Intervista con Gilbert Achcar raccolta da Alan Maass
Gli Stati Uniti si sono fortemente concentrati sullo smantellamento dello Stato Islamico in Iraq e Siria e sembrano aver avuto la meglio con la cacciata dell’ISIS dalle sue principali roccaforti, in entrambi i Paesi. Prima domanda: cosa accadrà ora allo Stato Islamico?
L’ISIS ha ovviamente subito una grave sconfitta. Pensavano di essere riusciti a costruire uno Stato, un califfato che sarebbe durato per molto tempo in un’ampia porzione di territorio in Siria ed Iraq, ed hanno fondamentalmente perso tutto questo. È durato circa tre anni. Si potrebbe anche affermare che sia già stata un’impresa riuscire a tenere un territorio così vasto per così tanto tempo, praticamente contro tutti. Infatti questo è l’unico gruppo contro il quale vi è stata una certa unanimità di condanna da parte di tutte le altre forze coinvolte nella regione.
L’ISIS ha subìto un duro colpo, certo, ma ciò non significa che sparirà. Moltissimi dei suoi combattenti sono riusciti a far perdere le loro tracce in Iraq e Siria e hanno filiali in diversi altri Stati. Come nel caso di al-Qaeda, si è visto che il terrorismo può muoversi nell’ombra con una propria rete.
Sono sicuro che vi sarà un’ondata di questo terrorismo nell’immediato futuro perché non c’è un modo reale per sbarazzarsi di un simile flagello, senza cambiare le condizioni che lo producono.
Oggi, tali condizioni sono complesse. Esse includono, prima di tutto, il terrorismo di Stato, cominciando con quello di Israele e quello perpetrato dalla dominazione imperialistica occidentale nella regione. Molto di ciò che è successo nel mondo sin dal 1990 trova le proprie radici nelle guerre intraprese dagli USA. contro l’Iraq nel 1991 e nel 2003 e la conseguente occupazione di questo Paese.
Ma vi sono anche molti regimi dispotici nella regione che praticano il terrorismo di Stato e generano lo stesso odio, creando di fatto un terreno fertile per gruppi come l’ISIS.
Nel complesso, si sta verificando ciò che ipotizzai in un libro che scrissi dopo l’11 settembre, “Scontro tra barbarie”. Le barbarie dei più forti creano le condizioni per una contro-barbarie dei deboli.
Questo è ciò a cui stiamo assistendo – e continueremo a vedere per molto tempo, – finché si perpetuerà la barbarie dei forti quelle degli Stati Uniti, la più mortale di tutte, o della Russia, o dei regimi dispotici locali come la tirannia di Assad in Siria – il più barbarico dei governi regionali – o la dittatura di Sisi in Egitto; giusto per citarne un paio.
L’altra faccia della medaglia, legata alla conquista dei bastioni dell’ISIS in Iraq e Siria, è la configurazione “regionale” nella quale si inscrive l’imperialismo americano. Qual è la posizione degli Stati Uniti verso le potenze regionali in Medioriente e i propri rivali imperialisti a livello internazionale?
Non vi è dubbio che gli Stati Uniti si trovino al punto più basso del proprio potere d’influenza nella regione dal 1990. Quando gli Stati Uniti sono intervenuti, schierando forze massicce nella regione alla vigilia della prima guerra contro l’Iraq, gli Stati Uniti raggiunsero l’apice nella storia della propria egemonia regionale.
Questo è avvenuto nella fase di agonia dell’Unione Sovietica, consentendo a Washington di acquisire pieno controllo della situazione mediorientale. Se si confronta la situazione attuale con il picco storico di allora, si ha l’idea di quanto gli Stati Uniti siano precipitati in basso.
La dimostrazione più lampante è stata la sollevazione del 2011, l’anno in cui gli Stati Uniti hanno dovuto ritirarsi dall’Iraq senza aver realizzato nessuno dei risultati previsti dall’occupazione militare, lasciando il Paese sotto il controllo di uno dei nemici mortali di Washington, l’Iran. Teheran, oggi, ha molta più influenza sul governo iracheno, rispetto a Washington.
