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di Josep Maria Antentas

Dopo la non-dichiarazione di indipendenza proclamata il 10 ottobre dal Presidente della Generalitat, Carlos Puidgemont, forse desideroso di emulare le gesta del Cappellaio Matto in Alice nel Paese delle Meraviglie, l’acqua sotto i ponti di Catalogna e dello Stato Spagnolo ha continuato a scorrere.

A seguito del penultimatum del 16 ottobre, il governo Rajoy aveva concesso a Puidgemont ulteriori tre giorni, alla scadenza dei quali, il governo spagnolo avrebbe avviato le procedure per l’applicazione del famigerato articolo 155 della Costituzione spagnola, che autorizza la sospensione dell’autogoverno catalano. In effetti, giovedì 19 ottobre, di fronte al rifiuto del presidente catalano di chiarire la sua posizione, Rajoy ha dichiarato l’avvio di queste procedure, annunciando l’applicazione di misure da concordare con il partner di governo, Ciudadanos, e i socialisti di Pedro Sanchez, che ancora una volta si sono dimostrati colonna portante del sistema bipartitico architrave dello Stato post-franchista emerso dalla transizione del’78.

Mentre scriviamo, il premier spagnolo ha annunciato al termine del Consiglio Europeo di aver raggiunto un accordo con Ciudadanos e PSOE riguardo le concrete misure da applicare, che saranno trasmesse già domani al Senato per la definitiva ratifica dopo la riunione del consiglio dei ministri. La ratifica dovrebbe avvenire entro il 31 ottobre, ma è chiaro che questa notizia non potrà che esacerbare la tensione già dalle prossime ore.

Una tensione già alta: mercoledì sera ci sono state a Barcellona e in tutta la Catalogna importanti manifestazioni di massa contro la repressione e per la scarcerazione immediata dei due prigionieri politici (i due “Jordis”) rispettivamente dirigenti dell’ANC e di Omnium Culturel, due organizzazioni indipendentiste di base del movimento catalano, vittime di un arresto arbitrario e illegittimo. Nello stesso giorno c’è stata una importante manifestazione anche a Madrid. ANC e Omnium hanno convocato una mobilitazione di massa questo sabato per la liberazione dei due prigionieri e lo stesso è previsto in alcune città della Spagna, tra cui ancora Madrid. È da tenere in conto che oltre ai due Jordis, ci sono anche altri prigionieri politici nelle carceri spagnole, come due giovani accusati di aver aggredito un agente della Guardia Civili durante il referendum del Primo ottobre.

Giovedì mattina la Guardia Civil è entrata in una stazione di polizia dei Mossos de Esquadra a LLeida, ordinando la presentazione di documentazione relativa al referendum del Primo ottobre.

Nei giorni scorsi Junts pel SI (di cui Puidgemont è parte) e la CUP avevano annunciato congiuntamente la preparazione di una bozza di Dicharazione di Indipendenza che avrebbe dovuto essere discussa entro il prossimo lunedì. Al tempo stesso, i partiti nazionalisti moderati, come Junts pel SI, sono sospettosi dell’attività autonoma delle masse catalane e contrari ad azioni più radicali, come ad esempio il prelievo in massa di piccole somme di denaro contante contro le banche che hanno annunciato l’intenzione di trasferire la propria sede legale a Madrid o comunque nello Stato spagnolo.

Si tratta dunque di una situazione che, complice l’annuncio di repressione del governo spagnolo, è aperta a diversi sviluppi e a esiti al momento imprevedibili.

Pubblichiamo questo brillante articolo di Josep Maria Antentas, docente di sociologia all’Università Autonoma di Barcellona e militante politico anticapitalista, perché, sebbene sia stato scritto il 15 ottobre, contribuisce ad esporre in termini chiari l’evoluzione recente della situazione, la posizione dei diversi attori politici e sociali, e soprattutto la posta in gioco strategica, aspetto quest’ultimo cruciale e che deve interrogare i/le militanti anticapitalisti non solo in Catalogna e nello Stato spagnolo, ma in tutta Europa. (Introduzione di Antonello Zecca. 21 ottobre 2017)

