di Umberto Oreste
Era già successo a Marrakech a novembre dell’anno scorso, quando si era tenuta la conferenza sul clima COP 22, aperta e chiusa in silenzio perché nulla c’era da dire, perché nulla era stato deciso.
Dopo il clamore della conferenza sul clima di Parigi del 2015, che aveva destato tanta apprensione, ma che aveva anche fatto tante promesse nulla è cambiato nelle conferenza successive. Sembra assistere all’andamento scolastico di certi studenti che, trovati impreparati all’interrogazione, promettono di studiare e riparare alle lacune, per poi ritrovarsi ancora impreparati all’interrogazione successiva, avendo, però, accumulato ulteriori lacune.
La conferenza di Parigi, pur se con mille contraddizioni, aveva delineato degli obiettivi di limitazione delle emissioni di gas serra al fine di limitare all’1,5 °C l’aumento della temperatura rispetto ai livelli preindustriali, lasciando in sospeso i tempi ed i termini concreti per raggiungere l’obiettivo preposto. Erano stati indicati per ciascuno stato del pianeta alcuni INDC (Intended nationally determined contribution), cioè a ciascuna nazione era stata attribuita una quota di riduzione delle emissioni. A Marrakech doveva precisarsi come tradurre in pratica e come controllare l’esecuzione del piano, invece gli INDC non sono stati quantificati, ma c’è stata solo una promessa di ridefinirli nel 2018, perché da ulteriori elaborazioni si era giunti alla conclusione che quelli definiti precedentemente porterebbero l’aumento della temperatura a +3°C. Totale assenza di risultati sull’altro punto caldo, cioè i fondi per il sostegno ai paesi poveri in caso di calamità causate dal riscaldamento globale. A Marrakech i paesi ricchi non hanno portato praticamente nulla.
Lo spettacolo di COP 22 si è ripetuto uguale a Bonn nei giorni scorsi. Dalla COP 23 si aspettava l’approvazione dei decreti attuativi degli accordi di Parigi, ma dopo una settimana di colloqui non c’è stata nessuna approvazione. Si è convenuto che gli INDC erano insufficienti, ma invece di modificarli si è lanciato il “dialogo di Talanoa” in vista di COP 24 a Katowice in Polonia: un dialogo tra chi è veramente disponibile, e da portare avanti senza soluzione di continuità. Talanoa è una parola della lingua Fijiana, che indica un confronto costruttivo, senza giri di parole; l’ha introdotta il premier delle isole Fiji, presidente di COP 23, sperando che lo spirito indigeno riesca dove le complicate diplomazie istituzionali hanno fallito; Il premier ha concluso il suo intervento dicendo: “siamo tutti sulla stessa canoa”. Mi sembra tanto affidarsi a San Gennaro quando non c’è più alcuna speranza.
Infine, anche stavolta si è bucato sulla questione degli impegni finanziari per prevenire le catastrofi ambientali nei paesi poveri; questi chiedevano una programmazione del sostegno su un arco temporale di dieci anni per programmare gli interventi necessari. La risposta è stata che l’attuale fase economica non può dare sicurezza di impegni futuri. Ci sarebbe da osservare che è proprio per questo l’attuale sistema economico non funziona.
Nei giorni in cui si svolgeva la conferenza è arrivata la notizia che le emissioni di gas serra nel 2017 sono cresciute del 2% rispetto all’anno precedente. E’ questo il risultato della politica energetica di Trump? È difficile affermarlo, ma è certo quello che ha detto un negoziatore africano che “la posizione degli Stati Uniti influenza gli altri paesi sviluppati, che a loro volta, hanno conseguenze per le posizioni adottate da altri paesi”. In pratica, visto che gli altri non stanno ai patti, ognuno è portato a sottrarsi agli impegni.
Le conclusioni politiche sono evidenti e semplicissime: non c’è da fidarsi degli stati, delle imprese, del capitalismo. A questo punto viene da chiedersi che si fanno a fare queste conferenze dalle quali non c’è da aspettarsi niente più. L’anno prossimo a Katowice si ripeterà lo stesso spettacolo mentre la concentrazione atmosferica di CO2 continuerà a salire, le ondate di calore anomale si ripeteranno con maggiore frequenza come gli eventi metereologici estremi, la siccità provocherà incedi e diminuzione dei raccolti agricoli, i migranti climatici si sposteranno alla ricerca di cibo. L’unica speranza è che in un futuro non troppo lontano si riesca a mandar via gli attuali padroni del mondo e si possa ripartire per governare il pianeta nell’interesse dei popoli e della natura e non nell’interesse del profitto.