Tempo di lettura: 6 minuti

di Teresa Rodríguez e Miguel Urbán*

Il referendum del 1° ottobre non è una questione che riguarda solo i popoli dello Stato spagnolo, o al massimo alcuni paesi in cui la questione delle nazionalità e dei loro rapporti con lo Stato centrale è maggiormente sentita. È una questione che riguarda la democrazia in Europa. Varrebbe la pena di dedicarci maggiore attenzione. Cercheremo di farlo, pubblicando prossimamente anche altri interventi di taglio diverso. (Antonio Moscato)

«Il PP [Partido Popular] si appella al Costituzionale contro lo Statuto catalano per impedire un “danno irreparabile”». Così il 1° agosto 2006 titolava «El País» a proposito del ricorso al Tribunale costituzionale presentato dai dirigenti di questo partito contro la riforma dell’Estatut votata dal Parlament catalano, poi parzialmente amputata dal Parlamento spagnolo e infine approvata da un referendum in Catalogna. La risoluzione del Tribunale costituzionale sarebbe così arrivata quattro anni dopo [nel 2010], annullando 14 articoli dell’Estatut e interpretandone in modo restrittivo altri 27. Rajoy, Acebes e Sáenz de Santamaría [1], anche se non pienamente soddisfatti, applaudivano questa decisione, mentre [José Luís] Rodríguez Zapatero, allora presidente del Consiglio, constatava come questo fatto provocasse «la fine della decentralizzazione politica»

Non poteva dunque sorprendere il fatto che pochi giorni dopo, il 10 luglio 2010, le strade di Barcellona venissero percorse da una manifestazione che, all’insegna della consegna Som una nació: Nosaltres decidim [Siamo una nazione, decidiamo noi], esprimeva l’indignazione popolare per la sentenza. L’aver chiuso la porta a una riforma federalistica dello Stato delle autonomie, in Catalogna ebbe come conseguenza lo sviluppo di un movimento sovranista e indipendentista molto più ampio e pluralista di quello esistente prima, che incorporò addirittura una formazione come Convergència [2], partito che sino ad allora era stato uno dei pilastri necessari alla governabilità del regime, peraltro colpito – come si è potuto constatare poi – da diversi scandali legati alla corruzione. Formazione che comunque, contrariamente ad alcune analisi interessate di opposte provenienza, costituisce solo una parte, né maggioritaria né egemonica, del movimento indipendentista.

La convocazione per il prossimo 1° ottobre da parte del Govern de la Generalitat [3], con l’appoggio della maggioranza del Parlament, di un referendum, il cui quesito è «Volete che la Catalogna sia uno Stato indipendente di forma repubblicana?», è in realtà la risposta al “danno irreparabile” che il PP ha inferto al popolo catalano con il suo ricorso al Tribunale costituzionale. Ed è anche molto probabile che oggi molti e molte dirigenti del PP riconoscano in privato come questo ricorso – e, soprattutto, la campagna che vi è stata orchestrata attorno – sia stato un errore, perché ha finito con l’essere il principale responsabile, contribuendovi in modo decisivo, dell’ascesa dell’indipendentismo nel corso di questi ultimi anni.

Tuttavia, nonostante l’immediata reazione della cittadinanza a quella che Javier Pérez Royo [4] ha definito una «rottura del patto costituzionale» derivata dalla sentenza citata, da quando il PP è giunto al governo nel novembre 2011 (dopo, ovviamente, la controriforma exprés dell’articolo 135 della Costituzione [5]), non si è fatto alcuno sforzo per impostare un nuovo tavolo di confronto, come invece aveva raccomandato lo stesso Tribunale costituzionale in un’altra sentenza del maggio 2014. Al contrario: la difesa fondamentalista della lettera della prima parte dell’articolo 2 della Costituzione («La indissolubile unità della Nazione spagnola, patria comune e indivisibile di tutti gli spagnoli», dettata dalla gerarchia militare nel 1978) è sempre stata l’argomentazione ricorrente, accompagnata da una nuova tendenza al ricentralizzazione politica e finanziaria, oltre che da attacchi alla lingua catalana con alla testa il tristemente famoso ministro dell’Interno Fernández Díaz.

Nel frattempo, in tutti questi anni in Catalogna si sono succedute le manifestazioni, pacifiche e partecipatissime, e il 9 novembre 2014 si è avuta una consultazione popolare che, benché non riconosciuta dallo Stato, ha visto prendervi parte più di due milioni di persone. La malriposta speranza che il movimento cedesse alla frustrazione e alla divisione di fronte alla netta chiusura del governo – che ha goduto del sostegno del sempre più bellicoso sistema dei media e dei capi di Stato europei – si è risolta in un completo insuccesso.

Ma nemmeno la timida apertura del PSOE di Pedro Sánchez al riconoscimento della “plurinazionalità” ha trovato sufficienti appoggi in Catalogna, al punto che la posizione di Sánchez s’è modificata, virando verso la chiusura di Rajoy quando ha definito “illegale” il referendum e ha lasciato aperta la porta al sequestro delle urne da parte della polizia. Il problema non è quello di trovare il modo di “incastonare” una nazione culturale in una nazione politica spagnola, ma quello del riconoscimento su un piano di parità delle identità nazionali catalana, spagnola e delle altre nazionalità, a cominciare da quelle già riconosciute dalla Costituzione in vigore: galega, basca e andalusa. Nella stessa società spagnola è in aumento, soprattutto fra chi ha meno di 45 anni, la percentuale delle persone favorevoli a consentire il referendum catalano, così persistentemente e massicciamente rivendicato. Si tratta di un progresso molto significativo che, in buona parte, è dovuto all’azione politica di una forza come Podemos.