Sospensione sotto pressione. La decisione del Governo di Puigdemont di sospendere la dichiarazione di indipendenza, e di non proclamarla neppure preventivamente in maniera formale prima di annullarla, è stata, come riportano tutte le fonti informative e le cronache delle ore precedenti al suo intervento in Parlamento dello scorso 10 ottobre, il frutto della pressione ricevuta dal potere economico e dall’Unione Europea e del timore di una conseguente escalation repressiva da parte dello Stato. Pressioni che fanno presa soprattutto su determinati settori del suo partito, il PDeCAT, già da tempo disturbati dalla deriva assunta dal processo indipendentista. Non è possibile per il momento sapere se siamo di fronte ad una mera marcia indietro dell’ultimo minuto di fronte alla vertigine generata dall’aver scorto l’abisso – come affermato fin dall’inizio dalla gran parte dei giornali – o se esiste l’intenzione di chiudere accordi dall’alto per riportare la situazione nell’ordine di un conflitto che segua le vie rituali e convenzionali.
Razionalizzazioni. Il carattere improvvisato di ciò che è stato finora realizzato, inclusi gli importanti errori di comunicazione interna ed esterna, non permette comunque di ricondurre il tutto a una tattica ben calcolata e ponderata. Tuttavia, una volta intrapresa questa parziale marcia indietro, è probabile che tanto il governo catalano quanto alcuni suoi sostenitori abbiano ragionato circa il processo attuativo, pensando che, se lo Stato spagnolo reagisce con una mano dura, ciò serve in primo luogo a spostare quella parte dell’opinione pubblica che muove dei dubbi rispetto al progetto indipendentista, in particolare la base sociale dei Comuns, e, in secondo luogo, a ottenere ulteriori ragioni da presentare alla stampa internazionale. Non è da escludere che tale proposito si possa realizzare indirettamente, ma non senza aver offerto un grosso segnale di debolezza in un momento decisivo e aver provocato un grande disorientamento tra le fila indipendentiste, rimaste disarmate nel loro momento più alto e senza alcuna prospettiva di azione a breve e a medio termine.
Routine e accelerazioni. Sin dalla sua nascita, nel 2012, il processo indipendentista ha vissuto una sorta di sospensione temporale nel bel mezzo di un movimento tellurico in cui si combinavano una narrazione quotidiana compatibilista e un pesante avanzamento al rallentatore. Non si è trattato di un movimento in grado di generare crisi repentine, determinare irruzioni temporali e cogliere decisioni strategiche in un momento critico, quanto piuttosto si è manifestata una predisposizione a tracciare percorsi che proiettavano una velocità di crociera confortevole a misura di una irreale linearità temporale tesa a scongiurare un maremoto in gestazione. La giornata del 20 settembre ha determinato un mutamento di marcia e avrebbe preteso un’altra gestione strategica del tempo basata su quella compressione del carattere discontinuo del tempo politico su cui ha tanto insistito Daniel Bensaïd enfatizzando il concetto leninista di un “momento propizio e di una specifica congiuntura, in cui si tengono necessità e contingenza, atto e processo, storia e avvenimento”[1]. Le giornate dell’1 e del 3 ottobre non hanno fatto altro che dare un’ulteriore accelerata al processo iniziato il 20 settembre. Sarebbe stato giusto, dopo tali avvenimenti, che il governo catalano avesse proclamato un atto di sovranità conseguente. Tuttavia, la frenata tra il momentum dell’1 e del 3 ottobre ha concesso allo Stato il tempo per riorganizzarsi dopo il relativo scossone e, soprattutto, ha permesso al potere economico di adottare una strategia pubblica e privata fondata sulla paura. L’anti-climax del 10 ottobre ha definitivamente affondato tale dinamica, facendo sì che il movimento perdesse la propria capacità di iniziativa proprio nel momento decisivo: Strategia della sospensione o sospensione della strategia? La politica della sospensione può portare così a un’illusoria sospensione del tempo strategico e, con esso, a una sospensione della strategia in quanto tale.
