di Carolina Gregori
La Higuera, 9 ottobre 1967. Cinquant’anni dal giorno in cui Ernesto Guevara fu assassinato.
Il suo nome e il suo volto sono stati richiamati, nel corso della storia, infinite volte: nelle lotte studentesche ed operaie, nelle rivolte di molti popoli oppressi e in tante occasioni di antagonismo sociale e politico.
Eppure il suo messaggio rivoluzionario, le sue idee e le sue teorie incutono ancora un timore tale che l’ideologia dominante ha bisogno di rifilarci, sempre più spudoratamente, l’immagine “glitterata”, il mito sbiadito, l’icona pop di un uomo che dedicò la sua vita, fino all’estremo sacrificio, alla difesa degli oppressi, alla creazione dell’uomo nuovo – dell’uomo comunista – e al rifiuto eroico dell’imperialismo, del capitalismo e dello sfruttamento, in un’ottica socialista ed internazionalista.
Dunque, è giunto il momento di ripulire dalle scorie del revisionismo borghese una delle figure più importanti e significative della nostra lotta e capire quanto dell’elaborazione teorica e dell’esempio rivoluzionario di Guevara, oggi, ci resta.
Se vogliamo essere marxisti, anzitutto occorre indagare il legame indissolubile che lega Guevara all’eredità teorica, culturale e spirituale dell’America Latina: studiare le radici e le esperienze rivoluzionarie avvenute in quella terra, martoriata dall’imperialismo, significava gettare le basi per il futuro, guardandosi bene dall’esportare un’esperienza rivoluzionaria particolare in una realtà in cui le condizioni oggettive e soggettive imponevano una prassi e un metodo diverso, ma tenendo sempre a mente che, come esistono in ogni rivoluzione dei fattori peculiari, allo stesso modo esistono fattori comuni a tutti i popoli d’America e del mondo.
Già in Messico, infatti, il Che studiò attentamente Martì, di cui ammirava “l’etica del sacrificio”, la visione umanista, l’antimperialismo tenace e l’internazionalismo marxista. Ed in effetti per Guevara fu più difficile che per Martì scoprire e sostenere la tesi internazionalista, in un momento storico in cui le borghesie di ciascun paese divenivano scioviniste e il movimento comunista latinoamericano accantonava l’internazionalismo e stringeva rapporti privilegiati con la borghesia del proprio paese. Per questo la riscoperta dell’internazionalismo da parte del Che è fortemente innovativa, e non a caso aspramente contestata anche a Cuba dal gruppo stalinista di Escalante, che, come si diceva a Mosca, chiamava Guevara “il trotzkista”. L’internazionalismo del Che nasce dal sentire la comunanza di interessi tra gli sfruttati del mondo, oppressi dallo stesso modo di produzione, dalle stesse multinazionali e dal medesimo imperialismo, ma è mosso anche da una profonda motivazione etica: «Di fronte all’internazionale dello sfruttamento e dell’assassinio [quello operato dal capitalismo su scala globale], all’internazionale dell’imperialismo e dei suoi servi […] non si tratta di augurare successi all’aggredito, ma di assumersene il destino, seguendolo nella vita o nella morte›› (E. Guevara, Messaggio alla Tricontinentale). Un internazionalismo basato sull’interconnessione tra diversi fronti mondiali, fronti sui quali il capitalismo e la borghesia combattono unitariamente, e a cui bisogna rispondere unitariamente, tutti, senza confini nazionali e con la sola bandiera del socialismo. Una necessità materiale, dunque, ma anche un profondo sentire etico, come dimostra la frase di Martì che Guevara scrisse nella lettera d’addio ai figli: «Siate sempre capaci di sentire nel più profondo di voi stessi ogni ingiustizia commessa contro chiunque in qualsiasi parte del mondo: è la qualità più bella di un rivoluzionario››.
È inoltre significativo che proprio l’argentino ricordò alcune figure di rivoluzionari dimenticati, come Guiteras, metà cubano e metà statunitense, e Aponte, venezuelano giunto a Cuba dopo l’esperienza dell’esercito di Cesar Sandino, i quali nel 1927 avevano combattuto contro il dittatore Machado e nel 1935 avevano tentato un’insurrezione contro Batista, fino alla morte in battaglia a El Morrillo. Il Che esaltava Guiteras e Aponte come simboli «della nostra lotta antimperialista, che riunisce a Cuba […] gli uomini del mondo disposti a lottare su qualsiasi terreno per un ideale che non ha frontiere e che non può rinchiudersi negli stretti confini della patria›› (E. Guevara, Ideario).
