di Antonio Moscato
È molto probabile che Maduro non abbia molto tempo davanti a sé per uscire dalla situazione in cui si è cacciato. Evidentemente incapace di affrontare i problemi concreti del paese come un’inflazione che non ha paragone con quella di altri paesi con governi “progressisti” (che pure si confrontano alle stesse difficoltà oggettive come il calo del prezzo del petrolio e di altre materie prime, e che ugualmente non godono di particolare simpatia al vertice degli Stati Uniti), e come la forte contrazione del PIL, e la terribile scarsità di beni e servizi offerti ai cittadini, Maduro pensa di cavarsela con trovate estemporanee che, quando non sono di dubbia e controversa architettura costituzionale, rivelano una profonda ignoranza dei meccanismi dell’economia.
L’ultima, passata in sordina nei commenti stampa di ogni orientamento, ma segnalata solo dall’attento organo vaticano L’Osservatore romano, è davvero bizzarra: “Maduro ha ordinato che le aziende pubbliche e private cedano allo Stato i loro dipendenti per almeno 60 giorni per partecipare alla produzione agroalimentare. In base ai poteri speciali che il Governo si è attribuito per affrontare l’emergenza economica, Maduro ha disposto che questa misura si applichi a «tutti i datori di lavoro del Paese, pubblici, privati, di proprietà sociale o misti». Il decreto non specifica quali saranno i meccanismi per regolamentare la “cessione” dei lavoratori allo Stato, pur precisando che si deve trattare di persone che dispongano delle «condizioni fisiche adeguate» e di «conoscenze teoriche e tecniche» delle attività agroalimentari. Il presidente della Confindustria di Caracas, Francisco Martínez, ha respinto la misura, definendola «una palese violazione della libertà dei lavoratori» e un «regime di schiavitù statale retribuita», in chiara violazione delle convenzioni sottoscritte dal Paese in materia di lavoro. Da parte sua, la responsabile per l’America latina di Amnesty International, Erika Guevara-Rosas, ha detto che «cercare di risolvere la crisi alimentare forzando la gente ad andare a lavorare nei campi è come cercare di curare una gamba fratturata con un cerotto”.
Anche senza parlare di “schiavitù” o di un “cerotto su una frattura”, è evidente che la misura, se realizzata, susciterebbe un notevole malcontento senza aumentare minimamente la produzione e soprattutto senza neppure sfiorare la speculazione che agisce indisturbata a livello di distribuzione, e che ha origine non nei piccolissimi rivenditori, ma a partire dal vertice dell’apparato statale e dello stesso PSUV, e si regge soprattutto sull’esistenza di tre cambi diversi con il dollaro. L’idea della sospensione per 60 giorni delle pur modeste produzioni locali ricorda gli aspetti più irrazionali della Grande zafra cubana (che per aumentare la raccolta di canna scardinò tutti gli altri settori dell’economia, a partire dai trasporti), o anche l’ancor più lontana disastrosa esperienza del cosiddetto “grande balzo in avanti” maoista.
Un’altra novità è una dichiarazione fatta ieri da Tibisay Lucena, la responsabile del balletto di cifre che hanno fatto dubitare dei risultati di un voto senza rappresentanti dell’opposizione e senza osservatori internazionali (che c’erano sempre stati in tutte le elezioni finché Chávez è stato presidente e anche nella prima vinta di strettissima misura da Maduro). La Lucena aveva dichiarato nell’ottobre scorso che tra i milioni di firme raccolte durante l’estate 2016 per prenotare un referendum revocatorio c’erano alcune firme false, e quindi si doveva procedere a più minuziosi controlli e a verificare la corrispondenza tra la firma e i dati inseriti nella “tessera della Patria”, il nuovo certificato elettorale. A proposito della fiducia assoluta nel voto elettronico, va segnalato che l’opposizione ha messo in rete un video in cui Maduro al tavolo del voto ha consegnato solennemente la sua tessera mentre faceva i suoi consueti show: ma appena inserita nel lettore, sullo schermo appariva la scritta: “persona sconosciuta o non abilitata”, scritta ovviamente ignorata dalla scrutatrice imbarazzatissima. Probabilmente Maduro aveva avuto la Tessera n°1 ma aveva dimenticato di farla autenticare.
