Nelle ultime settimane si è sviluppato un dibattito attorno all’ipotesi avanzata dalla multinazionale del commercio online Amazon di dotare i propri dipendenti italiani di un bracciale elettronico che ne controlli l’attività lavorativa.
La concomitanza con la più complessa campagna elettorale della storia recente ha spinto la totalità del mondo politico istituzionale a gridare ipocritamente allo scandalo, con l’appoggio compiacente dei mass media, tutti concordi nel denunciare il rischio di un controllo alla “Grande Fratello” sulle lavoratrici e sui lavoratori e, in prospettiva, di una loro trasformazione in “robot”.
Tutti costoro fingono di non sapere quali siano già ora, senza braccialetto, le condizioni di lavoro all’interno del gigante dell’e-commerce. Per i distratti, basti leggere quanto ha scritto un giornalista inglese, Alan Selby, del Mirror, solo tre mesi fa, quando ha pubblicato una video inchiesta sull’esperienza trascorsa facendosi assumere per qualche tempo nell’impianto Amazon di Tilbury nell’Essex.
L’articolo e i video che lo corredavano testimoniano dei ritmi e del controllo stringente sul lavoro dei dipendenti, della ferocia dei turni che fanno perdere il senso del ciclo giorno/notte, della continua minaccia di licenziamento per chi si discosta anche solo di qualche secondo dagli standard dei tempi previsti dall’azienda. Per evitare che il dipendente si dimentichi i ritmi da rispettare, ognuno ha davanti a sé un display che gli mostra in “tempo reale” lo stato del proprio lavoro, se è in linea o se deve affrettarsi a recuperare. E’ frequente il malore dei dipendenti e Selby racconta (e documenta con foto) delle numerose ambulanze chiamate per soccorrere chi sviene.
Il ritmo impone ai dipendenti di preparare un pacchetto almeno ogni 30 secondi e, per reperire i prodotti da imballare, si devono percorrere a piedi, in genere di corsa, una media di 10 miglia (16,09 chilometri) ogni giorno. I continui picchi di lavoro impongono molto di frequente allungamenti dell’orario di lavoro, spesso fino e oltre le 55 ore settimanali.
Nonostante le dichiarazioni accomodanti dei dirigenti dell’azienda, che affermano di mettere il valore del lavoro umano al centro delle proprie preoccupazioni, in realtà ad Amazon a dettare legge e ad imporre i ritmi di lavorazione sono le macchine, i robot che movimentano i pallets, i nastri trasportatori, le impacchettatrici, i meccanismi di controllo, il feedback dei computer di gestione. I lavoratori sono ridotti ad accessori a buon mercato delle macchine, facili da sostituire, usa e getta.
Dunque, il ministro Calenda, Poletti, e tutti i vari politici istituzionali che si sono sperticati nel diffondere dichiarazioni scandalizzate sull’ipotesi dei bracciali Amazon sanno bene che in quell’azienda, peraltro come in migliaia di altre, la dignità e il rispetto del lavoro non sono a rischio, perché essi sono già calpestati quotidianamente anche senza i braccialetti.
Certo, i bracciali costituiscono un ulteriore colpo alle condizioni di lavoro in quell’azienda. E subordinano ancora di più il dipendente alle macchine e ai computer. “Servono a migliorare la prestazione del dipendente”, dichiara l’azienda. Cioè, ottimizzano ancora di più i ritmi, alzano gli standard orari e obbligano tutti a produrre di più in meno tempo.
Ma, come è stato denunciato anche sulla stampa in questi giorni, le condizioni di lavoro che la direzione di Amazon impiega e quelle che vorrebbe impiegare già esistono e sono diffusissime in tanti settori di lavoro. Basti ricordare ritmi e strumenti di lavoro delle cassiere dei grandi centri commerciali, la cui attività è controllata dal computer aziendale che segnala alla direzione tutte le volte che una cassa non smaltisce la clientela con la velocità che l’azienda impone. E i provvedimenti disciplinari, i trattamenti umilianti, le minacce e i licenziamenti che si riversano sulle cassiere che non riescono a rispettare quella velocità.
La multinazionale francese del bricolage Leroy Merlin, da parte sua, ha già dotato i dipendenti dei propri 54 punti vendita italiani di bracciali elettronici analoghi a quelli ipotizzati da Amazon, ma nessuno ha avuto granché da protestare. Si tratta di dispositivi che verificano i tempi di risposta dei lavoratori, anche qui in relazione ad una tempistica definita a tavolino dall’azienda. Sono dotati di strumentazione satellitare e dunque potenzialmente in grado di tracciare ogni spostamento di chi li indossa.
La multinazionale danese della movimentazione idrica DAB, che in Italia ha sede nel padovano, ha cercato di imporre ai dipendenti uno smartwatch, uno di quegli orologi elettronici connessi al computer centrale, anche qui allo scopo di “migliorare le prestazioni lavorative”, cioè di tagliare i tempi e riuscire a fare lo stesso lavoro con meno dipendenti. Fortunatamente, almeno per ora, le RSU aziendali della DAB sono riuscite a bloccare il progetto.
