Supremo di Giustizia (TSJ) che annuiscono.[28]
A questo si aggiunge la crescita della radicalità degli scontri tra le forze d’urto dell’opposizione e del governo. Orbene, la cosa più rilevante dal punto di vista politico è come questo approfondisca la divisione all’interno del chavismo.
In realtà, se all’inizio del mandato di Maduro la tensione si registrava tra una fazione civile alla testa di importanti ministeri quali quello dell’Agricoltura e delle Terre e quello dell’Energia e Petrolio, e un’altra fazione militare, composta di elementi in servizio o in pensione, diversi dei quali compagni di Chávez fin dai tumulti del 1992, e che erano incaricati di settori nazionali e strategici e controllavano il Parlamento e il SUV nella figura di Diosdado Cabello,[29] oggi la divisione, snaturando la polarizzazione degli inizi, si allarga a nuove frange civili e militari.
Nel caso di questi ultimi, guadagna rilievo il gruppo 4F, capeggiato da ex compagni d’armi di Chávez, che rimproverano a Maduro il suo distacco da un qualsiasi progetto rivoluzionario, socialista o bolivariano, mettendo in risalto al contempo la precarietà che colpisce le caserme e le famiglie dei militari.[30] Da parte sua, la dissidenza da sinistra del chavismo – il cui nucleo centrale è Marea Socialista, collettivo di politici e intellettuali chavisti critici preesistente alla crisi attuale – guadagna sostegni, anche di ex ministri di Chávez e Maduro, dirigenti sociali e accademici, formulando una critica alla “rottura del filo costituzionale” e alla situazione di polarizzazione e di violenza che colpisce il paese.[31]
Entrambi i raggruppamenti puntano all’apertura di un dialogo politico e sociale che dia luogo a un consenso nazionale. Tuttavia, per l’opposizione di sinistra, l’attenzione va posta sul fatto che la svolta antidemocratica impressa da Maduro, aggiunta a quella dell’opposizione, e che ha perforato la fragile struttura istituzionale venezuelana, possa spalancare la porta all’intervento straniero. Questa alternativa di sinistra, comunque, è poco sviluppata e, in realtà non ha capacità sufficiente per guidare il processo di transizione. Piuttosto, l’indirizzo che adotta questo processo continua ad essere nelle mani dei militari, il cui sostegno a Maduro spiega in larga misura il suo mantenersi al potere.
Così, quel che è in giuoco dopo la morte di Chávez, più che la democratizzazione del Venezuela – volendo, imputabile alla maggioranza dei paesi latinoamericani – e la possibilità che in America Latina si sviluppi un capitalismo nazional-popolare nel quadro di un’economia internazionale di stampo neoliberista. Oggi, certamente, la posizione che dovrebbero sostenere le forze di sinistra nella regione è quella di salvaguardare l’autonomia popolare nella soluzione di questa crisi, evitando che ne discenda un nuovo patto elitario, che possa anche esser deciso da fuori dei confini venezuelani.

4. Critica e internazionalismo di fronte alla crisi politica venezuelana
Il processo venezuelano rimane decisamente aperto: in buona misura perché non si è prodotta una frattura importante nell’Esercito. Tuttavia le drammatiche condizioni di vita affrontate dal suo popolo possono accelerare il corso degli avvenimenti. A seconda di quali frazioni del chavismo e/o dell’opposizione arrivino a imporsi (o a patteggiare), il corso storico del Venezuela può imboccare direzioni impreviste. Quindi, più che tentare di prevedere quello che il futuro prepara al Venezuela, ci interessa riaffermare alcune riflessioni sulla crisi del chavismo e quello che, ci piaccia o no, da esso ereditano gli sforzi di trasformazione anti-neoliberisti che oggi si sforzano di emergere a diverse latitudini.
Prima di tutto, per quanto possano apparire attraenti i vantaggi offerti dallo sfruttamento di risorse naturali per espandere la democrazia sociale, anche quando sono monopolizzati dallo Stato, questo pone limiti all’affermazione di progetti politici di trasformazione: generano un’estrema dipendenza dai cicli economici internazionali, producono crisi socio-ambientali nei territori sfruttati e, in genere, deprimono altri settori produttivi (la cosiddetta “malattia olandese”). Certamente tali critiche devono tener conto delle rivendicazioni di ridistribuzione chieste legittimamente da settori popolari che sono, appunto, quelli che alimentano queste esperienze.
