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di Jaime Pastor

Dopo esserci stancati di sentire e leggere accuse tanto dure come “sedizione, insurrezione, colpo di stato, nazismo…”, alle quali si sono sommati il discorso di guerra di Felipe VI e ora dell’oligarchia finanziaria, oltre a veterani e sinistri personaggi del PSOE come Alfonso Guerra, la minaccia di una nuova escalation nella repressione del blocco sociale e politico indipendentista sembra essere imminente.

Se le grandi banche con sede in Catalogna hanno deciso di passare all’attacco in piena regola, il monarca (al quale mancava solo l’uniforme militare) ha confermato, nel caso ci fosse qualche dubbio, il suo allineamento con l’estrema destra del PP e il suo annuncio della ferma volontà del regime di ricorrere a tutta la forza necessaria per sconfiggere la rivoluzione democratica e pacifica catalana. Arrivano, dunque, dopo la sospensione della sessione parlamentare [del parlamento catalano, ndt] del 9 ottobre da parte del Tribunale Costituzionale sotto richiesta del Partito Socialista Catalano, momenti decisivi prima della possibile dichiarazione d’indipendenza in data ancora da determinare, senza che, a giudicare dalle reazioni di Rajoy e del re, abbiano avuto molto seguito le proposte di mediazione internazionale sorte in questi giorni.

E’ evidente che il referendum non è stato celebrato con tutte le garanzie desiderabili per via delle misure di qualunque tipo impiegate da parte dello Stato Spagnolo, ma è altresì certo che nonostante queste condizioni di intimidazione repressiva crescente, come hanno riconosciuto osservatori internazionali, più di due milioni di persone hanno votato e che una maggioranza schiacciante si è espressa a favore dell’indipendenza. Come giustamente sostiene in un’intervista pubblicata sulla pagina web critic colui che è stato il presidente della Commissione Elettorale alla fine sciolta, Jordi Matas: “Mi piacerebbe sapere in quale paese al mondo, con una repressione tanto dura e con minacce come quelle che ci sono state il primo ottobre, ci sarebbe una partecipazione come quella che c’è stata qui.”
Bisogna anche riconoscere che non si è superato il 50% degli aventi diritto al voto, ma è ugualmente difficile affermare che dei 3 milioni di persone che avrebbero potuto aggiungersi votando in un referendum legale con tutte le garanzie, la maggioranza avrebbe votato No all’indipendenza. Su questo punto, una volta ancora, l’unico modo per saperlo in maniera chiara sarebbe attraverso di un referendum concordato, ma questo è ciò che il blocco di potere e il tripartito che sostengono il regime continuano a negare.

Una rivoluzione democratica

Dallo scorso 20 Settembre e, dopo, di fronte alla violenza dispiegata dalle forze del (dis)ordine spagnole durante lo svolgimento del referendum del primo ottobre, una vera rivoluzione democratica non ha smesso di estendersi per tutto il territorio e in settori sociali molto differenti, come abbiamo potuto constatare con lo sciopero generale e sociale del 3 ottobre. Delle giornate che, inoltre, sono state accompagnate da avanzamenti significativi nel processo di autorganizzazione, resistenza non violenta, e empowerment popolare, che vanno molto oltre ciò che rappresentano l’Assemblea Nazionale Catalana, Omnium e altre organizzazioni sociali e cittadine.
Il timore del regime non è dovuto solo alla sfida portata avanti da alcune élite politiche, ma alla consapevolezza di scontrarsi anche con un movimento popolare con un chiaro approccio di rottura e per cui la Costituzione del 1978 non ha già più alcuna legittimità. A maggior ragione quando questa “comunità politica in resistenza” (come l’ha definita David Fernandez) si considera rafforzata dalle critiche ricevute dal governo Rajoy su scala internazionale per via della azioni repressive e violente durante la giornata del primo ottobre.

Detto ciò, questa battaglia vive in un contesto in cui c’è un enorme differenza tra il processo destituente catalano, e il blocco istituzionale e di scarsa mobilitazione sociale e politica che si vive nel resto dello Stato, salvo mobilitazioni come quelle in Euskal Herria e Galizia. Perché, se è vero che ci sono state azioni di protesta in molti luoghi contro gli attacchi a libertà e diritti sofferti in questi giorni, dall’altro lato è obbligatorio constatare che il nazionalismo spagnolo dominante ha ripreso una nuova e pericolosa forza tra alcuni strati della popolazione, costringendo sulla difensiva le forze democratiche e di rottura fuori dalla Catalogna.
Anche questa è la grande differenza tra la contrapposizione che si è imposta in catalagno tra democrazia e autoritarismo – al di là del sì o del no all’indipendenza – e la contrapposizione che il regime e i grandi mezzi di comunicazione cercano di imporre nel resto dello Stato tra nazionalismo spagnolo e nazionalismo catalano.