Il 2011 è stato anche l’anno in cui i principali alleati di Washington hanno dovuto fronteggiare le rivolte di massa. È stato il caso di Hosni Mubarak in Egitto, dopo il dittatore Tunisino Zine El Abidine Ben Ali. Il libico Muammar Gheddafi, schieratosi con Washington nel 2003, li ha seguiti, anche in Bahrein è scoppiata una rivolta, spaventando tutte le monarchie petrolifere del Golfo.
L’intervento militare in Libia in appoggio alla sollevazione contro Gheddafi è stata l’occasione per Obama di lanciare la sua famosa formula “leading from behind” – dirigere dietro le quinte – questo rifletteva il fatto che gli USA avevano abbassato notevolmente il loro profilo interventista rispetto ai propri alleati Europei nella NATO, che presero quindi il controllo.
Ma questo intervento si è rivelato un fiasco. Il tentativo di controllare l’insurrezione libica e di portarla ad una conclusione che avrebbe conservato lo Stato della Libia, è fallito miseramente e lo Stato libico è collassato completamente.
La Libia è diventato dunque l’unico Stato arabo nel quale la rivoluzione è riuscita a rovesciare il regime al potere, con il problema che non esisteva alcuna alternativa, per non dire progressista. Da quel momento si è imposto il caos.
La “soluzione yemenita” – un compromesso tra il gruppo dominante e l’opposizione fiancheggiata dalle monarchie petrolifere del Golfo, con il supporto americano, tanto osannata da Obama, fino ad elevarla a modello applicabile in Siria – è fallita tragicamente dopo meno di tre anni.
Gli Stati Uniti quindi hanno accumulato una lunga serie di rovesci dopo l’invasione dell’Iraq. La guerra in Iraq verrà ricordata nella storia come uno dei maggiori fiaschi della storia imperialistica americana: un’occupazione suicida portata avanti dall’amministrazione Bush, contro i consigli dei più stretti amici della famiglia Bush, che ben conoscevano la situazione che gli Stati Uniti si sarebbero trovati ad affrontare.
Come risultato Washington è al punto più basso rispetto a qualche decennio fa. Nel 2014, avevano preso a pretesto l’espansione dell’ISIS in Iraq per organizzare un’ingerenza seppur limitata. È stata creata una coalizione per lanciare una campagna aerea contro l’ISIS, ristabilendo una certa presenza in Iraq e facendo la stessa cosa in Siria.
Il principale intervento sul campo in Siria di Washington è stato quello al fianco delle forze curde. Questo di per sé rappresenta un paradosso, poiché queste forze provengono da una tradizione di sinistra radicale – eppure sono comunque principali alleati degli U.S.A. contro l’ISIS in Siria. Considerando questo fatto “ridicolo”, Donald Trump ha già espresso la sua volontà di cambiare rotta.
Ancora una volta questo spiega la debolezza generale di Washington – mentre l’Iran espande il proprio potere, la sua influenza ed il suo interventismo diretto nella regione. E la Russia, ovviamente, esce come la grande vincitrice in tutta questa situazione, dalla Siria alla Libia.
Mosca ha cominciato ad intervenire direttamente in Siria con la sua aviazione nel 2015. All’epoca l’amministrazione Obama diede il benvenuto all’interventismo russo con il pretesto che la Russia avrebbe combattuto la guerra contro l’ISIS. Ma tutti sapevano bene che l’obiettivo principale di Mosca era l’opposizione siriana ad Assad e non l’ISIS.
Essenzialmente, Washington ha lasciato alla Russia mano libera nel suo appoggio al regime Siriano per schiacciare l’opposizione. Dopo l’elezione di Trump, ma prima che diventasse presidente, la Russia ha iniziato a ritagliarsi il ruolo di mediatore in Siria, agendo fin dall’inizio come arbitro tra il regime e l’opposizione, insieme all’Iran e alla Turchia.
In conseguenza è sorto un altro problema. Nell’autunno del 2016, la Turchia irritata dall’appoggio di Washington alle forze curde in Siria, si è spostata nell’alleanza con la Russia, sferrando un altro duro colpo all’influenza statunitense nella regione.