Scontro con lo Stato. Dopo cinque anni di processualità sfuggente, l’indipendentismo si è scontrato con lo Stato. Le giornate del 20 settembre, del primo ottobre e il pensiero di una serie di misure repressive senza precedenti nel caso in cui fosse stata proclamata l’indipendenza hanno messo in evidenza la debolezza strategica della fallace ipotesi didisconnessione[2]. Essa è venuta a cadere senza però che il suo fallimento abbia prodotto una qualsivoglia prospettiva strategica nuova, fondata sulla combinazione di mobilitazione e disobbedienza civile di massa, disobbedienza istituzionale e ricerca di alleanze statali come complemento rispetto alla via unilaterale. Dalla mobilitazione di massa episodica, una volta all’anno, all’ipotesi di una mobilitazione di disobbedienza permanente. E da una via unilaterale e una connotazione concettuale esclusivamente catalana alla ricerca parallela di appoggi nel resto dello Stato e all’introduzione, senza dissoluzione, del progetto indipendentista in una prospettiva di rottura globale con il regime del 1978. Due spostamenti strategici che ancora non hanno visto un pieno sviluppo delle loro potenzialità, né sono stati teorizzati in maniera esplicita.
Repressione. La relazione tra repressione e protesta politica e sociale si rivela complessa. La prima può mettere a tacere la seconda o incrementarla. Dipende dal contesto politico in cui essa si produce, dalla natura dei mezzi utilizzati e dei gruppi sociali che va a colpire. La realtà, tuttavia, è che per la prima volta in cinque anni il movimento indipendentista si confronta con una repressione di Stato che rompe tutte le precedenti regole del gioco. “La repressione ha effetto quando agisce insieme a efficaci misure di politica generale”, scriveva Victor Serge nel 1925[3]. Misure efficaci che al giorno d’oggi il governo spagnolo è incapace di assumere poiché non può né accettare la legittimità della questione suscitata dall’indipendentismo, né offrire una solida riforma dello Stato. La via repressiva in sé non è sufficiente per porre fine al movimento né per risolvere ciò che la sua esistenza esprime. Un suo uso massiccio potrebbe invece infliggere un duro colpo a breve termine, a costo però di amplificare la delegittimazione dello Stato in Catalogna e, conseguentemente, creare un problema politico più a lungo termine.
Scenari nell’immediato futuro (I). L’uscita vera e propria da tale impasse avverrà una volta che il governo catalano dichiarerà formalmente di fronte a quello spagnolo, nel periodo stabilito (tra il 16 e il 19 ottobre), il significato della decisione presa lo scorso 10 ottobre. Esistono due possibilità. La prima prevede che la risposta del governo catalano apra uno scenario di relativa distensione, dando il via a una situazione incerta in cui Rajoy non sferrerebbe un attacco frontale nei confronti del governo catalano, non ne sospenderebbe dunque le funzioni, limitandosi a mettere in moto una macchina giudiziaria repressiva per l’organizzazione dell’1 ottobre, più o meno rimodulata in base all’evoluzione degli eventi. Si entrerebbe così in una fase di lotta difensiva contro la repressione per l’indipendentismo che culminerebbe presto con nuove elezioni catalane, ma in mezzo al disorientamento strategico o a una nuova corsa gradualista verso terreni artificiali con un declino del movimento.
Scenari nell’immediato futuro (II). La seconda possibilità prevede che il governo catalano dia una risposta che porti Rajoy a optare per un guerra di movimento legislativa e giudiziaria con l’applicazione dell’articolo 155, impugnando così esplicitamente l’auto-governo catalano. Senza dubbio ciò richiederebbe una risposta politica e sociale mai vista prima in termini di mobilitazione permanente. La lotta contro la repressione unisce in negativo, in chiave difensiva, ma è necessario che essa sia accompagnata da una prospettiva in positivo. Il che non sarà possibile se il governo catalano non saprà/potrà/vorrà uscire da quella situazione che esso stesso ha creato il 10 ottobre, lanciandosi in una resistenza priva di tabella di marcia e senza aver realizzato un atto di sovranità che mostri decisione e coraggio, correggendo l’errore commesso. Il fatto di riprendere l’iniziativa persa e togliere la base sociale dell’indipendentismo dalla confusione a cui è stata condotta non deve essere tuttavia interpretato come una merariattivazione a freddo della dichiarazione di indipendenza sospesa, come sostiene l’Assemblea Nazionale Catalana (ANC), come se ciò fosse una semplice azione politico-amministrativa, come se le decisioni politiche potessero scongelarsi a piacimento. Lafallacia della disconnessione è stata spesso accompagnata dal feticismo della dichiarazionedi indipendenza, attribuendole una forza che la rende sufficientemente slegata dal modo in cui viene proclamata, nonché dal contesto sociale e dalla congiuntura politica. È necessario invece favorire la creazione di un nuovo scenario di ampia mobilitazione che, con il lascito e la legittimità delle mobilitazioni del primo e del 3 ottobre, consenta una migliore azione di sovranità formale che abbia delle implicazioni e una valenza strategica tesa a mantenere in piedi il fronte di rottura costruito tra il 20 settembre e il 3 ottobre.
