Intervista a Michel Warschawski*
Rproject. Quale è stato l’impatto sulla società israeliana della decisione di Donald Trump di riconoscere unilateralmente Gerusalemme capitale di Israele?
Michel Warschawski. L’impatto c’è stato più sulla classe politica che sull’opinione pubblica. Quasi tutti i partiti politici hanno salutato positivamente la decisione di Trump, minimizzando il fatto che alle Nazioni Unite la quasi totalità degli Stati si sono espressi contro questa decisione.
Rproject. Sì, ma si sa bene che Israele non ha mai tenuto in conto le decisioni delle Nazioni Unite…
Michel Warschawski. Benyamin Netanyahu ha ripetuto la posizione classica di Israele, da decenni, in questi casi: l’ONU è un organismo antisraeliano se non antisemita.
Netanyahu ha ripetuto che è un dato di fatto che Gerusalemme è la capitale di Israele: che sia riconosciuto o meno. Ma che Trump lo abbia dichiarato annunciando il trasferimento dell’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme è un incoraggiamento. Detto questo non penso che gli Stati Uniti trasferiranno l’ambasciata a Gerusalemme, lo avevano detto anche Clinton e Bush. Sono parole al vento…
Rproject. Perché sono parole al vento?
Michel Warschawski. Perché c’è un contesto regionale che non consentirà di farlo e che Trump deve tenere in conto. Gli stessi collaboratori di Trump dicono che il trasferimento avverrà in due anni.
Rproject. Tornando al contesto regionale, l’Arabia Saudita e gli altri Paesi del Golfo non hanno avuto una reazione eccessiva alla decisione di Trump. Come ci si poteva aspettare. D’altronde Netanyahu ha invitato in Israele, questa volta ufficialmente, il re dell’Arabia Saudita. La domanda, quindi, è: secondo te la decisione di Trump è legata anche ad un contesto regionale in cui le agende dei Paesi più conservatori e quella di Israele si sono avvicinate?
Michel Warschawski. Il contesto regionale è determinato dalla concorrenza tra il regime iraniano e l’Arabia Saudita. Israele ha fatto secondo me una scelta ancora una volta stupida: quella di identificarsi totalmente con l’Arabia Saudita, che non ha lo stesso peso dell’Iran che fa delle pressioni su Israele soprattutto attraverso il Libano. L’Arabia Saudita ha molto denaro, ma non ha i mezzi che ha l’Iran per far pressione su Israele, secondo me…
Rproject. L’impressione è che la dichiarazione di Trump sia un grande regalo ad Israele che consente anche agli Stati Uniti di recuperare un protagonismo a livello regionale che è al tasso più basso da decenni.
Michel Warschawski. Occorre dire che Barack Obama aveva fatto la scelta di relativizzare la centralità del Medioriente nella strategia internazionale americana. Trump, nella logica neoconservatrice, ha rilanciato l’egemonia americana nella regione. E come molte cose che ha fatto Donald Trump, questa scelta è contraria ai suoi interessi strategici. Ossia, se vuole riaffermare l’egemonia nella regione ciò non può avvenire provocando tutto il mondo arabo i cui regimi sono destabilizzati da questa dichiarazione. Un’altra volta è fare una cosa e il suo contrario contemporaneamente. Non c’è alcuna coerenza tra questa decisione provocatoria, che non ha possibilità pratica ma indebolisce l’egemonia americana nella regione.
Rproject. In campo palestinese vi sono state delle manifestazioni, assai prevedibili. Secondo te è possibile che la decisione di Trump possa aiutare le due organizzazioni che oggi pretendono di rappresentare il popolo palestinese, Hamas a Gaza e l’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania, a riconquistare il consenso perduto?
Michel Warschawski. Sì. Ci sono due elementi. Il primo è rappresentato dalla fortissima volontà popolare, direi quasi unanime, di riunificazione politica tra Gaza e la Cisgiordania. Il secondo elemento è rappresentato dal fallimento della strategia di Mahmud Abbas, il quale ha sempre puntato sulla possibilità degli Stati Uniti di essere dei mediatori che facessero pressione su Israele affinché accettasse di negoziare un accordo con i palestinesi. Mahmud Abbas ora ha detto che gli Stati Uniti non possono più svolgere il ruolo di mediatori dopo questa decisione unilaterale. Anche se ciò non vuol dire che Mahmud Abbas non tornerà a fare la corte agli americani, più in là, perché intervengano nuovamente, ma per il momento la fine delle illusioni che aveva il presidente dell’ANP sul ruolo di mediatori degli Stati Uniti rafforza l’alleanza fra Hamas e Fatah… Ma la questione è l’unità intorno a quale strategia. Questa è la domanda che si pone ora, anche se io mi guardo bene dal rispondere perché implica un grande dibattito strategico all’interno della resistenza palestinese.