Oggi, la Russia sembra essere il Paese che sta guadagnando terreno nell’intera regione, mentre gli Stati Uniti lo stanno perdendo. Mosca sembra oggi il vero caposaldo dell’ordine repressivo regionale. Dopo il ruolo brutale che ha giocato in Siria, gli sono state promesse basi missilistiche aeree in Egitto da Sisi, al fine di sostenere il suo intervento in Libia al fianco degli Emirati Arabi Uniti, in appoggio del potente signore locale il “maresciallo” Khalifa Haftar. Tutte le monarchie petrolifere, inclusi i sauditi, stanno corteggiando Mosca e comprano armamenti russi.
Donald Trump non invertirà questo crescente declino americano. Al contrario, lui sarà la ragione per un ulteriore e più prolungato peggioramento dell’influenza americana nell’area mediorientale.
Trump ha annunciato che gli Stati Uniti riconosceranno Gerusalemme come capitale di Israele. Che impatto avrà questa decisione?
Questa è una provocazione totalmente gratuita che solo un uomo irrazionale come Trump avrebbe potuto lanciare – irrazionale, ovviamente, secondo gli standard degli interessi fondamentali dell’imperialismo statunitense.
Certamente non è negli interessi degli Stati Uniti fare questo gioco. Trump sta agendo in questo modo apparentemente senza alcuna ragione, ma solo per compiacere l’ala più reazionaria dei propri sostenitori ed al tempo stesso soddisfare il suo narcisismo per aver “avuto successo” dove i suoi predecessori hanno fallito nel mantenere le loro promesse elettorali.
Lo sta facendo senza offrire nulla per tentare di calmare i palestinesi. Non si è neppure assicurato nessuna misura favorevole da parte del governo di Netanyahu in cambio di questo regalo. Questo non ha praticamente alcun senso dal punto di vista americano nelle politiche mediorientali.
Ciò costerà caro a Washington, così come alla sua immagine, che, grazie a Trump, nel mondo arabo, in quello musulmano e nel “Sud” (del mondo, ndt) più in generale è la peggiore che gli Stati Uniti abbiano mai avuto. Il modesto miglioramento dell’immagine che era stato ottenuto sotto Obama è stato completamente cancellato e sostituito con l’immagine più orribile che gli Stati Uniti abbiano mai avuto nel mondo.
Il risultato potrà essere solo più odio nei confronti gli Stati Uniti, portando ancora più terrorismo – l’arma dei deboli –. Ed ancora una volta, la popolazione statunitense pagherà il prezzo della rapacità dei propri governanti, esattamente come accadde l’11 settembre, che è stato il risultato diretto della politica degli Stati Uniti in Medioriente.
Mi lasci porle una domanda su un’altra parte di questo quadro: mi può parlare degli sviluppi in Arabia Saudita e delle manovre del Principe Mohammed bin Salman?
Quello che accade nel regno saudita è, prima di tutto, un problema interno : è una lotta per il potere. Ciò che sta avvenendo è una sorta di “rivoluzione di palazzo”, ma relativamente lenta nel senso che è a tappe, fino al recente drammatico arresto di molti magnati tra gli emiri ed altri membri dell’aristocrazia del Paese.
Stiamo assistendo ad un tentativo da parte di Mohammad bin Salman (spesso citato con le sole iniziali MBS) di trasformare il regno in qualcosa di simile al modello tradizionale delle monarchie, dove esiste solo una piccola famiglia regnante. Nel regno Saudita, al contrario, vi è un’estesa famiglia dominante formata dai figli di Abdulaziz (Ibn Saud), un re che ne ha avuti tanti – 45 figli maschi tra i 100 che ha avuto – poiché il numero di mogli che ha avuto era più di 20!
Mohammed bin Salman sta tentando di porre fine a questa tradizione di dominio della famiglia allargata e concentrare il potere nelle sue mani, inaugurando una nuova linea dinastica. Lo fa dalla posizione di principe ereditario, dal momento che suo padre è il re e appoggia qualsiasi cosa lui faccia, quindi ha carta bianca.
È un giovane ambizioso che è diventato ministro della Difesa nel gennaio 2015 dopo che suo padre Salman è diventato re, quando non aveva ancora 30 anni.
La prima cosa che ha fatto in qualità di ministro è stata quella di lanciare la guerra in Yemen, una campagna di bombardamenti devastante e sanguinosa dei sauditi e dei loro alleati. Egli ha fallito perché le aspettative che i sauditi e la coalizione avrebbero risolto la questione in breve tempo si è rapidamente rivelata completamente sbagliata.
