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di Giovanna Vertova*

Il dibattito sul reddito di base è sempre di grande attualità e suscita anche grandi confusioni. L’autrice del testo che segue apporta un contributo a nostro modo di vedere interessante allo sviluppo di un dibattito che non riguarda tanto la politica “sociale”, ma pone al centro il tema del capitalismo e del suo funzionamento. (Red)

Quando si parla di reddito di base (RdB) sarebbe necessario fare chiarezza, perché il dibattito sia teorico che politico, soprattutto in Italia, è molto confuso: reddito di esistenza, di base, minimo garantito, di dignità, di autonomia, di inclusione, salario sociale, vengono usati come sinonimi delle diverse proposte, come semplici etichette che nascondono, in realtà, cose molto diverse. Il RdB è una proposta molto chiara e specifica: il pagamento regolare di un reddito (in moneta, non in natura, come è, in genere, il welfare), su base individuale (non familiare, come sono spesso i sostegni al reddito in Italia), universale (per tutti, indipendentemente dalla condizione lavorativa) e incondizionato (non vincolato ad un requisito lavorativo o alla volontà di offrirsi nel mercato del lavoro) [1]. Questa nuova forma di welfare viene presentata spesso dai sostenitori come “la” proposta di politica economica per superare la precarietà e la disoccupazione dilagante, in questa nuova fase di accumulazione capitalistica e, a maggior ragione, oggi, in questo periodo di crisi.
Tale proposta viene giustificata teoricamente con la ricerca di una giustizia redistributiva (Rawls), del superamento o arginamento della povertà e dal ricatto del lavoro (Rodotà), o della riappropriazione dei frutti della cooperazione sociale (Negri). Spesso, in un’ottica tipicamente keynesiana, si giustifica il RdB come una “regolazione istituzionale” per rendere stabile il cosiddetto post-fordismo (un sostegno ai consumi delle famiglie, nella speranza che questi facciano crescere l’economia), così come la crescita salariale in relazione alla produttività avrebbe stabilizzato il fordismo dei Trent’anni gloriosi. Peccato che la crescita postbellica fosse dovuta alle componenti autonome della domanda aggregata (investimenti privati delle imprese, spesa pubblica, esportazioni nette positive), in un contesto macroeconomico più stabile di quello attuale e in una situazione internazionale irripetibile, di capitalismo da guerra fredda. Contrariamente al mito fordista, i consumi sono stati trascinati e, quando le lotte nella produzione hanno morso, il modello è saltato.
Ciascuna di queste giustificazioni mostrano come il RdB sia una proposta di redistribuzione che non va ad intaccare le cause della disuguaglianza di reddito e ricchezza, della precarietà del lavoro, della povertà e delle condizioni di vita insostenibili. Il RdB vorrebbe, semplicemente, mitigarne gli effetti nefasti. Effettivamente, misure come il RdB possono rendere più sopportabile precarietà e disoccupazione nel breve periodo, ma non le eliminano. Semmai le cristallizzano e le congelano, soprattutto quando pensate isolatamente, come la panacea di tutti i mali, al di fuori di un pacchetto di proposte più onnicomprensivo, teso ad intaccare non solo gli effetti ma anche le cause di precarietà e disoccupazione. Presentata singolarmente, sganciata da altre rivendicazioni, si trasforma in un riformismo dal volto umano: si accetta il capitalismo così come è, generatore di disoccupazione, precarietà, condizioni materiali di vita insostenibili, cercando di lenirne gli effetti. Ecco perché questo tipo di proposta può trovare sostenitori appartenenti a diversi schieramenti politici.
