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di Jaime Pastor*

A seguito della ferma decisione del regime tripartito (Partito Popolare, Ciudadanos, Partito socialista operaio spagnolo-PSOE), con re Filippo IV in testa, di dare l’interpretazione più dura, e nel contempo la più discutibile, dell’articolo 155 della Costituzione (1), siamo ormai entrati irrimediabilmente nei giorni decisivi, in termini di rapporti di forza, per la prova di forza che, ormai da qualche anno, si è concretizzata nella rivendicazione maggioritaria del popolo della Catalogna, vale a dire quella della rivendicazione del diritto legittimo di decidere del proprio avvenire.

In effetti, proponendo di fatto di delegare a Mariano Rajoy la presidenza della Catalogna, di sciogliere il Parlament catalano in modo da poter convocare nuove elezioni e di mettere sotto il proprio controllo la polizia regionale (Policia de la Generalitat de Catalunya-Mossos d’Esquadra) e i media – oltre a tutta un’altra serie di misure-, il regime mira di fatto a porre fine all’autonomia catalana. Inoltre, questa strategia, come scriveva recentemente Javier Perez Royo (2), ha come obiettivo di mettere un punto finale al nazionalismo catalano come opzione politica legale. Possiamo poi aggiungere: e ad ogni opposizione al regime, avendo come uno dei bersagli privilegiati un forza politica come Unidos Podemos.
È quanto già stato annunciato dai portavoce del PP, come Garcia Albiol [sindaco di Badalona fino al 2015 e presidente del Gruppo popolare nel parlamento di Catalogna] e Pablo Casado [membro del PP e vice-segretario incaricato della comunicazione]. Non hanno avuto nessun ritegno ad estendere la minaccia di divieto alle forze politiche repubblicane o, semplicemente, ad includere nel loro programma tutta una serie di proposte che vanno apertamente contro la Costituzione. È a questo che siamo confrontati: un nazionalismo-costituzionalista spagnolista e militante. È per questa ragione che sarebbe un grave errore considerare questo come un semplice conflitto catalano.
Questa decisione – che sarà sicuramente approvata, il 27 ottobre, da un Senato a maggioranza assoluta PP [il PP detiene 148 seggi su 266]) – è stata preceduta dall’incarcerazione “preventiva”, con l’accusa del crimine di “sedizione” (passibile di 15 anni di prigione), di Jordi Sanchez (presidente dell’Assemblea nazionale catalana) e di Jordi Cuixartì (presidente dall’associazione Omnium Cultural), dirigenti delle due grandi organizzazioni sociali che hanno organizzato le più grandi manifestazioni in favore del diritto di decidere svoltesi in Catalogna a partire dal 2012.
Poco tempo dopo, il Tribunale costituzionale (TC) ha giudicato illegale la legge sul referendum approvata dal Parlament (catalano), che la fondava, come è d’uso in questi casi, sugli articoli 1 e 2 della Costituzione (“l’autonomia” -in sintesi- non è la “sovranità”, TC dixit). Si tratta di una dimostrazione supplementare che ogni promessa di riforma costituzionale che non rimetta direttamente in discussione questi articoli non potrà mai aprire la via a un reale patto federale tra i popoli (3).
La risposta dalla Catalogna non si è fatta attendere: la manifestazione del 21 ottobre, per la libertà dei due “Jordis”, si è anche trasformata in una indignata denuncia di massa della decisione del Consiglio dei ministri di applicare l’articolo 155 della Costituzione, riaffermando al contempo volontà di centinaia di migliaia di persone (450’000 secondo la polizia) di disobbedire a quel che viene percepito come un autentico stato d’urgenza e uno smantellamento delle loro istituzioni autonome (di auto-governo). In sintesi, si tratta di un colpo portato alla democrazia; si tratterebbe insomma di un ritorno al 1977, ancora prima dell’instaurazione della Generalitat che, oggi, ha quarant’anni.