Come si può vedere dai recenti avvenimenti – specialmente dopo l’omicidio del presidente (yemenita, ndt) Ali Abdallah Saleh (il 4 dicembre, ndt) dopo aver annunciato una nuova alleanza con i sauditi – essi sono molto lontani dalla vittoria. Sono riusciti solo a causare quella che è già la tragedia umanitaria peggiore del nostro tempo, con quasi 7 milioni di persone che rischiano la morte per fame e quasi un milione quella per colera.
Mohammed bin Salman ha spostato dunque la sua attenzione ad affari più interni, il precedente principe ereditario, designato secondo la vecchia tradizione è stato semplicemente rimosso da quella posizione, consentendo a Mohammed bin Salman di prenderne il posto. Questo è stato un momento chiave nella “rivoluzione del palazzo” – la prima e più importante rottura con la tradizione.
Da allora in poi, Mohammed bin Salman ha consolidato il suo potere eliminando i potenziali concorrenti. Chiunque possa ostacolarlo viene represso, indagato ed arrestato usando vari pretesti, uno di questi è la corruzione.
Chiaramente, Mohammed bin Salman è ricorso a questo argomento perché è popolare e perché è innegabile che vi sia un’enorme numero di corrotti nello Stato saudita. Ma ciò non toglie che questo sia solo un pretesto.
Lo stesso Mohammad bin Salman è molto corrotto – è un giovane che può usare come vuole un grande capitale economico, mentre impone austerità ai sudditi del suo regno. Lo ha dimostrato l’anno scorso quando si invaghì dello yacht appartenente ad un magnate russo comprandolo per mezzo miliardo di euro – 550 milioni di dollari. Questo dà l’idea di chi stiamo parlando.
Quali sono i riflessi di questa lotta per la spartizione del potere nella regione? Ad esempio il regime saudita sembra aver tentato di intervenire in Libano mettendo il proprio alleato locale, il Primo Ministro Saad Hariri, nelle condizioni di rassegnare le dimissioni. Tutte queste mosse sono legate alle rivalità di vecchia data con l’Iran, giusto?
Il Regno saudita è sempre più preoccupato dall’espansionismo iraniano – prima in Iraq, poi in Siria, fino al Libano. Ora c’è un corridoio controllato dagli iraniani che va da Teheran a Beirut, con la presenza militare iraniana diretta e indiretta.
I sauditi sono estremamente preoccupati per questo, perché loro considerano l’Iran il loro nemico per eccellenza. Lo sono sin dalla rivoluzione islamica in Iran che ha abbattuto la monarchia nel 1979 – uno scenario da incubo per i sauditi che è coinciso, lo stesso anno, con una sollevazione ultra-fondamentalista in casa, alla Mecca.
Quando Salman divenne re nel 2015, spinse il regno saudita verso una politica di unificazione delle forze sunnite nella regione. Ha proseguito questa politica per circa due anni, anche ristabilendo rapporti limitati con i Fratelli Musulmani.
Questo è continuato finché Donald Trump è diventato presidente. Trump, consigliato dallo sciagurato Stephen Bannon, ha spinto per un’inversione di questa politica e per un’intensificazione dello scontro con entrambi, l’Iran da una parte e i Fratelli Musulmani dall’altra.
Questo ha portato, alla fine dei primi sei mesi di quest’anno, alla rottura dell’Arabia Saudita con il Qatar, che è il principale sostenitore dei Fratelli Musulmani. Fino a quel momento, il Qatar era coinvolto nei bombardamenti della coalizione in Yemen. Ma è stato cacciato dalla coalizione per questo motivo. Ma questo è stato un passo falso ed ha avuto l’effetto contrario a quello sperato.
L’escalation contro l’Iran è ciò che ha portato al recente episodio con il Libano. Hariri è interamente assoggettato ai sauditi. La famiglia Hariri ha fatto la sua fortuna nel regno saudita, tramite le sue relazioni con i membri della famiglia regnante, che è un prerequisito di tutti coloro che vogliono fare soldi nel regno.
Il messaggio lanciato dai sauditi è questo: noi non vogliamo che la “nostra gente”– cioé Hariri – partecipino ad un governo dominato da “gente dell’Iran”, ossia Hezbollah.