Secondo, una volta di più si dimostra quanto sia insufficiente la “conquista dello Stato” per avanzare nella trasformazione della società capitalista, sia pure con gli strumenti della democrazia liberale. La tragedia attraversata dal Venezuela ci rinvia nuovamente ai limiti storici delle sinistre al potere durante il secolo XX, che in varie forme hanno ridotto il problema del socialismo allo statalismo, mentre in realtà si tratta esattamente del contrario: di socializzare permanentemente il potere e di democratizzare progressivamente la vita sociale.
Terzo, va sottolineato che la crisi del Venezuela avrà un enorme ripercussione sulla sinistra latinoamericana. La sua sconfitta rappresenterà la delegittimazione delle buone idee che il chavismo ha tentato di sviluppare, ma anche un maggiore predominio dell’influenza statunitense nella regione, questa volta attraverso la Colombia, in cui mantiene istallate basi militari. E si potenzierà, inoltre, con un Brasile che attraversa ugualmente un’acuta crisi politica.
Non sappiamo come si concluderà la crisi venezuelana. Ma quale che sia il suo esito, dovremo assumere sulle nostre spalle il pesante carico della sua eredità. Dovremo spiegarla, imparare da essa, dai suoi successi e dai suoi errori; in ogni caso, non è una possibile alternativa per la sinistra ignorarla. Anche se questo ci porterà pesanti costi politici (o elettorali). Come minimo, dobbiamo uscire da questo silenzio interessato, difendere il senso della nostra critica al Venezuela che è finalizzata a valorizzarne i risultati e non a capovolgerli, a imparare dai suoi errori, ma anche a contrapporsi alle condizioni che cercano di imporci la reazione e il progressismo neoliberista, i principali responsabili delle miserrime condizioni di vita sperimentate giorno per giorno dai popoli latinoamericani.
In questo momento la solidarietà della sinistra latinoamericana con il popolo venezuelano deve basarsi su un impegno critico per una soluzione anti-neoliberista e democratica alla crisi, spingendo perché le forze che rappresentano questa soluzione prevalgano. Con la stessa forza deve affrontare l’impostazione golpista, elitaria e neoliberista rappresentata dagli attuali dirigenti dell’opposizione. In definitiva, anche la costruzione di una sinistra radicale passa per il recupero dell’internazionalismo critico e solidale che ha contraddistinto la tradizione rivoluzionaria della nostra America Latina.

Fonte originale articolo: http://vientosur.info/spip.php?article12743

Note
[1] Becerra, M. (2001), El colapso del sistema de partidos en Venezuela: explicación de una muerte anunciada, in Maingón, T., Carrasquero, J., Welsch, F. (a cura di), Venezuela en transición: elecciones y democracia, 1998-2000, Caracas, RedPol, pp. 36-51.
[2] Lander, E. (2007), Venezuela: logros y tensiones en los primeros ocho años del proceso de cambio. Gobiernos de izquierda en América Latina. Un balance político, Aurora, Bogotá, pp. 39-76.
[3] Ruíz, C., Boccardo, G. (2015), ¿América Latina ante una nueva encrucijada?, in Anuario del conflicto social.
[4] Chávez, H. (1996), Agenda Alternativa Bolivariana: Una propuesta patriótica para salir del laberinto, Caracas (ripreso da: http://minci.gob.ve/2014/03/libro-rojo/).
[5] Boué, J. C. (2002), “Internacionalización de PDVSA: ¿Triunfo estratégico o desastre fiscal?”, in Revista Venezolana de Economía y Ciencias Sociales, 8(2), pp. 237-282.
[6] Maya, M. L. (2003), “Venezuela en la encrucijada”, in Revista OSAL, (9), pp. 55-60.
[7] Lander, E. (2007), op. cit.
[8] 8/ Maya, M. L. (2008), “Venezuela: Hugo Chávez y el bolivarianismo”, in Revista Venezolana de Economía y Ciencias Sociales, 14(3), pp. 55-82.
[9] Cepal (2016), Anuario Estadístico de América Latina y el Caribe, Santiago: ONU. Mentre nel 2013 il prezzo medio del grezzo era di US$100, nel febbraio del 2016 era sceso al su livello più basso, US$24,25.
[10] Lander, E. (2016, 12 luglio), La implosión de la Venezuela rentista. Aporrea.org.
[11] Buxton, J. (2016, luglio-agosto), “Venezuela después de Chávez”, Intervista alla New Left Review, (99), pp. 7-29.
[12] Lander, E. (2016), op. cit.
[13] Linares , J. (2014, 19 giugno), El peligroso fracking en Venezuela. Aporrea.org.