Ma torniamo a una cosa più seria come la proposta della Lucena: Il 3 agosto ha annunciato che i controlli erano finiti e che era stato accertato che era stato raggiunto il quorum dell’1% degli aventi diritto al voto in ciascuno dei 24 Stati del Venezuela. Quindi ora si potrebbe passare alla seconda macchinosissima fase della raccolta certificata dal CNE di altre firme necessarie per rendere operativo il referendum revocatorio… probabilmente subito dopo la scadenza naturale del mandato presidenziale. Grottesco che abbiano impiegato 10 mesi per scoprire che tra i milioni di firme c’era quell’un per cento al di sopra di ogni sospetto, e viene il dubbio che l’annuncio tardivo sia legato non tanto all’imbarazzo per la dichiarazione sui brogli nelle votazioni per la costituente da parte del dirigente della ditta esterna che organizzava il voto elettronico, quanto soprattutto al panico di fronte all’impegno più diretto e meno equidistante del Vaticano.
Non vale la pena di soffermarsi sui calcoli dei voti spariti o apparsi miracolosamente su cui invece si sono impegnate diverse pagine WEB libertarie, locali e di altri paesi vicini, senza che i media prestino loro il minimo ascolto. È vero che anch’io non sono molto convinto dai dati ufficiali e ne ho notato alcune contraddizioni, ma è quasi impossibile ricavare conclusioni certe. Ma soprattutto non serve far calcoli dettagliati, c’è una verifica a monte: dal 6 dicembre 2015, giorno della vittoria della MUD che non aveva aumentato i suoi voti, ma aveva beneficiato del non voto di due milioni e mezzo di elettori chavisti (circa tre milioni in meno degli iscritti nominali al PSUV!) Maduro e la CNE da lui nominata hanno impedito qualsiasi tipo di elezione, da quelle amministrative a quelle sindacali. Tanto sicuri dell’appoggio delle base chavista evidentemente non erano…
Il primo commento di Maduro (che non è un gigante del pensiero, e cambia idea quasi ogni giorno, magari sostenendo di essere stato ispirato da un uccellino che gli comunica i suggerimenti di Chávez) era stata un’onesta ammissione della vittoria dell’opposizione, attribuendola però a quella che lui chiama la “guerra economica”. Ma non ritenendo sufficiente a tranquillizzare la base scontenta del partito questa spiegazione, che comunque ritorna periodicamente nei suoi discorsi e che è campata in aria, come spiegherò più avanti, Maduro nel corso dello stesso mese di dicembre aveva lanciato una proposta che anticipava il trucco della Costituente: creare una nuova repubblica a base comunale. Anche se ci sono stati gli ingenui (per non parlare dei disonesti) che l’hanno subito esaltata e paragonata ai soviet, la proposta è caduta presto: le comunas (che non sono le municipalità previste dalla costituzione ma raggruppamenti volontari di varia rappresentatività, su cui contava l’ultimo Chávez ma anche la sinistra interna) in realtà sono presenti solo in alcune zone, e rendevano ridicola la pretesa di contrapporne un coordinamento a un parlamento regolarmente eletto. Ma lo scopo evidente della proposta era solo quello di delegittimare il parlamento eletto, e allora si è passati ad altre soluzioni tecnicamente possibili ma sostanzialmente antidemocratiche: una raffica di “Leggi abilitanti” che in casi particolarmente drammatici consentono al Presidente di scavalcare il voto del parlamento sui decreti governativi. Ma sono state usate a raffica nei giorni intercorsi tra il voto e l’entrata in carica del nuovo parlamento.. Come se non bastasse, Maduro ha semplicemente rifiutato di promulgare ogni legge votata dal parlamento.
Questo comportamento antidemocratico non è giustificabile solo adducendo la povertà politica della MUD, che lasciate le tradizionali volgarità anticomuniste (“il governo ti toglierà i figli e ti obbligherà a mettere in comune tua moglie”) erano passati a proposte demagogiche come aumentare di cinque volte il paniere alimentare su cui si calcola il salario, mentre si assicurava che per risolvere i problemi del paese bastava cacciare Maduro. Ma questo faceva il paio con l’argomento della più rozza propaganda di Maduro che annunciava che una vittoria della MUD avrebbe significato l’eliminazione dei modesti contributi assistenziali per i più poveri, mentre ormai in quasi tutti i paesi dell’America Latina ci sono meccanismi analoghi, a prescindere del colore del governo.
L’argomento base della campagna elettorale e poi la spiegazione della sconfitta era come ho già detto la “guerra economica”. Secondo Maduro era questa guerra che aveva impedito a molti militanti stanchi e delusi di andare a votare. Continuando una tradizione (lo aveva già fatto Chávez) si additava poi indiscriminatamente il settore della distribuzione per il rincaro dei prezzi.