Questo è il messaggio, che però è caduto nel nulla a causa dell’intervento dei governi occidentali, inclusi gli Stati Uniti e la Francia. Il presidente francese Macron ha avuto un ruolo attivo nel far uscire Hariri dal regno e riportarlo in Libano, dove ha raggiunto un nuovo compromesso, precisamente ciò che i sauditi volevano non avvenisse. La situazione però è molto instabile
Può delineare ora delle conclusioni generali sulla situazione delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni, sette anni dopo la Primavera araba? Lei ha scritto che bisogna capire come questo sia un processo ancora in corso – non spezzato in episodi separati, ma continuo.
Innanzitutto occorre capire che quella che è stata chiamata “Primavera araba” non si limitava ai problemi di democrazia e libertà, come riportato dai media. È stata un’esplosione sociale ed economica molto più profonda a causa dell’accumulazione di danni sociali. Percentuali da record della disoccupazione, specialmente tra i giovani; basso tenore di vita; alti livelli di povertà. Tutto questo è emerso con forza nel 2011.
Ecco perché ho sostenuto fortemente che era cominciato quello che ho definito un processo rivoluzionario a lungo termine, che sarebbe durato molti anni – ora si può dire senza paura di sbagliare: decenni.
Non ci sarà davvero una nuova stabilizzazione in questa parte del mondo per un tempo molto lungo perché le condizioni per la stabilizzazione è un radicale cambiamento sociale e politico che avvierebbe la regione sulla via di uno sviluppo economico e sociale di genere molto diverso. Senza un cambiamento anche radicale, l’instabilità del Medio Oriente non sarà risolta.
Il problema immediato è che le forze progressiste, che sono emerse dalle Primavere arabe, negli anni post-2011 quasi dappertutto sono state messe ai margini. Da quel momento, la regione è stata lacerata tra due forze reazionarie.
Da un lato vi sono i regimi – o i loro resti nei Paesi in cui sono stati rovesciati o significativamente indeboliti. E dall’altro, il fondamentalismo islamico – principalmente i Fratelli Musulmani, finanziati dal Qatar ed i salafiti, ispirati dai sauditi – che sono sorti negli anni ’70 e ’80 sul cadavere di una precedente ondata di mobilitazione di sinistra, nella quale i partiti nazionalisti e quello comunista hanno svolto un ruolo chiave.
La realtà è che la regione intera si è spostata dal 2013, dalla fase rivoluzionaria precedente, definita Primavera araba, ad una fase controrivoluzionaria. Quest’ultima è caratterizzata dallo scontro tra i due poli controrivoluzionari – quello dei regimi e dei loro concorrenti fondamentalisti islamici.
Questo è ciò che sta avvenendo nelle guerre esplose in Libia, Siria e Yemen. In pratica si trovano dappertutto fondamentalmente quegli stessi motivi. Esistono nella situazione di grande tensione che perdura in Egitto: dove hanno assunto la forma del ritorno del vecchio regime che si vendica schiacciando i Fratelli Musulmani.
Noi siamo nel mezzo di questa fase controrivoluzionaria. Ma alla stesso tempo si può osservare, a partire da alcuni fattori, che i problemi sociali stanno tornando a galla. Non solo ci sono ancora tutti i fattori sociali ed economici che hanno condotto all’esplosione del 2011, ma questi sono esacerbati.
Questo condurrà ad esplosioni future: questo è sicuro. Noi possiamo sperare solamente che il potenziale progressista emerso con forza nel 2011 sia capace di ricostituirsi ed organizzarsi per tentare di prendere il potere. Questo è quello che è mancato alla Primavera araba: organizzazioni che incarnino questo potenziale, con una strategia chiara nel costruire un’alternativa ai vecchi regimi ed ai loro contendenti fondamentalisti.
Gilbert Achcar è docente di relazioni internazionali presso il SOAS dell’Università di Londra. Ha scritto numerosi libri dedicati al Medioriente e in particolare alle rivolte scoppiate nel 2011.
Questa intervista è stata pubblicata l’11 dicembre 2017 sul sito: socialistworker.org
Gilbert Achcar, Scontro tra barbarie. Terrorismi e disordine mondiale, edizioni Alegre, Roma 2006, pagg. 176