Tutto questo smentisce clamorosamente quella “fine del taylorismo” tanto raccontata negli scorsi anni, la presunta fine cioè di quell’organizzazione del lavoro che incatenava l’operaio alla catena di montaggio, facendo sì che lui operasse con i ritmi che la catena imponeva, come una sorta di propaggine dei meccanismi automatici gestiti dalla direzione aziendale. L’organizzazione del lavoro le cui nefaste caratteristiche vennero magistralmente denunciate da Charlie Chapin oltre 80 anni fa con il film “Tempi moderni”.
In realtà, il taylorismo non è sparito: nella grande azienda manifatturiera ha solo modificato la sua esplicitazione, introducendo una robotizzazione sempre più spinta e sfoltendo drasticamente la quantità di manodopera umana. Ma, contemporaneamente questo “nuovo” taylorismo si è diffuso a grandissima parte del mondo del lavoro, al commercio, alla logistica, ai servizi bancari e postali, ai call center, perfino a quasi tutto il lavoro della pubblica amministrazione, i cui addetti oggi sono monitorati minuto dopo minuto nella loro attività lavorativa.
In questi ultimi anni, lavoratrici e lavoratori hanno sofferto del perverso intreccio tra le conseguenze delle politiche neoliberali e l’uso capitalistico delle grandi innovazioni tecnologiche.
Gli straordinari progressi della digitalizzazione, delle telecomunicazioni, dell’informatica, che in un contesto socioeconomico diverso sarebbero potuti essere alla base di una altrettanto straordinaria liberazione dell’umanità dal lavoro salariato, ripetitivo e faticoso, sono stati invece utilizzati per opprimere ancora di più le persone costrette a vendere la propria forza lavoro per poter sopravvivere. L’automazione, che poteva essere l’occasione per una drastica e salutare riduzione degli orari di lavoro, per la realizzazione di quell’obiettivo, un tempo considerato utopico, del “lavorare meno, lavorare tutti”, è invece stata usata per intensificare, peggiorare e allungare il lavoro di alcuni e per espellere tanti altri dal ciclo produttivo, costringendoli alla disoccupazione o alla sottoccupazione. Ed è stata utilizzata per dequalificare le mansioni della maggior parte dei lavoratori, rendendoli tutti sempre più facilmente sostituibili, ricattandoli con il sottosalario e con la precarietà contrattuale o, addirittura, con il lavoro nero.
Le dichiarazioni di Calenda trascurano di dire che i bracciali elettronici, gli smartwatch, la digitalizzazione dei supermercati e tutti quei marchingegni che le aziende puntano ad utilizzare per tagliare manodopera e produrre di più con meno dipendenti non solo non sono illegali ma sono perfino incentivati e finanziati con il denaro pubblico, attraverso il piano nazionale “Impresa 4.0” che viene gestito proprio dal ministero per lo Sviluppo economico e che consente alle aziende di operare “superammortamenti”, facendo costare poco o niente quegli investimenti.
I rappresentanti del governo hanno anche sostenuto che il Jobs Act non autorizza tali strumentazioni. Invece non è così. La legge approvata alla fine del 2014 dal governo Renzi modifica in modo radicale l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori del 1970 che regolamentava in modo stringente tutti gli strumenti di controllo a distanza, consentendo alle aziende di utilizzare ogni strumento per vigilare sull’attività dei propri dipendenti, e di sanzionarli se del caso. Purché quegli strumenti abbiano una rilevanza ai fini del processo produttivo. E chi potrebbe negare che braccialetti, scanner, palmari o altri aggeggi analoghi non servano a migliorare la produttività? Non a caso sono finanziati con soldi pubblici grazie a “Impresa 4.0”…
Assistiamo così al paradosso, completamente opposto a quella che era la filosofia che nel 1970 aveva presieduto alla stesura e all’approvazione della Statuto dei lavoratori e cioè che, essendo il lavoratore parte debole nel rapporto con l’azienda, necessita di una tutela più forte di quella garantita dalla legge comune.
Infatti oggi, la lavoratrice e il lavoratore in azienda, grazie al Jobs Act, e in particolare grazie alla cancellazione della reintegrazione in caso di licenziamento ingiusto e alla liberalizzazione dell’uso degli strumenti di controllo, sono tutelati nella loro dignità meno di quanto le normative sulla privacy tutelino il comune cittadino.
E’ il risultato della vendetta padronale sul mondo del lavoro, della complicità di tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi 25 anni, delle direttive europee contro le conquiste operaie presentate come ostacoli allo sviluppo, della accondiscendenza dei gruppi dirigenti delle grandi organizzazioni sindacali che non hanno voluto opporsi realmente a queste politiche.
E non sarà nessuno di tutti quelli che si sono succeduti sul proscenio della politica in questi ultimi 25 anni a poter invertire di nuovo quel paradosso.
La contraddizione di un uso tendenzialmente schiavistico di un progresso tecnologico che al contrario avrebbe in sé potenzialità liberatorie potrà essere positivamente risolta solo riprendendo il cammino verso una società totalmente diversa, che rifiuti la priorità dei profitti e dei rapporti gerarchici tra chi comanda e chi deve solo obbedire e che si basi invece sulla priorità delle libertà individuali e collettive e sull’uguaglianza.