Discussione con André Grimaldi, Michel Limousin, Maryse Montagnon
Tre eminenti specialisti della salute, attivi, nel mondo ospedaliero francese hanno incrociato le loro opinioni sul tema della trasformazione degli ospedali pubblici in ospedali-impresa. Essi parlano di questa evoluzione in Francia negli ultimi vent’anni. Ma le loro riflessioni valgono anche per la realtà sanitaria del nostro paese, confrontata negli ultimi anni con le stesse dinamiche. Abbiamo quindi pensato utile presenterla anche ai nostri lettori e alle nostre lettrici. (Red)
Riepilogo dei fatti. In una ventina d’anni, i vari governi (francesi) hanno continuato a trasformare l’ospedale pubblico in ospedale-impresa. Quali sono le conseguenze sulla qualità del servizio pubblico, per il personale e per i cittadini?
André Grimaldi, Professore emerito di endocrinologia-diabetologia al CHU La Pitié-Salpêtrière (Parigi); Michel Limousin, Medico, capo-redattore dei Cahiers de santé publique et de protection sociale (SPPS); Maryse Montagnon, Tecnica al CHU di Bordeaux e responsabile delle questioni di protezione sociale del PCF.
Per sanare il deficit della Previdenza sociale (6,1 miliardi di euro quest’anno), lo Stato decide di imporre all’ospedale pubblico una serie di regole di gestione provenienti dall’impresa privata. Quali conseguenze provocano questi nuovi metodi sul lavoro e sul quotidiano dei medici, degli infermieri, degli assistenti di cura e dei direttori delle strutture?
André Grimaldi: I nuovi metodi di management imposti agli ospedali da più di venti anni provengono dal dogma neoliberale secondo cui ogni attività umana deve essere misurata, quantificata, valorizzata e sottomessa alla concorrenza secondo il modello dell’impresa privata. È questo il dogma che si è tradotto negli ospedali con l’introduzione nel 2004 delle tariffe a prestazione (T2A) e, nel 2009, con la legge ospedale-impresa (HPST), detta legge Bachelot. L’obiettivo finale di questa “contro-riforma” è di cambiare lo statuto dell’ospedale pubblico per trasformarlo in struttura privata a scopo non lucrativo (Espic), che può assumere con contratti dai salari variabili e che può fallire ed essere riacquistata da catene di ospedali privati a scopo di lucro.
Ma, allo stesso tempo, per ridurre il deficit della Previdenza sociale, il Parlamento ha votato, ogni anno dal 1995, un obiettivo nazionale di progressione delle spese di salute (Ondam) sempre più ridotto, ciò che implica un calo delle tariffe e la messa in deficit programmata degli ospedali. Per sopravvivere finanziariamente, un ospedale è dunque obbligato ad aumentare la sua attività senza aumentare le spese, cioè senza incrementare le spese per il personale. Si è perciò aumentato il numero di medici, si è chiesto loro di fare sempre di più (indipendentemente dalla pertinenza e dalla necessità: quante risonanze magnetiche, quanti esami biologici o gesti tecnici ingiustificati!), ma non è stato aumentato allo stesso modo il numero di infermieri. Per sopravvivere, gli ospedali chiedono dei prestiti alle banche, ma il versamento degli interessi scava il deficit… Stiamo arrivando alla fine di questo sistema folle. È giunta l’ora delle scelte: o l’ospedale torna a una gestione pubblica oppure continua secondo l’attuale logica di ospedale-impresa in cerca di redditività e, nel nome di una maggiore autonomia e flessibilità per gli ospedali, l’ospedale pubblico verrà trasformato in una struttura privata a scopo di lucro (Espic). Naturalmente la trasformazione avverrà in modo progressivo. E, per ridurre il deficit della Previdenza sociale non resterà altra scelta che aumentare il finanziamento attraverso le assicurazioni private complementari “che contratteranno con le strutture sanitarie”.
Michel Limousin L’ospedale pubblico vive una duplice crisi. La prima è di tipo naturale: l’ospedale deve adattarsi alle evoluzioni di ogni genere legate ai progressi scientifici e tecnici e alle trasformazioni della società. Deve adattarsi e deve dunque ripensarsi. Basti pensare all’apparizione di nuove malattie, all’invecchiamento della popolazione, all’approfondirsi delle disuguaglianze sociali e territoriali in ambito sanitario, all’apparizione di nuove tecnologie d’esplorazione di ogni tipo, al bisogno che hanno le persone di essere ascoltate e riconosciute (bisogno di tempo e di accompagnamento), al bisogno di comunicazione all’interno dell’ospedale e verso l’esterno. Tutto ciò implica naturalmente delle grandi trasformazione per l’ospedale. Trasformazioni che necessiterebberonotevoli investimenti finanziari e umani.
