di Tommaso Soldini*
Una volta si chiamava Asp, Alta Scuola Pedagogica, poi, forse tardivamente orripilati dal germanismo, l’hanno ribattezzata Dfa, Dipartimento Formazione e Apprendimento. Eppure, che si chiami in un modo o nell’altro, si sa che se ne sta parlando già solo dagli sguardi delusi, irosi e frustrati di chi sta frequentando, in particolare, il master o diploma di abilitazione nel settore medio e medio superiore del cantone Ticino.
In questi anni, mi accorgo, sono stato alla larga dai miei nuovi colleghi freschi di abilitazione. Li ho schivati per due ragioni molto banali ed egoiste: in primo luogo perché non volevo che mi costringessero a sentir riaffiorare le memorie delle interminabili giornate spese nella malinconia di chi avrebbe avuto bisogno di un confronto pragmatico sull’insegnamento e invece doveva assistere, spesso, a commedie dell’assurdo in cui si fingeva che la scuola che verrà fosse già in vigore. Mattine intere trascorse a giocare ai lavori a gruppi, con professori che non vedevano la nostra crescente assuefazione, l’entusiasmo sempre più stanco, finto; lezioni di pedagogia in cui si pretendeva che l’ora lezione esistesse veramente, come se fosse possibile riuscire a conciliare devozione al programma degli studi e capacità di ascolto delle persone che hai davanti, magari adeguando l’insegnamento secondo la predisposizione e i talenti e i ritmi di apprendimento del singolo. Non è solo la società a chiedere sempre di più ai docenti, lo sono innanzitutto le istituzioni come il Dfa, che a volte sembrano preoccuparsi poco del carico di lavoro che un giovane insegnante deve affrontare quando è alle prime esperienze; sembrano più preoccupate di tenere in piedi il sogno di una scuola perfetta, pensata a tavolino, fantasticata.
La seconda ragione per cui, alla parola abilitazione, costringevo il mio corpo a compiere larghi giri in sala dei professori, è che avevo e ho il terrore che, come natura vuole, capitassi di fronte a un felice seguace del socio-costruttivismo in salsa locarnese. Un giovane convinto che tutto sia misurabile, che la valutazione possa essere oggettiva, che i ragazzi vogliano sottoscrivere dei patti pedagogici, salvo poi accorgersi che potranno essere impugnati contro di loro, che la competenza abbia sagacemente sostituito il poco stimabile sapere. Sarebbe stato ancora più intollerabile, perché un conto è avere a che fare con neo-insegnanti sopravvissuti a un corso intensivo di Aspettando Godot, persone di solito sollevate e animate dal sacro fuoco di chi ha visto la morte in faccia; un conto, invece, è scoprire di dover collaborare con docenti ignari che la nota in fondo a un compito in classe è contemporaneamente una traccia d’inchiostro, una macchia, e un passaporto concesso o mancato per un futuro immediato.
A suo tempo gli abilitandi del gruppo di italiano avevano dato vita a una civile ma accorata protesta, per la verità con pochi esiti, se non un incontro con l’allora capo della Divisione cultura, che ci aveva spronati a tener duro, il diploma sarebbe arrivato di lì a breve.
È proprio questo il punto, tener duro, chiudere un occhio, fare buon viso a cattiva sorte sono le espressioni che si sprecano per confortare chi vorrebbe intraprendere nel nostro cantone il mestiere di docente ed educatore delle nuove generazioni. L’ho sempre trovato stomachevole. La formazione per diventare docenti dovrebbe essere un luogo vivo, di incontro con le diverse teorie e pratiche dell’insegnamento, oppure un’officina sempre aperta, uno spazio in cui si pensano e si commentano le lezioni che il giorno dopo troveranno realizzazione.
Il silenzio è sempre stato il responso di fronte a tutte le proteste che sono state mosse nei confronti della scuola di abilitazione; non da ultimo la lettera in cui, apertamente e come una Cassandra, la signora Giulia Zeolla Prinz (Cdt, 8 aprile 2017) denuncia per l’ennesima volta la discutibilità dell’insegnamento e la demotivazione dei candidati, decidendo di rinunciare al diploma.
