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Intervista di Gloria Muñoz Ramírez a Raul Zibechi

Le code chilometriche, la mancanza di gran parte dei generi di prima necessità, i prezzi impazziti delle merci, la corruzione dilagante dello Stato. Le immagini e i segnali di un Venezuela al collasso sono chiari, evidenti. Il paese ha vissuto per quasi un secolo di petrolio. Inoltre, a differenza di quanto è stato spesso sostenuto in modo confuso, a Caracas non c’è stata alcuna rivoluzione: le classi sociali sono ancora lì e la crisi le colpisce in modo molto differente, c’è un enorme squilibrio tra quartieri ricchi e zone povere.

Eppure, al di là del destino immediato di un governo più che vacillante che non fa alcuna autocritica, c’è una società venezuelana molto viva. Molta gente sa che con l’opposizione al governo la situazione non cambierebbe poi molto, perciò cerca vie d’uscita in autonomia e prova a usare la creatività. La situazione rappresentata dai media è spesso sopra la righe, semplificata, superficiale o falsa. Non tutti i venezuelani sono depressi e c’è una resistenza sociale popolare che non si è affatto arresa. Raúl Zibechi racconta alla rivista messicana Ojarasca il Venezuela che ha visto nelle scorse settimane
Raúl Zibechi, giornalista e analista uruguayano, sostenitore delle lotte e dei processi autonomi in diversi paesi dell’America Latina, parla con Ojarasca dell’attuale crisi che sta vivendo il Venezuela, paese che ha recentemente visitato in compagnia dei contadini della Central Cooperativa de Servicios Sociales de Lara (Cecosesola), rete di 50 cooperative di produzione agricola, di Barquisimeto, una città di oltre un milione di abitanti e capitale dello stato di Lara. Zibechi parla della carenza di cibo e medicinali, delle lunghe code che dominano il paesaggio, della crisi dello Stato, ma soprattutto racconta le esperienze di solidarietà che si costruiscono dal basso. Descrive una società viva, organizzata, molto lontana dalla sconfitta.

Nel tuo recente viaggio in Venezuela, cosa hai visto e cosa hai sentito?
Dal tramonto la gente non esce in strada per paura. Le strade sono poco o per niente illuminate. Circolano poche macchine perché non ci sono pezzi di ricambio. Parliamo di quelle macchine enormi, lunghe, degli anni Cinquanta e Sessanta, come quelle che si vedono a Cuba. Una fila di auto che si snoda di cuadra in cuadra per comprare batterie. Code per comprare cibo. C’è gente che passa giorni interi in coda tanto che questa è diventata la loro principale attività. L’amministrazione pubblica lavora solo il lunedì e il martedì, per risparmiare energia elettrica. Sono immagini di una società collassata. Bisogna immergersi in questa situazione per capirla. Un giorno ho chiesto ai compagni dell’organizzazione (Cecosesola) di fare un tour da est a ovest della città, dal quartiere più ricco al più povero. Nei quartieri ricchi non si vedono code, si vedono edifici nuovi o in costruzione e macchine nuove. Ci sono soldi, mercati e supermercati riforniti. Per la strada passeggiano persone con la pelle chiara e i capelli biondi, come in qualsiasi altra città ricca latinoamericana. Viceversa, nella zona sud manca il cibo, ci sono le code, le case sono fatiscenti, le strade polverose e sporche, circolano auto vecchie, la sensazione di precarietà è immensa. Perché racconto questo? Perché quando sento parlare del concetto di Rivoluzione penso a Cuba. Lì la scarsità di generi di prima necessità è ripartita in maniera più o meno uguale. In Venezuela invece si vede chiaramente che non c’è stata una rivoluzione, che le classi sociali sono ancora lì, che continuano ad esistere quartieri ricchi e quartieri poveri. In quelli ricchi ci sono alberi e giardini, in quelli poveri non c’è verde. La prima immagine è che la situazione economica colpisce in modo differente i vari settori sociali. I poveri soffrono, non ci sono medicine nelle farmacie. Non c’è gas e per trovarne dieci litri bisogna fare code enormi. La produzione e la distribuzione sono collassate. Esattamente il contrario di quello che ci si aspettava da un processo di cambiamento. La popolazione soffre dell’incertezza di trovare o meno quello di cui ha bisogno. Per avere i pannolini bisogna portare l’atto di nascita dei bambini, che ovviamente viene falsificato. E qui emergono tutta la furbizia, il marciume e la meschinità umana, ma anche situazioni molto belle.