La seconda crisi è quella che è imposta dal potere e dall’ideologia liberale e che si concretizza nelle drastiche restrizioni nel finanziamento, nell’austerità, nel management autoritario, in norme e controlli sempre rinnovati, in una messa in concorrenza generalizzata in contesti in cui sarebbe invece necessaria una maggiore cooperazione. Con l’introduzione del sistema delle tariffe a prestazione le cliniche private si prendono le parti di mercato più interessanti, ossia l’attività programmata a basso costo di produzione, lasciando all’ospedale pubblico tutto il resto. Le riforme che si succedono comportano la chiusura di servizi, la concentrazione degli ospedali pubblici, aggravando così la desertificazione medica. Le urgenze sono ovunque saturate. La penuria di personale è organizzata in modo da aprire la strada alla privatizzazione e all’esternalizzazione dei servizi generali. Il corpo dei direttori di ospedali è stato destabilizzato dando accesso a questa funzione a persone provenienti dal privato e prive di una formazione specifica negli ambiti dell’amministrazione pubblica e della salute pubblica. E infine, la penuria generale di medici che tocca il settore ambulatoriale affligge anche l’ospedale: per far fronte a questa penuria, che è costantemente denunciata, non è però prevista alcuna misura di aumento del numero dei medici in formazione. E ancora, un discorso deleterio da parte delle autorità mina il morale dei salariati con un malcelato disprezzo della funzione pubblica ospedaliera.
Queste due crisi si congiungono e si amplificano e si è dunque giunti a uno stato di tensione al limite della rottura. Al posto di accompagnare l’ospedale nelle sue trasformazioni positive, lo si opprime.
Maryse Montagnon Da una ventina di anni, i vari governi – di destra come di “sinistra” – hanno continuato, attraverso una serie di riforme, a trasformare l’ospedale pubblico in ospedale-impresa. Occorre capire che, per fare accettare in seno agli ospedali questo cambiamento, i governi e i loro bracci armati, ossia le agenzie sanitarie regionali (ARS), hanno messo in campo un intero arsenale di misure volte all’adesione o alla rassegnazione dei professionisti, misure che imponevano le nozioni di equilibrio budgetario, di redditività, di produttività, etc. Ci sono state innanzitutto delle misure legislative, con la legge HPST che modifica il finanziamento degli ospedali pubblico con la T2A, e questo a busta chiusa, senza alcun margine di discussione, e poi è arrivata la legge Touraine che prevede i raggruppamenti ospedalieri territoriali (GHT) e che si tradurrà in una ristrutturazione su larga scala dell’offerta pubblica nel suo insieme.
L’ospedale “spende troppo”, deve ritornare in pari e deve dunque ristrutturare, mutualizzare, essenzialmente diminuendo la massa salariale in nome dell’innovazione, del progresso tecnologico, della qualità delle cure. Per questo, si chiede ai professionisti di diventare polivalenti; i loro impieghi sono predefiniti all’interno di mansionari e sono dunque intercambiabili all’interno dei servizi. Il lavoro di squadra, le esperienze relazionali con i colleghi e nei confronti dei pazienti sono negate e il sentimento di non poter far bene il proprio lavoro distrugge i professionisti, come testimoniato dal numero di casi di suicidio negli ospedali. Un’altra misura che condiziona l’adesione dei professionisti agli obiettivi politici di redditività dell’ospedale è al controllo della qualità (démarche qualité). Quest’ultima, resa obbligatoria, ha lo scopo di ottenere una certificazione a partire da norme rigide.
Il lavoro diventa così protocollare, pre-pensato e tracciato. Le pratiche professionali sono “normalizzate”; per far bene il proprio lavoro è sufficiente barrare delle caselle. La cura è concepita in modo tecnico, a scapito della relazione con il paziente. Tuttavia i professionisti sanno molto bene che il lavoro prescritto è spesso ben lontano dal lavoro reale, dal lavoro di terreno e dunque per evitare il dibattito e la riflessione collettiva, sono stati messi in piedi dispositivi di gestione perversi e colpevolizzanti. Il controllo permanente delle attività, i sospetti e le valutazioni individuali delle performances hanno lo scopo di impedire ogni tentativo da parte dei professionisti di mettere in discussione le scelte strategiche dell’ospedale-impresa. L’insieme dei professionisti dell’ospedale pubblico, dall’agente di servizi ospedalieri al medico, sono confrontati oggi a queste pratiche, a questa logica di gestione liberale che si ripercuote in modo inquietate sulla loro stessa salute.
Queste misure hanno già delle conseguenze sulla salute dei cittadini e delle cittadine?
Michel Limousin Le persone aspettano per ore. Per guadagnar tempo, si propongono loro delle consultazioni nel settore privato. In tal modo l’ospedale non adempie più il suo ruolo di servizio pubblico per tutti. La rinuncia alle cure aumenta nel nostro paese. Appena entrati all’ospedale, si deve subito uscire. I corridoi sono pieni di casi urgenti che aspettano. Le malattie nosocomiali si sviluppano. Il personale, sempre spostato da un lavoro all’altro, non può allacciare relazioni di accompagnamento e di fiducia coi malati. Si negligono la prevenzione e l’educazione terapeutica. La nascita è disumanizzata. L’insufficienza dei servizi di cure palliative è lampante: anche la morte è disumanizzata. In queste condizioni, anche il personale ne soffre: stanchezza, stress, burn-out, mancanza di riconoscenza, bassi salari.