Rproject. Sembra che approfittando dell’uscita di Trump. La Russia tenti di accreditarsi come nuovo mediatore tra palestinesi e israeliani. Che ne pensi?
Michel Warschawski. Non c’è dubbio che la Russia da una decina d’anni è tornata in Medioriente. All’epoca d Eltsin era totalmente marginale nella regione. Con lo scoppio della guerra civile in Siria e la lotta contro Daesh la Russia è diventata un fattore importante e imprescindibile nella regione. Cosa che permette ai palestinesi di vederlo come un possibile sostegno. Anche se non penso che Putin sia un alleato dei palestinesi.
Rproject. Dopo la decisione di Trump molti hanno detto che è stata definitivamente eliminata l’ipocrisia sulla soluzione dei due Stati e che ora si apre la strada verso un unico Stato. Che ne pensi?
Michel Warschawski. Penso che non sia un argomento molto intelligente. Se i palestinesi non sono riusciti ad imporre una soluzione di compromesso, ossia i due Stati: dove possono trovare l’energia per cambiare i rapporti di forza per arrivare ad una soluzione al 100% contraria ai desideri della popolazione israeliana e della sua classe politica?
La questione non è “quale soluzione”, ma quale strategia per modificare i rapporti di forza per dare ai palestinesi i mezzi innanzitutto per mettere in campo una resistenza per arrestare l’arretramento costante. Discutere delle soluzioni a due Stati o uno Stato penso sia una perdita di tempo. Quando cambieranno i rapporti di forza si vedrà che soluzione sarà possibile, anche dettata dalla realtà politica. Questo è avvenuto in tutte le guerre anti-coloniali precedenti. Anche in Sudafrica quando i rapporti di forza sono diventati sfavorevoli all’ apartheid non è rimasta altra soluzione in campo che un compromesso fra l’ANC e il governo De Klerk.
Rproject. Sì. Ma i rapporti di forza potranno cambiare quando sarà più forte l’alleanza tra i palestinesi e quella parte, seppure minoritaria, di israeliani che prendono coscienza della necessità di opporsi ai loro governi, ma oggi sembra che invece l’opinione pubblica israeliana appoggi largamente le scelte del governo, scivolando sempre più a destra.
Michel Warschawski. Ci sono due fattori. Al momento la situazione regionale e internazionale come i rapporti di forza con i palestinesi permettono al governo di estrema destra, in sella da quasi dodici anni, di realizzare le sue politiche e di ignorare grandemente ogni possibilità eventuale di negoziazione e di compromesso.
Invece, l’opinione pubblica è divisa in due parti: una che sostiene le politiche di Benyamin Netanyahu e un’altra che vorrebbe qualcos’altro ma che non si trova di fronte nessuna urgenza: sicurezza, prosperità economica, ecc. Quindi la metà moderata dell’opinione pubblica israeliana non è per niente mobilitata su questi aspetti. Si dice che arriverà il giorno in cui questo conflitto finirà. Ma per ora è concentrata su un altro aspetto della politica israeliana (oggi al centro del dibattito e delle mobilitazioni): la corruzione. Abbiamo di fronte un potere politico che affonda nella corruzione in modo drammatico. Penso che Netanyahu non terminerà il suo mandato perché tutti intorno a lui (i suoi consiglieri più stretti, i ministri) sono indagati o stanno per essere giudicati per atti di corruzione. Oggi l’agenda politica in Israele non riguarda il conflitto con i palestinesi, direi, ma il degrado rapido e drammatico della società israeliana a causa della corruzione.
Rproject. Ma a tuo parere ci sono speranze che l’opinione pubblica israeliana si confronti con il conflitto contro i palestinesi?
Michel Warschawski. Non a breve termine perché per ora la situazione è buona, vivibile e gestibile. Con in più un presidente americano che sostiene incondizionatamente la politica dura del governo israeliano e la spinge in avanti. A medio e breve termine l’opinione pubblica non chiederà un cambio di politica perché può vivere l’occupazione coloniale senza porsi problemi di coscienza. Non è una buona notizia, ma è la realtà. A breve non ci si può attendere un nuovo movimento di massa contro la guerra e l’occupazione coloniale.
*Intervista con Michel Warschawski, condirettore dell’Alternative Information Center di Gerusalemme raccolta per Rproject da Cinzia Nachira