Il nazionalismo spagnolo torna in piazza

In effetti, se l’indignazione in Catalogna si manifesta nel rifiuto a ciò che si considera ingiusto da parte dello Stato Spagnolo sul proprio diritto a votare e sulla propria resistenza non violenta, tra la popolazione spagnola sta invece aumentando un risentimento identitario da parte dell’estrema destra annidata dentro il PP, con Aguirre e Aznar in testa, o in altri gruppi apertamente di ultradestra. Il grido di “a por ellos!” [una sorta di “Prendeteli tutti!”, ndt] per salutare le forze di polizia e guardia Civil in partenza per la Catalogna visto in diverse città, è una delle manifestazioni più tristi di una “catalanofobia” che, disgraziatamente, ha delle profonde radici storiche. Ricordiamo, per esempio, ciò che ha scritto Manuel Adraña nel luglio del 1937: “Un mio conoscente mi assicura che è una legge della storia di Spagna la necessità di bombardare Barcellona ogni 50 anni. Il sistema di Felipe V era ingiusto e duro, ma solido e comodo. È durato per due secoli”. Un commento che, d’altra parte, è stato ripetuto con tono ironico da un dirigente socialista ora deceduto, Gregorio Peces Barba, quando il 27 ottobre 2011 dichiarò: “non so quante volte è stato necessario bombardare Barcellona. Credo che questa volta si risolverà senza farlo”.

Torna così in primo piano un nazionalismo spagnolo che ha una storia lunga e che, se escludiamo parzialmente la Seconda Repubblica e gli anni 1976-1980 nella lotta comune contro il franchismo, si è sempre costruito in termini reazionari contro i nazionalismi periferici, a partire soprattutto dal disastro del ’98. Il massimo a cui sono arrivate alcune delle varianti dello stesso è stato offrire formule come “nazione di nazioni”, riaffermando sempre la superiorità della nazione spagnola davanti alle altre identità nazionali, ridotte esclusivamente alla loro dimensione culturale. Per non parlare della rivendicazione opportunista di un “patriottismo costituzionale” alla Habermas, che per un periodo è arrivato a utilizzare persino il PP che si limitava alla difesa del concetto essenzialista della nazione spagnola vigente nella costituzione del 1978.

Perciò non c’è da sorprendersi che di fronte alla mal denominata sfida catalana, stia risorgendo adesso con forza la variante più aggressiva del nazionalismo spagnolo, quella di un’estrema destra, ora con Aznar in testa, disposta ad appoggiare il ricorso all’articolo 8 della costituzione, invocato recentemente dalla Ministra della Difesa. Un ultranazionalismo che da tempo si manifesta con forza in ambiti come quello sportivo e che continua ad avvantaggiarsi dell’assenza di una rottura con elementi e luoghi di memoria vincolati all’eredità franchista, così come, soprattutto, della mancanza di volontà della maggioranza della sinistra spagnola di opporre un’altra idea di nazione spagnola, compatibile con il riconoscimento in condizioni di uguaglianza delle altre nazioni esistenti dentro questo stato.
Così si comprende che questo fronte sia cresciuto nell’ombra di una socializzazione politica di generazioni successive attorno a un’idea di Spagna che non ha dedicato alcuno sforzo nel conoscere la storia, la cultura e la lingua delle nazioni periferiche. Piuttosto, è successo l’opposto, come mostrano bene le nuove serie storiche mandate in onda da televisioni pubbliche e private.

Corriamo quindi il rischio che nei prossimi tempi sì scateni una dinamica di scontro tra popoli interessata, fomentata dallo Stato giacché, come metteva bene in guardia anni fa Amin Maalouf, “la gente è solita riconoscersi nell’appartenenza più sotto attacco (…). Questa appartenenza (…) Invade quindi l’intera identità. Coloro che la condividono si sentono solidali, si aggrappano, si mobilitano, sì fanno coraggio tra loro, inveiscono contro chi hanno di fronte”.

Per i nostri diritti e libertà, per la rottura democratica

Tuttavia, nonostante la distanza e l’incomprensione del movimento democratico che si sviluppa in Catalogna, in ampi strati popolari dello stato spagnolo rimane viva l’opposizione netta ai tagli di diritti e libertà che Mariano Rajoy, alla testa di un PP corrotto, ha messo in atto con maggiore intensità del suo predecessore, Zapatero, dal suo ritorno al governo nel 2011. Ed è questa volontà di lotta comune per i diritti e le libertà sottratte che dovrebbe aiutare a tendere ponti tra i popoli di tutto lo Stato di fronte a un regime, con Felipe VI in testa, disposto a imporre uno stato di eccezione permanente in Catalogna e che, se sarà efficace, sarà senza dubbio utilizzato come minaccia di fronte a qualsiasi forma di protesta e dissenso in altre parti dello Stato.

Per questo sarebbe importante che dalla Catalogna le forze sovraniste e indipendentiste riaffermassero in momenti come questo un messaggio simile a quello che suggeriva loro Tony Domenech, recentemente scomparso, in un articolo pubblicato nel marzo 2014, in cui faceva appello alla fraternità repubblicana tra i popoli di fronte a un regime monarchico corrotto. Perché se la Spagna si rompe è perché questo regime non riconosce il legittimo diritto a decidere del popolo catalano e tenta di impedirlo con la violenza.
Va evitato lo “scontro tra popoli”, come si diceva nel Manifesto promosso da madrileñ@s per il diritto a decidere e come si sta dicendo in altre iniziative simili. Oggi è un dovere ineludibile comprendere da un lato e dall’altro che possiamo e dobbiamo condividere l’aspirazione comune a esercitare le nostre libertà e i nostri diritti, di fronte all’escalation repressiva dello Stato Spagnolo e al suo rifiuto di riconoscere il diritto a decidere dei popoli. E’, inoltre, la condizione necessaria per impedire una chiusura dall’alto della crisi del regime e per continuare a tenere aperto un orizzonte di rottura democratica costituente, repubblicana, e contro l’austerità.