[14] Telesur. (2015, 22 ottobre), “El fracking desequilibró el mercado petrolero mundial”, Telesurtv.net.
[15] Agencia Venezolana de Noticias (AVN) (2016, 27 febbraio), “Plan del Arco del Orinoco contempla industrializar potencial minero nacional”.
[16] Sono quelle che maneggiano le maggiori risorse economiche, soprattutto il finanziamento che gli Stati Uniti stanno elargendo all’opposizione fin dal 2002, tramite agenzie quali Usaid e la NED: cfr. Núñez, E. (2014, 5 paprile), “Usaid: ¿agencia de desarrollo o de operaciones encubiertas?”, in BBC Mundo.
[17] Lewit, A., Brito, G. (2016), “Radiografía de la MUD: análisis sobre la oposición venezolana”, Celag.org. (sito del Centro Estratégico Latinoamericano Geopolítica).
[18] Si attaccò all’avaria di 535 macchine del sistema elettronico di votazione nazionale. Se anche si fosse accertato che così stavano le cose, si sarebbe trattato di una quantità di voti marginale rispetto al totale dei suffragi. Cfr. Rosnick, D., Weisbrot, M. (2013, maggio), “A statistical note on the April 14 Venezuelan Presidential Election and audit of results”, Center for Economic and Policy Research (CEPR).
[19] Si veda la “Dichiarazione di Panama” del 2015 (Público, 9 aprile 2015). Felipe González si alleò con Aznar per attaccare il governo del Venezuela ().
[20] La sproporzione rese evidente il fallimento del PSUV nell’affrontare i problemi del quadro elettorale. Il fronte dell’opposizione ottenne il 56% dei suffragi mentre il PSUV e il suo Gran Polo Patriottico il 41%. Naturalmente essendo in gioco 164 seggi, 113 furono assegnati secondo il sistema maggioritario, mentre i 51 rimanenti si distribuirono in base alla lista. La supermaggioranza della MUD dipendeva dall’appoggio di tre membri provenienti da comunità indigene. Essa però finì allorché si scoprì che erano implicati in una frode elettorale, insieme a un membro del PSUV e tutti e quattro vennero destituiti (cfr. Buxton, op. cit.).
[21] Pardo, D. (2017, 5 maggio), op. cit., “Si esta es una dictadura, es la más feliz del mundo’: ¿qué piensan y cómo ven los chavistas convencidos la crisis de Venezuela?”, BBC Mundo.
[22] Pardo, D., op. cit. La confusione e la propaganda sono a questo punto all’ordine del giorno. Da ricordare l’ostentata natura di classe con cui iniziano le proteste contro Maduro, poco dopo la morte di Chavez, concentrate nelle zone più agiate di Caracas, dove la gente esibiva i suoi camioncini ultimo modello e gli abiti da 300 dollari. Cfr. Weisbrot, M. (2014, 20 marzo), “The truth about Venezuela: a revolt of the well-off, not a ‘terror campaign'”, in The Guardian.
[23] Buxton, J., op. cit.
[24] Si tratta di dati sicuramente sottostimati, che per giunta oggi stanno aumentando. Si veda: Cepal. (2016), Panorama social de América Latina y el Caribe, 2015. Santiago: ONU.
[25] Questo, in base all’accesso al “paniere” alimentare previsto per legge. Cfr. UCV-UCB-USB. (2017, febbraio), Encuesta de Condiciones de Vida en Venezuela (Encovi), 2016. Caracas, Fundación Bengoa.
[26] Cepal (2016), op. cit.
[27] UCV-UCB-USB, op. cit.
[28] La svolta, poi, si manifesta: nel disconoscere il Parlamento con gli con l’opposizione maggioritaria (più volte scavalcato dalle decisioni del TSJ); nel blocco e il rinvio il referendum di revoca, per il quale l’opposizione aveva ottemperato a tutti i requisiti costituzionali; nel rinvio dello svolgimento delle elezioni a governatore del 2016; e nella convocazione di un’Assemblea Costituente, saltando il requisito preliminare del plebiscito e sopprimendo così un dispositivo rispettato dallo stesso Chávez a suo tempo.
[29] BBC Mundo (2012, 11 dicembre), “Un mapa del chavismo: socialistas y militares”.
[30] Santacecilia, M. (2016, 30 maggio), “¿Quiénes son las ovejas negras del chavismo?”, Deutsche Welle.
[31] Aporrea. (2017, 25 maggio), “Sectores fuera de la polarización hacen llamado a detener escalada de violencia”, Aporrea.org.