Repubblica catalana e processo costituente. Si intravede in un orizzonte abbastanza vicino, nel caso in cui si realizzasse l’ipotesi di uno sviluppo del confronto, una doppia sfida: riprendere l’iniziativa e non gettarsi in una resistenza anti-repressiva senza un atto fondativo di sovranità chiaro e ambizioso e, dall’altra parte, rivolgersi all’intero blocco che ha reso possibile l’1 e il 3 ottobre, che serva anche a coinvolgere la base sociale deiComuns e che conduca nella direzione di una politica di rottura. Il successo delle due giornate, 1 e 3 ottobre, è stato determinato dal coinvolgimento di uno spazio sociale più ampio rispetto al movimento indipendentista, che includeva un settore rupturistacostituente (che, in termini partitici, ritroviamo primariamente in Podem e in modo minore dentro ai Comuns, mentre dal punto di vista sociale in un’ampia area di attivismo e di sindacalismo alternativo). In un certo senso, le titubanze del governo catalano esprimono in maniera balbettante tale preoccupazione. Purtroppo, però, dal 2012 il movimento indipendentista non ha goduto di nessuna politica seriamente orientata a cercare alleanze con quei settori non indipendentisti che volevano una rottura con il regime del 1978. La tradizionale miopia dell’Assemblea Nazionale Catalana (ANC) rispetto a tale questione è nota ai più. La proclamazione della Repubblica Catalana e l’apertura di un processo costituente catalano – che, sebbene maggiormente declinati in chiave indipendentista, non escludono una ipotesi (con)federale – rappresentano l’orizzonte strategico condiviso dal blocco sviluppatosi intorno all’1 ottobre e dovrebbero diventare il nodo strategico della nuova fase a partire da adesso.
Governo con il PSOE o rotture costituenti? Sul piano nazionale, è chiara l’involuzione autoritaria di tutto l’apparato dello Stato e della situazione politica, con Unidos Podemos che resta l’unica voce controcorrente e con un’impostazione democratica, non senza importanti limiti strategici[4]. Lo scarto tra la relativa paralisi nel complesso dello Stato e il processo catalano disegna una forbice che alimenta in maniera sempre maggiore la discordanza tra le due realtà, a vantaggio delle forze reazionarie. La questione decisiva qui è la disciplina assoluta del nuovo PSOE di Pedro Sanchez che mostra adesso tutti i suoi inevitabili limiti. Ciò dovrebbe portare Unidos Podemos a trarre delle chiare conclusioni strategiche, abbandonando la prospettiva di un governo di coalizione a medio termine con il PSOE, per recuperare la sua ipotesi di rottura costituente. Il che presuppone qualche relazione con l’indipendentismo catalano e una politica di inserimento sociale e di lotta a medio termine, oltre alla quotidiana politica parlamentare.
Una politica di rottura non gradualista. Dal 20 settembre in poi si è venuto a creare per la prima volta uno spazio di rottura non gradualista all’interno di settori indipendentisti e non, formato dalla CUP, da Podem, alcune minoranze di Catalunya en Comú, da attivisti sociali e da sindacati alternativi. La protesta studentesca e l’irruzione dei Comitati di Difesa del Referendum sono stati l’espressione più chiara di tale dinamica. È stato proprio questo blocco informale a giocare un ruolo decisivo nei giorni che hanno preceduto l’appuntamento dell’1 ottobre e durante la stessa giornata del referendum, obbligando di fatto l’ANC ad andare oltre ciò che aveva previsto. La sfida ora sta nel mantenere e rafforzare questo potenziale spazio costituente, affinché possa diventare un attore in grado di promuovere la propria iniziativa politico-sociale e che eserciti, al contempo, una politica unitaria e di pressione non solo sull’ANC, su Omnium e sull’indipendentismo ufficiale, ma anche nei confronti dei Comuns.

Incertezza rispetto all’entrata nel pantano di un passaggio verso nessun luogo o vigilia di un nuovo capitolo dell’Ottobre Catalano? La complessità della situazione non dovrebbe nasconderci la chiarezza dei dilemmi strategici che essa presuppone.