Detto questo, la cosa più grave è rappresentata dall’allineamento completo al regime, con il sostegno delle grandi potenze economiche dell’IBEX 35 [indice della Borsa di Madrid] e dei principali dirigenti dell’UE, un regime che ha ricevuto anche il pieno sostegno della nuova direzione del PSOE (Pedro Sanchez). Sono così vanificate le illusioni generate dalla sconfitta elettorale interna del felipismo [allusione alla sconfitta di Susana Diaz sostenuta da Felipe Gonzales in occasione delle primarie in seno al PSOE, nel maggio 2017] e il cambiamento nella prima fase successiva alla sua elezione di Pedro Sanchez, attraverso il suo timido riconoscimento della plurinazionalità di fronte al nazionalismo spagnolo monocorde ed esclusivo di Rajoy.
Ancora un volta, in seno al PSOE, la “s-ragione di Stato” si è imposta sulla ragione democratica. Fino a poco tempo fa, la difesa di alcuni dei suoi dirigenti catalani si esprimeva almeno nella maniera seguente: siamo in favore in un referendum consultivo. Fortunatamente, non ci è voluto molto per vedere le prime critiche emesse da responsabili pubblici del PSC (Partito socialista di Catalogna) di fronte ad una decisione che implicherà certamente una decomposizione di questo partito in Catalogna e la sua identificazione, nel resto dello Stato, con il PP, con Ciudadanos il cui mordente ultranazionalista non ha più bisogno di travestirsi da liberale e, soprattutto, un’identificazione con quello che implicherà la sepoltura di uno Stato autonomo, già agonizzante.
“”Qué volen aquesta gent?”, ha domandato Maria del Mar Bonet [pluripremiata cantautrice folk in catalano] in occasione della manifestazione di sabato 21 ottobre a Barcellona. Ha ripreso così una canzone di circa 40 anni fa e l’ha intonata per denunciare la repressione poliziesca avvenuta il giorno del referendum del 1° ottobre a Barcellona. Se, all’epoca, la dittatura franchista si appoggiava alla forza brutale per impedire il progresso della nostra lotta comune per le libertà, pare evidente, oggi, che molti eredi di questo regime vogliano tornare indietro nel tempo in modo da lasciare la democrazia in sospeso… In vista di seminare la disperazione tra quei milioni di persone che, in Catalogna, continuano a scommettere sulla disobbedienza civile e istituzionale di fronte a un regime e a uno Stato che considerano già come illegittimi.
Noi sappiamo che in questo confronto il rapporto di forze tra i due blocchi è assai ineguale. Ma quelli che cantano oggi la vittoria dello Stato devono sapere che la trasformazione della cittadinanza catalana in un soggetto (di questo Stato) si scontra con un movimento popolare che ha già dimostrato la sua enorme capacità di resistenza e di auto-organizzazione il 1° ottobre scorso e, di nuovo, il 3 ottobre. Il governo (govern) e il parlamento (parlament) saranno all’altezza delle esigenze di questo movimento raccogliendo la sfida ed avanzare nel senso della Repubblica catalana, aprendo così un processo costitutuente democratico e partecipativo? Sapremo generare un ampio movimento di solidarietà (nelle altre regioni autonome) e di convergenza nelle nostre lotte comuni per le libertà, la democrazia e il diritto di decidere?
Non sarà facile rispondere a queste domande, ma come i nostri referenti classici l’hanno già scritto, “l’unica certezza è nella lotta” . In questa prospettiva, si tratta di, o mettere fine alla crisi del regime dall’alto, oppure, al contrario, di approfondire la crepa che ha aperto il ciclo di proteste più intenso e prolungato che si è sviluppato dagli ultimi anni del regime di Franco in Catalogna e in tutto lo Stato.

* articolo pubblicato 22 ottobre 2017 sul sito di Viento Sur. La traduzione in italiano è stata condotta a partire dalla versione francese del testo apparso sul sito www.alencontre.org alla cui redazione si devono le precisazioni tra parentesi quadre.

1) Xavier Arbos, “El 155 no permite covocar elecciones en Cataluña”, El periodico, 20 ottobre 2017.
2) Javier Perez Royo, “La c astracion del nazionalismo catalan”, eldiario.es, 20 ottobre 2017.
3) Come ha ben argomentato l’ex-ministro socialista della Giustizia Francisco Caamaño (“Presentacion”, in Daniel Guerra (ed.), El pensamiento territorial de la Segunda Republica espanola, Athenaica, Siviglia, 2017.