Le implicazioni sia teoriche che politiche del RdB variano sulla base di come è effettivamente esplicitata la proposta: un livello di reddito che permette effettivamente di scegliere tra offrirsi o non offrirsi sul mercato del lavoro (cioè di uscire dalla “gabbia del lavoro salariato”); o un livello che diventa una integrazione ad un reddito lavorativo (per chi lavora) o un sussidio (per gli altri). Il primo tipo, che chiamo incompatibile, deve essere decisamente superiore al salario medio e permettere effettivamente di vivere senza lavorare. Il secondo tipo, che chiamo compatibile, non permette di vivere senza lavorare, ma offre semplicemente una integrazione al reddito (a chi già lavora) o un sussidio (agli altri), universalizzando il numero dei beneficiari. Assumendo la teoria marxiana del valore, secondo la quale si può distribuire solo quello che è stato prodotto [2], il RdB incompatibile produce una frammentazione, a livello globale, della classe lavoratrice. Se la classe lavoratrice dei paesi ricchi può permettersi di vivere senza lavorare (o, almeno, di fare questa scelta), chi produrrà la ricchezza da distribuire? La classe lavoratrice dei paesi poveri. I paesi ricchi possono redistribuire RdB, prodotto (e, andrebbe detto, estratto) dai lavoratori dei paesi poveri. La classe lavoratrice dei paesi avanzati può permettersi di vivere senza lavorare perché, per loro, lavora la classe lavoratrice dei paesi poveri. Non è il mio modo di intendere il superamento del capitalismo e, men che meno, un capitalismo dal volto umano. Nel caso di un RdB compatibile, contro le intenzioni dei proponenti, si presenta il forte rischio di spingere tutta la struttura salariale verso il basso, dovuto all’effetto Speenhamland [3]. I capitalisti hanno tutto l’interesse a ridurre i salari, visto che la classe lavoratrice percepisce anche il RdB. L’impresa assume, riducendo il salario; il lavoratore, inizialmente, ottiene lo stesso reddito di prima, ma in una spirale di deterioramento. Con il RdB come “pavimento” il salario può essere ridotto sempre di più. Questa dinamica crea una massa amorfa di persone che sopravvive ed un crollo della capacità contrattuale di tutta la classe lavoratrice. Si corre così il pericolo dell’instaurarsi di un compromesso malsano: i capitalisti offrono bassi salari e lavori precari e i lavoratori li accettano perché, intanto, c’è il RdB.
In merito alla fattibilità pratica di tale proposta, due sono i problemi che vorrei evidenziare, uno di carattere economico e l’altro politico. Prima di tutto l’annosa questione del suo finanziamento. Il neoliberismo imperante ha riformato il sistema di tassazione di tutti i paesi avanzati, rendendolo molto poco progressivo. In assenza di una riforma fiscale, che reintroduca un sistema veramente progressivo, e combatta elusione ed evasione, il RdB finanziato dalla tassazione generale diventa una semplice partita di giro tutta interna alla classe lavoratrice: i lavoratori occupati pagano il RdB a coloro che non hanno lavoro. Non mi sembra una misura il cui costo sia equamente distribuito tra le classi sociali. La questione politica è non meno importante. Il neoliberismo è riuscito pienamente a indebolire, sia politicamente che sindacalmente, la classe lavoratrice. I movimenti dal basso esistono, ma sono piccoli e frammentati. In questa situazione di debolezza temo che questa proposta getti le basi per uno scambio con la sinistra “moderata” (o anche con la destra “sociale”): accettazione, più o meno dichiarata, della flessibilità in cambio di qualche sostegno al reddito, probabilmente condizionato.
Va anche ricordato che, nella realtà, non è mai stato introdotto un RdB incompatibile [4], ma solo compatibile e, spesso, condizionato. È il passaggio dal welfare al workfare state tipico del neoliberismo attuale. Workfare è un termine coniato dalla letteratura anglosassone per indicare un sistema di welfare assistenziale che viene concesso, tuttavia, sotto certe condizioni (per esempio, seguire dei corsi di formazione o di aggiornamento, aver svolto determinati lavori utili o sociali, etc.). L’idea centrale è che gli individui rimangono disoccupati per via di una benefit trap (trappola dei benefici) o di incentivi inadeguati (come sono considerati i sussidi alla disoccupazione). Il workfare, quindi, vincola i sostegni al reddito alla dimostrazione di una volontà di lavorare, qualsiasi sia il lavoro e/o il salario offerto. È la stessa logica ortodossa che ha segnato il passaggio da politiche volte al full employment (piena occupazione) a quelle volta alla employability (“occupabilità”): nel primo caso, lo stato keynesiano si preoccupava che la forza lavoro trovasse un’occupazione; nel secondo, lo stato neoliberista si preoccupa che gli individui posseggano le giuste caratteristiche per trovarsi un lavoro: poi sarà il mercato a conciliare domanda e offerta di lavoro.