Ma la maggiore responsabilità non era del bottegaio, magari anche chavista. Il contrabbando e l’imboscamento di prodotti per ricavare di più dalla loro vendita non lo fanno solo i nemici di Maduro pagati dalla CIA, ma persone che approfittano degli enormi margini tra i prezzi calmierati dallo Stato e i prezzi nei paesi vicini (Colombia, ma anche Panamà e Brasile). Quando l’inflazione raggiunge livelli altissimi, difficile decidere di vendere subito quel che si può vendere domani a un prezzo maggiorato. Ma “la speculazione” non è la causa dell’aumento generale dei prezzi, ma al contrario ne è la conseguenza. Su questo rinvio a diversi articoli di Manuel Sutherland, in https://www.aporrea.org/ideologia/a223089.html e http://contrapunto.com/usuario/Manuel%20Sutherland/.
Sutherland obietta che se esistesse davvero questa “guerra economica” ci sarebbero commercianti e produttori chavisti che non parteciperebbero. Ma in realtà sono proprio le imprese statali che hanno maggiori scarsezze, e anche se è doloroso dirlo, quelli che più contrabbandano e fanno mercato nero (bachaqueo) sono alti funzionari statali che non vogliono affatto abbattere il governo Maduro, ma a cui conviene che resti in eterno.
E Sutherland, che è professore di economia politica presso la Universidad Bolivariana de Venezuela e responsabile editoriale della Asociación latinoamericana de Economistas Marxistas (ALEM) ricorda che tassi fortissimi di inflazione si erano avuti nella Germania del 1923, e in vari periodi in diversi paesi latinoamericani, senza che si parlasse di guerra economica¸ compreso quando si era avuta nello stesso Venezuela quando era presidente Caldera. Ma soprattutto smonta questa spiegazione campata in aria osservando: “Se ci fosse davvero la guerra economica e fosse certo che tutti gli impresari distruggono volontariamente l’economia del paese, l’unica soluzione possibile sarebbe l’esproprio radicale di tutte queste imprese mettendole sotto controllo statale. Ma senza dubbio gli ideologi della “guerra economica” questa soluzione non la propongono mai e si accontentano di proporre qualche modifica della fiscalità. In poche parole, propongono di “regolare” la guerra economica. Mentre nel frattempo il governo che sarebbe “in guerra” vende dollari a tariffe preferenziali ai capitalisti, gli offre crediti con tasso di interesse reale negativo, gli offre condoni dei debiti, riduce le imposte e stampa molto denaro senza copertura per poi prestarlo a tassi ridicolmente bassi alla borghesia, in modo che questa possa comprare dollari nel mercato parallelo. Guarda che strana “guerra”!.
Queste puntualizzazioni hanno lo scopo di riportare alle misure reali l’esperienza del Venezuela, che è stata positiva soprattutto nei primi anni dopo il 2002, cioè dopo il colpo di Stato fallito e l’inizio della netta radicalizzazione del processo e dello stesso Chávez. L’abbiamo sostenuto per anni senza infierire su alcune contraddizioni del suo pensiero di autodidatta, che avevamo tuttavia segnalato mentre lo difendevamo dalle deformazioni interessate della stampa imperialista. Basta esplorare in ordine cronologico gli articoli cercandoli nella colonna l’America Latina del mio sito. Uno scritto anche precedente è Vite parallele Castro-Chavez, che era apparso nel 2007 su Limes.
Ho seguito il processo con attenzione e simpatia, ma anche con imbarazzo a mano a mano che la crisi si approfondiva e i difetti che avevo osservato in loco già prima della morte di Chávez divenivano più evidenti, provocando un pericoloso arroccamento in alcuni compagni, che giustificavano a ogni costo tutto quel che diceva la propaganda ufficiale del governo venezuelano, senza accorgersi che usava sempre più tecniche e argomenti che avevano accompagnato il triste tramonto del sistema sorto intorno all’URSS. Per un lungo periodo ho taciuto, nonostante le sollecitazioni, ora ho ripreso a leggere (e rileggere) molto di quel che si produce lì e in altri paesi latinoamericani, e mi sono deciso a scrivere più spesso constatando la lontananza tra la realtà percepibile nel dibattito venezuelano e le mitizzazioni arbitrarie di un processo entrato in una crisi profonda, che spero non irreversibile.