Di Guevara ricordiamo lo spirito rivoluzionario e la maestria in battaglia ma egli fu anche un appassionato ed acuto studioso di Marx.
Già negli anni della guerriglia in Sierra Maestra, Guevara si dichiara marxista, ma è evidente quanto le sue conoscenze a proposito, negli anni tra il 1954 e il 1959, sono molto sommarie. Ciò è confermato anche dal suo iniziale appoggio all’opera di Stalin, sostenuta, come spiega Karol, più per ragioni pratiche che per una reale prossimità teorica: «Ogni rivoluzione comporta una parte inevitabile di stalinismo, perché ogni rivoluzione deve fronteggiare l’accerchiamento capitalista e imperialista.›› e ancora «I sovietici non solo dovevano proteggersi dalla minaccia esterna, ma anche costruire le industrie per lo sviluppo economico.›› (K. S. Karol, La guerriglia al potere).
Quando poi avrà modo di conoscere, direttamente e indirettamente, le aberrazioni di stampo stalinista (ma anche maoista) in quelli che l’argentino chiamava “i paesi socialisti”, inizierà a riferirsi ad essi in termini nettamente negativi.
La svolta è segnata da un episodio avvenuto il 13 marzo 1962, quando, in occasione del quinto anniversario dell’assalto al palazzo presidenziale, il gruppo stalinista di Escalante fece omettere dalla lettura del testamento di Echevarria, leader della FEU, le tracce della fede cattolica dell’autore.
La reazione di Castro e Guevara fu durissima, sia in quell’occasione sia nel più noto discorso del 26 marzo, in cui emerge con forza il rifiuto per la deformazione burocratica staliniana: «Non stavamo organizzando le forze rivoluzionarie […] Stavamo creando un capestro, una camicia di forza, un giogo, compagni. Non stavamo promuovendo un’associazione libera di rivoluzionari, ma un esercito addomesticato e ammaestrato›› e ancora «Una simile vigliaccheria la si potrà mai chiamare concezione materialistica della storia? Un simile modo di pensare si potrà mai chiamare marxismo? Si potrà mai chiamare socialismo una simile frode?››.
La crisi cubana del 1960-1961 confermò i dubbi del Che circa il socialismo reale e le sue degenerazioni, in particolar modo quelle burocratiche: la burocrazia viene definita freno per la rivoluzione, «acido che snatura […] l’economia, l’educazione e la cultura […] e ci danneggia più dell’imperialismo stesso›› (E. Guevara, La lotta contro il burocratismo).
Guevara sentiva ormai la necessità di liberarsi dalla gabbia dello stalinismo e ripartire dalla base, ovvero dalle aspirazioni e dalle teorie marxiste. Il discorso pronunciato ad Algeri il 24 febbraio 1964, dopo che l’argentino aveva per un breve periodo appoggiato il socialismo cinese, sancisce, infine, la ormai irreparabile frattura tra il socialismo reale e quello che Guevara aveva in mente. URSS e Cina vengono collocati sullo stesso piano e bollati entrambi di imperialismo: «Il socialismo non può esistere se nelle coscienze non si opera una trasformazione che determini un nuovo atteggiamento di fratellanza nei confronti dell’umanità: atteggiamento sia individuale […] sia mondiale, nei confronti di tutti i popoli che subiscono l’oppressione imperialista›› e «I paesi socialisti sono complici dello sfruttamento imperialista […] e hanno il dovere morale di smetterla con la loro tacita complicità con i paesi occidentali sfruttatori.››
Ma in questo discorso, come anche in Socialismo e l’uomo a Cuba, nel discorso dell’11 dicembre 1964 alle Nazioni Unite, nel messaggio al Congresso della Tricontinental del 1966 e infine nel discorso di Algeri del 24 dicembre 1965, appare evidente l’evoluzione del pensiero di Guevara circa una nuova rilettura di Marx, che unisse l’analisi delle condizioni materiali all’impegno morale, lo studio approfondito del marxismo alle tesi terzomondiste. In particolare, il potenziale rivoluzionario delle realtà definite terzomondiste, già individuato da Lenin, è esaltato da Guevara in quanto la contraddizione esistente nei paesi del Terzo Mondo e quella nelle oligarchie dominanti di un manipolo di nazioni vengono viste come un’opportunità essenziale per i rivoluzionari. Inoltre, a mio avviso, l’appoggio del Che alle tesi terzomondiste è un tentativo da sinistra di invertire l’equilibrio bipolare creato dalla divisione del mondo in due sfere di influenza nate dalle alleanze militari ed economiche e dagli accordi di Yalta e Postdam. Tale cambiamento di rotta esprime l’esigenza di internazionalizzazione delle forze produttive che, non essendo avvenuto da sinistra, si produsse da destra in toni cosmopoliti: l’unico modo per imporre un cambiamento in senso socialista, allora, era promuovere le lotte di liberazione in Asia, Africa e America latina, legandole intimamente alla teoria marxista. Solo questa possibilità, per Guevara, si offriva al socialismo e all’internazionalismo.