Esiste, inoltre, una problematica questione di genere. Alcune femministe sostengono che il RdB potrebbe rappresentare la remunerazione del lavoro per la riproduzione, internalizzando così la variabile di genere. Personalmente, valgono qui le stesse obiezioni che alcune femministe sollevarono negli anni ’70 circa il salario al lavoro domestico. Il RdB congela la situazione esistente, poiché non contesta l’uso della forza-lavoro né per la produzione né per la riproduzione. Si creerà, anche in questo caso, un compromesso malsano: le donne che svolgono il lavoro per la riproduzione ricevono il RdB, all’interno di una struttura sociale che non mette mai a tema questa divisione di genere del lavoro riproduttivo. Inoltre, il congelamento della divisione di genere del lavoro di riproduzione implica, necessariamente, quello della divisione di genere nel lavoro produttivo, poiché, ieri come oggi, la partecipazione delle donne al mercato del lavoro è fortemente condizionata dalle responsabilità familiari. Ciò si traduce nell’accettazione delle disparità di genere che esistono, ancora oggi, nel mercato del lavoro. Un RdB come risposta alla “questione di genere” dimostra molto chiaramente come questa proposta, presa singolarmente, non faccia altro che mantenere lo status quo.
Non credo quindi che, preso singolarmente, il RdB possa fornire una risposta all’insicurezza sociale. Proposte di politica economica “di classe” dovrebbero essere a tutto tondo, concentrandosi su tutti gli elementi che determinano le attuali condizioni di lavoro e di vita. Al contrario la proposta del RdB è sempre presentata a sé stante: si propone il RdB come l’unica soluzione dell’insicurezza sociale, mantenendo inalterati gli altri elementi del sistema. Non capisco, inoltre, perché il RdB venga proposto in contrapposizione ad altre rivendicazioni. L’insicurezza sociale non si risolve solo con una trasferimento monetario, come è il RdB, ma soprattutto con condizioni lavorative più sane e con un welfare in beni/servizi veramente universale e funzionante.
Una politica economica “di classe” con l’obiettivo della riunificazione di un mondo del lavoro sempre più debole e frammentato deve essere, necessariamente, più onnicomprensiva e non limitarsi alla richiesta di “un reddito per tutti e tutte”. Ritengo la proposta del RdB accettabile solamente se inserita in un quadro più ampio. Prima di tutto, andrebbero discusse la messa al lavoro, il contenuto del lavoro, il “cosa, come, quanto e per chi si produce”, accompagnando la discussione con proposte di riduzione della giornata lavorativa e di aumenti salariali. Inoltre, andrebbe rivendicata la cancellazione di tutta la legislazione che ha introdotto precarietà e flessibilità, e delle riforme pensionistiche che hanno allungato la vita lavorativa riducendo, contemporaneamente, le pensioni. Infine, ma non meno importante, andrebbe ripensato tutto il sistema del welfare (sia i trasferimenti monetari, all’interno dei quale si colloca il RdB, che l’offerta di beni/servizi), rendendolo veramente universale e gratuito, accompagnandolo ad una revisione del sistema fiscale, per renderlo più equo e più progressivo, combattendo veramente elusione ed evasione. Queste proposte eviterebbero fasulle contrapposizioni tra “redditisti”, da un lato, e “lavoristi” e “salarialisti” dall’altro, e permetterebbero l’apertura di un vero dibattito sulle condizioni di lavoro e di vita oggi.

*Giovanna Vertova insegna economia all’Università di Bergamo. Questo articolo è apparso sul sito www.palermo-grad.com il 17 giugno 2017.