Anche nel suo caso il dipartimento ha preferito tacere, tener duro e chiudere gli occhi.
Mai un dibattito, mai una presa di posizione, nemmeno quando, qualche anno fa, con il passaggio Asp-Dfa, la scuola è diventata, prima per tutti poi per una parte, un miraggio lontano. Quelli della mia generazione ricevevano almeno, come concreta promessa di liberazione, un paio di classi e una quarantina di studenti con cui farsi le ossa, ragazzi che garantivano un’immediata risposta intorno alla bontà delle nostre lezioni. Erano momenti preziosi, in vista dei quali non si lesinavano ore e ore di preparazione. Ma che soddisfazione quando si scopriva che un racconto di Buzzati poteva suscitare un’adesione solo sperata, che piacere quando Verga strapazzava le loro visioni della donna e dell’amore.
Gli abilitandi di oggi, in particolare quelli per il settore medio, devono pagare una retta, sottostare al medesimo beckettiano insegnamento che ho conosciuto io, ma non hanno una classe loro, non hanno uno stipendio nemmeno magro, non hanno. Gli si promette, all’inizio del primo anno, che in vista del secondo vi sarà almeno la possibilità di insegnare a tempo parziale, di raggranellare qualche soldo e di provare l’ebbrezza di gestire una classe propria.
Tuttavia le cose sono cambiate. Le promesse si sono rivelate bugie.
Ho appena saputo che ad alcuni abilitandi del secondo anno del Dfa non sono state assicurate le promesse ore di insegnamento in settembre. Nemmeno una misera classe, nemmeno la soddisfazione di poter fare i conti con gli allievi senza la presenza di un tutore; nemmeno quei pochi spiccioli da esibire ai genitori per i neo-laureati, ma che ben altro possono rappresentare per chi, magari a quarant’anni, decide di cambiare vita e dedicare il proprio tempo e il proprio sapere alla formazione dei più giovani. È forse questa la categoria più vessata dal Dfa, che sembra prediligere i freschi laureati, guardando con sospetto i dottorati, quelli con due lauree, chi ha svolto un’altra professione per vent’anni. Non esistono vie economicamente sopportabili per questi profili, quasi si voglia ostacolarne l’entrara nella scuola, quasi si pensi che, se hanno abbandonato un’altra professione, debbano essere poco affidabili.
Lunedì mattina un mio conoscente, dopo aver telefonato in dipartimento, ha scoperto che, nell’anno scolastico 2017-2018, non ci sarebbero state ore di insegnamento per alcuni studenti del secondo anno del Dfa. Non solo non si è mantenuta la promessa, dunque; la direzione del Dfa non li ha nemmeno avvertiti, incurante dei loro destini e delle loro situazioni personali. La mancanza di un incarico non è solo un colpo a livello economico, significa anche che queste persone otterrano il diploma di capacità senza aver avuto l’occasione di provarsi sul serio, in modo libero e indipendente, in una classe. Quale eco possono avere i discorsi dei professori di pedagogia o di didattica se non si è avuta la possibilità di chiudere la porta dietro di sé, avvicinarsi alla cattedra e verificare se quello che si sa può trovare il modo di risultare interessante per gli altri?
Non sono in grado di capire come mai la direzione del Dfa e il Decs non siano stati capaci di collaborare e di trovare spazio per i docenti in formazione, lo trovo però grave sia nei confronti delle persone sia perché questa situazione diminuisce ulteriormente il valore di una scuola che non ha mai smesso di suscitare malumori in chi l’ha frequentata.
Credo che una delle poche argomentazioni a difesa della presenza del Dfa in Ticino risieda nella possibilità che si concede agli studenti di entrare presto e con dignità nel mondo della scuola; altrimenti è più sensato assegnare, come capita in molte realtà, alle università il compito di formare i nuovi docenti. Ne hanno i mezzi e le persone.
*Tommaso Soldini, insegnante. Articolo apparso su La Regione lo scorso 28 luglio.