Non si deve poi lasciarsi travisare da coloro che squalificano, con le accuse peggiori, i milioni di persone che in tutti questi anni non hanno cessato di rivendicare il diritto a decidere del loro futuro, indipendenza compresa. Ormai tramontate la soluzione federalistica dell’Estatut e l’ottenimento di un referendum patteggiato con lo Stato – com’è avvenuto nei casi del Quebec e della Scozia – da un punto di vista democratico non resta che riconoscere la legittimità della convocazione del referendum del prossimo 1° ottobre e che siano i cittadini catalani a decidere se vogliono o meno separarsi dallo Stato spagnolo per poter, come sarebbe auspicabile, stabilire in seguito un nuovo tipo di rapporto, fondato sulla volontà e non sulla forza, fra tutti i popoli dello Stato spagnolo.

Riteniamo, peraltro, che il nostro appoggio è in coerenza con quanto si diceva nel Manifesto di fondazione di Podemos alla vigilia delle elezioni europee del maggio 2014:

Una lista che, di fronte a governi al servizio della minoranza dell’1%, rivendichi una “democrazia reale” fondata sulla sovranità dei popoli e sul loro diritto a decidere liberamente e solidalmente del proprio futuro. La democrazia non fa paura, a noi democratici e democratiche, e ci rallegra il fatto che scozzesi e catalani possano discutere e dire quale futuro desiderano. Pertanto, che si appoggi la consultazione organizzata in Catalogna per il 9 novembre.

A differenza di “quelli di sopra” che vedono nel referendum del 1° ottobre una sorta di cataclisma, noi, “quelli e quelle di sotto”, dovremmo vedervi un momento improrogabile di ricostruzione democratica, di ridefinizione delle logiche di partecipazione politica fra eguali. Perché siamo convinti che la realizzazione libera e con tutte le possibili garanzie del referendum del 1° ottobre, e non la sua proibizione, contribuirà – qualunque sia il suo risultato – ad approfondire la democrazia e rappresenterà uno stimolo per tutti noi che, fuori dalla Catalogna, continuiamo a puntare sul diritto a decidere di tutto ciò che riguarda le nostre vite e le nostre libertà, contro il regime e la troika. È arrivato il momento di liberarci dalle catene della transizione del 1978, giustificato con il “rumor di sciabole”. E la prima di queste catene è il modello di Stato, e chissà che dopo non arrivi il tempo di altre, come la fine del regime del silenzio e dell’impunità dei crimini del franchismo, la necessità che i diritti sociali come la casa e il lavoro siano effettivi e obbligatori per i poteri pubblici, o che la successione alla testa dello Stato cessi di essere ereditaria [6]. Vogliamo spezzare catene, certo. Ma se il governo del partito più corrotto d’Europa ha deciso, con la connivenza del non tanto nuovo PSOE di Sánchez, di mettere le catene ai seggi elettorali e di sequestrare le urne, in una vergognosa scimmiottatura della dittatura orwelliana, che per lo meno questo non avvenga in nostro nome, né in quello della democrazia.

*Teresa Rodríguez è deputata di Podemos nel Parlamento andaluso. Miguel Urbán Crespo è eurodeputato di Podemos

Note del traduttore

[1] Dirigenti del PP, allora all’opposizione: Mariano Rajoy era presidente del partito, Ángel Acebes ne era il segretario generale, mentre Soraya Sáenz de Santamaría si occupava dell'”ordinamento territoriale”.

[2] Convergència i Unió (CiU) nasce nel 1978 come coalizione elettorale fra due partiti, la liberale Convergència Democràtica de Catalunya (CDC) e la democristiana Unió Democràtica de Catalunya (UDC), per diventare poi una federazione di partiti nel 2001. La federazione è stata a lungo egemonica in Catalogna, fungendo a livello nazionale da ago della bilancia, appoggiando volta a volta sia governi socialisti, sia governi del PP, ottenendo in cambio vantaggi non indifferenti per la Catalogna (e il suo elettorato). Nel 2015 la federazione è stata sciolta in seguito all’orientamento filoindipendentista assunto dalla CDC e non condiviso dalla maggioranza dell’UDC. Nel 2016 la CDC si è trasformata nel Partit Demòcrata Europeu Català (PDeCAT), mentre l’UDC veniva praticamente sciolta nel 2017.

[3] Generalitat, denominazione d’origine medievale, indica il sistema politico catalano nel suo complesso: Parlamento, governo, esecutivo ecc.

[4] Giurista, ha tra l’altro contribuito alla stesura dell’Estatut catalano del 2006.

[5] Si tratta dell’introduzione di limiti “costituzionali” alla spesa pubblica (stabilità finanziaria per limitare il deficit). La modifica costituzionale è stata votata solo dal PP e dal PSOE.

[6] Ovvio riferimento alla forma monarchica dello Stato spagnolo.

Titolo originale: Del “daño irreparable” al 1-O. Il testo è stato pubblicato il 13 settembre 2017 sul quotidiano di Barcellona «La Vanguardia» ed è stato ripreso dal sito di «Viento Sur»: http://vientosur.info/spip.php?article12997 Traduzione dal castigliano di Cristiano Dan.