1. Fonte: www.basicincome.org/basic-income
2. L’interpretazione operaista, poi degenerata in quella post-operaista, ha fatto un feticcio del “frammento sulle macchine” nei Grundrisse di Marx. Non solo ne è stata tratta una filosofia a disegno della storia (dalla sussunzione formale a quella reale), ma la si è poi degradata a sequenza di figure sociologiche del mondo del lavoro (operaio di mestiere, operaio massa, operaio sociale, lavoratore cognitivo cosiddetto immateriale, immediatamente “produttivo”, perno del cognitariato, e così via). Il tutto all’insegna di notevoli confusioni concettuali e interpretative. Il brano di Marx è non poco problematico: si presenta come una troppo facile teoria del crollo quando lo stadio delle macchine evolve nel primato del general intellect, a causa della riduzione del tempo di lavoro diretto contenuto nelle merci che ne consegue. Ne Il Capitale Marx stesso chiarirà che la riduzione del tempo di lavoro individuale non è affatto in contrasto con l’aumento del tempo di lavoro totale; il quale è anzi sistematicamente spinto dalla lotta di concorrenza dei molti capitali e della simbiotica espansione dell’estrazione di plusvalore assoluto e di quello relativo. Come spesso capita, l’errore di ieri, che aveva una sua grandezza, si riproduce ai nostri giorni in forme degenerate e impoverite. Nel discorso post-operaista di oggi, dove si proclama spesso l’esaurimento della teoria del valore, si fa grande confusione tra, da un lato, la produttività di valore d’uso, di ricchezza (cui certo contribuisce il general intellect, e che è però appannaggio del capitale che include in sé il lavoro concreto) e, dall’altro, la produttività di valore e di denaro (che resta funzione esclusiva del lavoro astratto, il lavoro vivo eterodiretto dal capitale). E si afferma l’esaurimento del lavoro salariato, quando esso ancora si espande su scala planetaria. Si pretende che la cooperazione sociale del lavoro sia un parto autonomo del lavoro che “attualisticamente” muoverebbe il capitale, e non, invece, l’esito della forma determinata dell’inclusione del lavoro dentro il capitale. Si confonde l’attività di produzione e di consumo: se è vero che il consumatore oggi partecipa, più che in passato, alla definizione del valore d’uso sociale della merce (la figura del prosumer), ciò non ha nulla a che vedere con una generica produttività della “vita” in quanto tale, tesi che ha raggiunto vette di involontaria comicità. E si potrebbe proseguire. Su tutto ciò si vedano le condivisibili critiche di Riccardo Bellofiore e Massimiliano Tomba in due loro scritti a quattro mani: la postfazione al bel volume di Steve Wright, L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo (Edizioni Alegre, 2008); ed il capitolo “The “Fragment on the Machines” and the Grundrisse. The Workerist Reading in Question”, nel volume Beyond Marx. Theorising the Global Labour Relations in the Twenty-First Century, a cura di Marcel van der Linden e Karl Heinz Roth (Brill, 2014, pp. 345-367).
3. La Speenhamland Law viene analizzata da Polanyi ne La grande trasformazione (1984, Einaudi, capitolo settimo): essa introduce un sistema di sussidi da aggiungere ai salari, in relazione al prezzo del pane. Polanyi sostiene che questo sistema: “introduceva una innovazione sociale ed economica come quella del «diritto al vivere»”. E prosegue: “Nessuna misura fu mai più universalmente popolare. I genitori venivano liberati dal peso economico dei loro figli e i figli non erano più dipendenti dai genitori; i datori di lavoro potevano ridurre i salari a volontà e i lavoratori erano al sicuro dalla fame sia che lavorassero sia che non lavorassero.” (sottolineature mie). Più avanti, prosegue: “Alla lunga il risultato fu agghiacciante. […] Poco a poco la gente della campagna fu immiserita.”
4. I paesi che hanno una misura di RdB incompatibile si contano sulle dita di una mano monca. Per quanto ne so, l’Alaska.