Come affronta questa situazione lo Stato e come l’affronta la gente?
Lo Stato ha due atteggiamenti. Da un lato attribuisce la colpa di tutto all’imperialismo, alla destra e ai banchieri (o contrabbandieri). Non c’è autocritica. C’è una pessima gestione delle razioni alimentari per esempio, però di questo il governo non parla, mentre si appoggia alle organizzazioni comunitarie per cercare di migliorare la distribuzione e comincia a affidarsi alla popolazione più o meno organizzata per garantire la distribuzione. Tra la popolazione c’è il cosiddetto contrabbando formica. I grandi contrabbandieri deviano risorse, cibo, cemento, batterie per le auto. In Venezuela tutti questi beni hanno prezzi irrisori, sovvenzionati, perciò i contrabbandieri li portano alla frontiera con la Colombia dove li possono rivendere a prezzi da mercato internazionale. I prezzi sono impazziti. Una sigaretta in strada ha lo stesso costo del pieno di benzina di un serbatoio da 50 o 60 litri. Una bottiglia da mezzo litro di acqua vale come un serbatoio pieno di benzina. La bottiglietta costa 100 bolívares e il serbatoio 70. Lo scarto tra i prezzi del mercato regolare e il mercato nero è di 1 a 20. La popolazione sta sopravvivendo del bachaqueo [parola venezuelana nata in tempi recenti, traducibile approssimativamente con bagarinaggio, infatti fa riferimento alle persone che comprano merci a prezzi regolati dallo Stato per poi rivenderli a prezzi maggiorati, n.d.t.]. Una persona che va al mercato, dopo una coda di ore riesce a comprare quattro chili di farina, ingrediente base per le arepas. Al mercato nero la stessa persona scambia un chilo di farina per “oro”. C’è una logica di abuso in tutto questo. Un chilo di farina nel mercato regolare costa 19 bolívares, dopo molte ore di coda. Al mercato nero costa 1000 bolívares quando il salario minimo sono 18 mila bolívares. Ho frequentato case con famiglie chaviste e antichaviste e tutte ne sono colpite.

Quali altre risposte ci sono dalla gente, ci sono organizzazioni che stanno cercando di rispondere?
Dall’inizio del ventesimo secolo il Venezuela ha vissuto di petrolio. La logica della popolazione è assistenzialista e modificare questa cultura è molto difficile. Si aspetta sempre che lo Stato provveda. Sono stato in cinque cooperative contadine che stanno mettendo in atto alcuni cambiamenti. Per esempio, produttori di patate e carote hanno problemi con le sementi e per far arrivare i propri prodotti al mercato. A volte riescono a riempire un camion di patate ma le guardie li fermano e pretendono soldi per lasciarli passare. I contadini stanno diversificando la produzione per dipendere meno dal mercato, un po’ come le comunità zapatiste. Un altro strumento è lo scambio di prodotti, senza l’utilizzo di soldi. I prodotti controllati sono quelli che si consumano tradizionalmente: farina, pane, zucchero, olio, caffè, pasta. Il ragionamento è: se ci mettiamo a lottare per la farina e la pasta entriamo in guerra, meglio se ci focalizziamo nella produzione e nello scambio di ortaggi e frutta, di minor valore, ma comunque cibo, molto buono oltretutto. Lasciamo da parte i prodotti controllati dallo Stato, che sono quelli che provocano le code e la guerra per concentrarci su frutta e ortaggi. Avere cibo in Venezuela significa avere potere. E quindi che fare? Usare il cibo come strumento di potere o concentrarsi verso altri alimenti fuori dal meccanismo di potere dei contrabbandieri, dei militari, della polizia, dell’opposizione e del governo?