Un’ulteriore originalità del Che, rispetto al marxismo novecentesco, sta nell’aver assunto, ispirandosi all’eredità latinoamericana, il pensiero di Marx a partire da un impegno etico e morale, e nell’aver considerato la possibilità di impiegare fattori soggettivi per orientare l’azione rivoluzionaria delle masse.
Il problema dei vincoli esistenti tra struttura e sovrastruttura, e quindi la questione etica, fu affrontato dal Che a più riprese: se si indagano le varianti del comportamento umano all’interno del processo rivoluzionario, sottovalutare l’aspetto “spirituale” e concentrarsi solo sugli stimoli materiali può essere molto pericoloso. All’origine degli errori del socialismo reale, dunque, stava il fatto di voler trasformare una verità filosofica ed economica in un’analisi concreta della prassi e della condotta umana.
Ciò non significa che Guevara sottovalutò le condizioni materiali e gli aspetti economici, come dimostrano i suoi studi di economia politica, ma sosteneva che, dato il loro valore, occorresse indirizzarli verso dimensioni sociali che stimolassero la vocazione collettiva, di stampo marxista, degli esseri umani. Dunque, non si trattava di invertire il rapporto tra struttura e sovrastruttura, ma semplicemente di porre l’attenzione sullo sviluppo delle qualità propriamente umane e sociali dei singoli. Niente di più vicino a Marx.
Non si comprese, al tempo come oggi, che Guevara non si voleva maldestramente liberare dell’analisi della struttura economica, ma proponeva un’altra relazione tra un’etica marxista e l’analisi scientifica della realtà: esattamente, dunque, ciò che per l’argentino mancava al socialismo reale: solo quando il piano etico, in forte relazione con i fattori della sovrastruttura, troverà una collocazione adeguata nello studio dell’azione umana, il marxismo avrà possibilità di trasformare il mondo.
Ed è proprio per questo che Socialismo e l’uomo a Cuba resta uno dei testi fondamentali per la preparazione dei giovani rivoluzionari: qui Guevara sembra dire, non troppo tra le righe, che il progetto ambizioso di Lenin è fallito perché non basta l’analisi economica e lo sviluppo materiale, ma occorre un’adeguata etica in grado di elevare l’individuo a uomo, esaltandone le qualità propriamente umane e l’indole immediatamente sociale.
Il Che sigillò, con la sua vita e con la morte, l’unione armoniosa, seppur complessa, tra il pensiero europeo più avanzato e la tradizione culturale latinoamericana: come pensatore, insisteva sul rigore scientifico dell’analisi delle condizioni materiali; come uomo, era animato da forti spinte etiche e poneva l’accento sulla necessità per il socialismo di plasmare, nella rivoluzione, un uomo nuovo.
E proprio nella sua ultima frase, in cui la tempra del comandante e il coraggio eroico non vengono taciuti dallo spettro della morte, è la sua profezia più grande: «Spara, vigliacco, spara! Perché state uccidendo un uomo››.
Nel suo esempio vive la vittoria futura delle sue idee.
Ebook: Ernesto Che Guevara 1967 – 2017
Nel cinquantenario dell’assassinio di Enesto Che Guevara, Sinistra Anticapitalista pubblica questo ebook contenente una breve biografia scritta da Antonio Moscato e un discorso del Che pronunciato il 9 maggio 1964 nel seminario di chiusura su «I giovani e la rivoluzione», organizzato dalla Ujc.
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