Maryse Montangon Il finanziamento degli ospedali in base all’attività, il raggruppamento delle strutture, o addirittura la chiusura di servizi, lo sviluppo accelerato della chirurgia ambulatoriale senza prima garantire la presenza di una vera reta tra l’ospedale e la medicina di prossimità, lo sviluppo di hotel ospedalieri metteranno l’ospedale pubblico nell’impossibilità di adempiere la sua missione di servizio pubblico che deve rispondere ai bisogni della popolazione. Con il governo Macron, la situazione continuerà a degradarsi e ne risentiranno certamente i pazienti, che non avranno altre soluzioni che rivolgersi verso l’ospedalizzazione privata. Ciò comporterà conseguenze finanziarie insopportabili per molti di loro e dunque la rinuncia alle cure si accentuerà ulteriormente.
André Grimaldi Per “fluidificare la catena di produzione”, si è segmentato il lavoro di squadra organizzando la mobilità e la polivalenza del personale. Ne scaturisce maggiore sofferenza al lavoro, assenteismo, burn-out o demotivazione. Lavorare sempre più in fretta, riducendo il tempo di sintesi e di trasmissione e aumentando il tempo consacrato ai compiti amministrativi, non sostituire gli assenti e i congedi maternità: chi può pensare che la qualità delle cure possa aumentare in queste condizioni? Nel mio servizio, un dirigente sanitario ha osato dire agli infermieri: “Bisogna fare il lutto della qualità”!
Che soluzioni si possono adottare nell’urgenza e sul lungo termine per preservare l’ospedale pubblico?
Maryse Montangon Per il PCF, è oggi urgente imporre di cessare tutte le ristrutturazioni e chiusure in corso, assumere professioni con uno statuto vero e proprio e formarne di nuovi; esigere un piano di salvaguardia budgetaria degli ospedali con cancellazione dei debiti e un piano di uscita dai prestiti tossici contratti.
Occorre ripensare il sistema sanitario e il ruolo dell’ospedale pubblico all’interno di una fitta rete di servizi sanitari pubblici. Calcolare, insieme al personale ospedaliero, i mezzi necessari alle loro missioni professionali ed esigere dei pacchetti di finanziamento perenni. Il tutto attraverso un ampio dibattito democratico.
Michel Limousin Le soluzioni da adottare devono rispondere ai due aspetti della crisi ospedaliera: innanzitutto deve essere subito decretata una moratoria sulle chiusure, per prendere il tempo di fare una valutazione seria e democratica della situazione e dei bisogni della popolazione. Questo implica un cambiamento del discorso pubblico sull’ospedale. L’ospedale ha bisogno di rispetto, di ascolto e di democrazia.
In seguito, occorre fornire immediatamente i mezzi finanziari. Questo può essere fatto con misure tecniche rapide da prendere: sopprimere le tasse sui salari che l’ospedale versa allo Stato (10% dei salari) e rimborso dell’IVA pagata dall’ospedale (che rappresenta il 20% delle spese non salariali). Cumulate, rappresentano il 13% delle spese dell’ospedale: sarebbe dunque una boccata d’ossigeno che non graverebbe sul budget dell’assicurazione malattia.
Sono infine necessarie una serie di misure: aumentare immediatamente il numerus clausus dei medici a 11’000 all’anno, aprire un negoziato coi sindacati sull’evoluzione delle carriere e delle competenze, “rimedicalizzare” il tempo di lavoro del personale di cura, chiudere il settore privato, chiudere i programmi di investimento pubblico-privato, liberare gli ospedale dei loro debiti “tossici”, come è stato fatto con le banche, rilanciare in ambito psichiatrico la politica di settorizzazione. Si tratta di un programma molto ampio che meriterebbe di essere esposto in modo più dettagliato e che necessita prima di tutto di un dibattito pubblico.
André Grimaldi In primo luogo è necessario rivedere il modo di finanziamento riducendo il peso delle tariffe a prestazioni (T2A) e dando un posto importante a una dotazione annuale modulata in funzione delle caratteristiche sociali delle popolazioni prese a carico e dell’evoluzione dell’attività degli anni precedenti. Occorre mettere fine all’antagonismo strutturale tra l’interesse finanziario dell’ospedale e quello della Previdenza sociale.
In secondo luogo, bisogna votare un obiettivo nazionale di spese d’assicurazione malattia (Ondam) “sincero”, che prenda in conto gli aumenti di spese programmate. È inoltre importante creare una banca pubblica che presti agli ospedali a tasso zero, come l’ha fatto la Banca centrale europea con le banche private!
Infine, e soprattutto, è urgente porre nuovamente al centro degli ospedali il personale di cura medica e para-medica, migliorare continuamente la qualità grazie alla formazione, al lavoro in gruppi di numero sufficiente e stabile, alla valutazione multipla (autovalutazione, valutazione da parte dei pari, degli utenti e delle associazioni di pazienti) e alla coordinazione con i professionisti che lavorano a monte e a valle dell’ospedale, perché molte soluzioni per l’ospedale si trovano in città.
*Discussione condotta da Anna Musso