Cosa sta succedendo con la sicurezza nelle strade? Si parla di assalti, violenza, assassinii…
Non ho visto nulla di tutto ciò, anche se in tutto il mondo non si parla d’altro. Quello che ho visto sono code di sei o ottomila persone. Per comprare un prodotto alle sei della mattina la gente comincia a mettersi in coda a mezzogiorno del giorno precedente e passa più di 24 ore in coda. I bagarini controllano le code, si appropriano del territorio, se la gente non li paga non li lasciano fare la coda. Ci sono persone armate e ci sono stati addirittura dei morti. C’è molta tensione. La scarsità di prodotti complica tutto e cominciano ad apparire gruppi criminali che adottano sistemi mafiosi. Riguardo al tema della violenza, ci sono gruppi di professionisti, però anche persone comuni che si approfittano dei bisogni di altre persone; non è gente che ha un passato delinquenziale, solo che si approfittano della situazione. È importante tenere a mente che, oltre alle situazioni problematiche classiche, si creano situazioni spontanee di persone con un’etica molto debole.

L’immagine che trasmettono i media di comunicazione è di un disastro totale, di un crollo.
Sono stato in una cooperativa che si chiama Kennedy, della quale fanno parte 300 persone, la maggioranza dei quali soci. Le cooperative di Cecosesola hanno due caratteristiche. Una è che quelli che ci lavorano si possono prendere la stessa quantità di prodotti del resto della popolazione, in modo che se ad ogni abitante spettano ad esempio due chili di farina anche loro prenderanno la stessa quantità. E l’altra è che vendono prodotti all’intera comunità e non solo ai soci. C’è stato un tentativo di saccheggiare la cooperativa e uno dei referenti anziani dell’associazione racconta che gli appartenenti a questo gruppo erano dell’opposizione. Voglio dire che l’opposizione ne approfitta per generare situazioni di violenza e i media usano questi eventi per dare un’immagine apocalittica della situazione. Ho visto gente comune, non militanti, dire: “No, qui non ci saranno saccheggi”, si mettono davanti alla porta per cercare di dissuadere le persone e molte volte ci riescono. C’è una parte importante della popolazione che non vuole ci sia instabilità.

L’esercito come sta reagendo?
Il comportamento delle forze armate per il momento è rispettoso ma non si sa che decisioni prenderanno nel medio periodo; la situazione pur non essendo apocalittica è comunque grave. Non credo che il regime si stia disfacendo, proprio per niente, i militari sono prudenti. C’è molta corruzione in tutti i settori – governo, opposizione, polizia, esercito, partiti – però tutto sembra più o meno sotto controllo. C’è la volontà da parte del governo e della popolazione, compresi alcuni settori dell’opposizione, di non portare la situazione all’estremo.

Che fattori alimentano la crisi?
La produzione è diminuita chiaramente. Nelle fabbriche nazionalizzate c’è stata una mala gestione e casi di corruzione, però c’è anche un boicottaggio del capitale mondiale per debilitare il processo e provocare la scarsità di merci.

E a livello interno, cosa è successo?
Non c’è autocritica in nessuna maniera. Nell’attuale situazione ci sono maduristi e chavisti. C’è gente che supporta il processo bolivariano però è contro Nicolás Maduro. Se si guarda, per esempio, la pagina di Aporrea, di linea chavista, abbondano le critiche al governo di Maduro. Altro elemento è che in Venezuela non c’è stato un potere popolare, dal basso, con un’etica solida. Nelle comunità zapatiste c’è un’etica forte per la quale si può mettere la mano sul fuoco. Qui invece no, si è dato un processo clientelare e populista. Diversi anni fa Hugo Chávez disse in un discorso: “Se chi ruba lo fa per necessità, non è un male.” Questo ha legittimato comportamenti non etici tra i settori popolari. Tutti sappiamo che il narco nasce nei settori popolari, per questo c’è bisogno di un lavoro di educazione, formazione, sono necessari dibattiti e disciplina, cosa che non si è fatta in Venezuela. Inoltre, bisogna ammettere che una parte del governo e del partito è corrotta. C’è una differenza con il processo rivoluzionario cubano. Si può pensare ciò che si vuole di Cuba, però la direzione del Partito Comunista non dà l’immagine di un partito corrotto. Ci possono essere dei corrotti però non è generalizzato. In Venezuela invece si. Qui c’è un problema etico, che io credo sia la principale spina nel fianco del processo bolivariano. Non si può costruire senza etica. Non si può governare, militare e organizzare senza etica. Per questo gli zapatisti in Chiapas insistono tanto su questo tema e non è una cosa banale. Alcuni credono che discutere di etica sia cosa da sacerdoti, però è fondamentale nella nostra vita. In Venezuela non si è preso in considerazione questo tema e il risultato è stato un processo “viziato” da dentro, per questa logica del “vale tutto”.

