di Emida Caspani*
Ho sempre pensato che noi tutti siamo costretti a lavorare perché dobbiamo vivere. Il nostro lavoro (tranne per coloro che detengono patrimoni) è l’unica fonte di sostentamento. Liberare uomini e donne dall’obbligo del lavoro salariato, liberarlo dalle costrizioni ad esso legate, diminuirne il peso e la fatica sono stati, da sempre gli obiettivi di quel che una volta si chiamava il movimento operaio, attraverso la rivendicazione della diminuzione del tempo di lavoro (orario settimanale o sull’arco della vita con la diminuzione dell’èta di pensionamento).
I sostenitori di PV2020 ci dicono ora esattamente il contrario quando portano il loro principale argomento a sostegno dell’aumento dell’età per avere diritto al pensionamento anticipato per la maggioranza della popolazione, le donne. Ci dicono infatti che esso si giustifica di fronte ad “un chiaro aumento dell’aspettativa di vita”. Detto in altre parole: siccome si vive più a lungo deve essere allungato l’obbligo di lavorare
Un ragionamento inaccettabile se si pensa concretamente a quanto succede oggi nel mondo del lavoro, in particolare nelle professioni dove sono più presenti le donne – visto che sono loro, almeno in questa tornata – ad essere chiamate a questo sacrificio.
Si tratta di attività pesanti, che spesso necessitano di lunghi periodi in piedi, nei quali è necessario un lavoro di contatto e di “ascolto” non indifferente, attività di “servizio” estremamente importanti per la nostra società. Penso, ad esempio, al settore della vendita; oppure a tutto il settore di cura (infermieri, assistenti di cura, ausiliarie di cura, etc.). Tutte professioni nelle quali già la normale attività “in carriera” è spesso insopportabile: non a caso, ad esempio, la professione di infermiera conta una altissimo tasso di lavoratrici a tempo parziale che hanno optato per questa opzione proprio per il carico di lavoro.
In una recente lettera apparsa su un quotidiano, una assistente di cura, affermava “Il mio lavoro è molto fisico. Devo spesso sollevare carichi pesanti, ad esempio quando devo spostare dei pazienti…come me, molte mie colleghe soffrono di problemi fisici e non ce la fanno più. In queste condizioni, andare in pensione a 64 anni non è un lusso e poter approfittare di un anno di pensione in più è importantissimo…”
Ebbene, a queste donne, che spesso hanno cominciato a lavorare prima dei vent’anni, si dice che 44, quando non 45 o 46 anni di lavoro, e di questo lavoro a cui ho accennato, non bastano: i sostenitori di PV2020 dicono loro che bisogna dare ancora di più, un anno di lavoro – quasi 2’000 ore, per poter aver diritto, e sottolineo il diritto, di andare in pensione.
A me pare che queste donne (così come tutte le altre donne che, non dimentichiamolo, anche quando non sono salariate svolgono ogni giorno un lavoro fondamentale nell’ambito dell’economia domestica e del lavoro di cura) si siano ampiamente meritato il diritto di andare in pensione.
Per questo dobbiamo votare due volte NO il prossimo 24 settembre.
* Copresidente del comitato ticinese contro la revisione della previdenza vecchiaia 2020