La crisi potrebbe generare, almeno in alcuni settori, un processo differente, più dal basso?

Il chavismo in Venezuela non sparirà. È un processo rivoluzionario vero tra la gente comune. Accanto a cose tremende ci sono cose positive, come l’esperienza del Cecosesola. Moltissimi consigli comunitari stanno lavorando molto bene. Questa gente non sparisce e ha la possibilità di continuare a lavorare. Dimostrano che è possibile organizzarsi senza lo Stato. Ci sono reti di scambio, per esempio la gente fa acquisti a livello collettivo di medicinali. Ci sono molte cose che hanno valore. E lì che troviamo il vero valore del processo venezuelano. La crisi è uno spartiacque. Porta alla luce la meschinità di chi gestisce lo Stato. Anche nei settori popolari c’è meschinità, ma ci sono anche cose meravigliose. C’è soprattutto il desiderio di continuare ad essere un popolo che costruisce un popolo. È importante tenerlo presente. Altrimenti rischiamo di credere nella parte piccola e brutta di realtà che rappresentano i media.

Cosa sta nascendo dal basso?
Ci sono media di comunicazione che nonostante ricevano l’appoggio statale, sono sorti al di fuori dello Stato e fanno un lavoro stupendo. Queste iniziative dal basso si rafforzano grazie alla necessità di tornare alle radici e di continuare ad essere gente che si organizza dove è necessario farlo e che non dipende dall’appoggio o dalle risorse statali, pur continuando ad essere chavisti. I settori popolari hanno autonomia culturale e politica, hanno solo bisogno di rafforzarla.

Sta sorgendo un nuovo soggetto politico?
Non ho chiaro se stia nascendo qualcosa, di sicuro è una questione dibattuta. Sta succedendo in Brasile, Argentina e buona parte dell’America Latina. Nonostante la difficoltà quotidiana, i settori popolari continuano a cercare spazi di autonomia per poter rimanere sé stessi, difendendo i propri progetti, che a volte non sono formalmente autonomi ma si vede che sono un’altra cosa, che non passano attraverso il controllo statale, non nascono dall’alto, ma grazie alla costruzione di forme di vita al di fuori del controllo del capitale e dello Stato. Si tratta di progetti locali e territoriali. È una società molto viva, differente dall’immagine che ne danno i media. La società venezuelana è organizzata e attiva. Qui c’è un popolo che ha molte cose da dire e da proporre. La gente sa bene che se l’opposizione prenderà il potere la situazione non cambierà molto, nel senso che continueranno la scarsità di cibo e i problemi. C’è maturità e conoscenza della realtà. La gente non si deprime, sorride, cerca vie d’uscita e soluzioni con creatività. È una società che non si è arresa.

Quale credi sarà l’esito di questa tappa?
Ci sono molti dubbi su ciò che faranno le forze armate ma, indipendentemente da questo, ci sarà un referendum abrogativo (le firme ci sono già) ed è probabile che Maduro lo perda. Ma in pochi anni, tre, cinque, dieci, tornerà con forza un governo popolare. Il chavismo è arrivato per restare. Gran parte della società, per lo meno la metà, si identifica con questo progetto. La gente dal basso risponderà. È probabile che il regime collassi e arrivi un governo di destra, e che in breve tempo ritorni un governo popolare, speriamo meno corrotto. È ciò che sta succedendo in America Latina. Importanti sterzate a destra ci sono state in Argentina e Brasile. Ma la gente ha imparato. I governi progressisti non sono caduti dal cielo, la gente li ha eletti. Il Messico è l’unico grande paese dell’America Latina che non ha avuto un governo popolare, ma nel resto dei paesi questi processi non si dimenticano, perché la gente li ha costruiti e ha imparato a cavarsela.

Tratto da Ojarasca, traduzione a cura di Associazione Ya Basta! Êdî Bese!