“Me too” con questo slogan molte attrici del cinema americano e europeo hanno denunciato le molestie subite e la mercificazione dei loro corpi. Recenti casi anche a livello locale hanno messo in evidenza come la questione dell’autodeterminazione delle donne sia ancora di grande attualità.
Spesso le donne sono vittime di violenza proprio nei luoghi nei quali dovrebbero sentirsi più protette. La famiglia, le relazioni di coppia o anche la scuola e il luogo di lavoro. Sono luoghi che dovrebbero basarsi su relazioni di rispetto e di fiducia, ma nei quali spesso prevalgono rapporti di potere e relazioni basate sullo sfruttamento e la discriminazione che mettono le donne in una situazione di vulnerabilità.
Sempre più spesso siamo confrontate con episodi estremamente gravi. L’aumento delle forme più efferate di violenza (come il femminicidio) ci induce a pensare che ciò possa essere una risposta proprio alla maggiore consapevolezza delle donne. La causa scatenante di questi atti estremi è proprio la volontà messa in pratica o solo enunciata della donna di voler interrompere la relazione. Donne uccise per il fatto di essere donne, donne che si ribellano e vogliono sottrarsi all’autorità maschile, donne “colpevoli” di voler affermare la propria libertà.
I media continuano a veicolare un immaginario femminile stereotipato, la formazione e la scuola contribuiscono a perpetuare i ruoli tradizionali mostrando scarsa attenzione alle tematiche di genere. La “giustizia” arriva in ritardo e rimette in discussione la versione delle donne trasformandole da vittime a colpevoli. Quante volte abbiamo sentito dire: “l’uomo è cacciatore e la donna è preda”, “guarda quella come va in giro, poi si lamenta se la stuprano”? Quante volte abbiamo sentito dire “se l’è cercata”? Quanti commenti odiosi siamo costrette ad ascoltare davanti ad ogni gonna corta, ad ogni maglietta scollata, ad ogni donna che rivendica il suo diritto di vivere la propria vita e la propria sessualità come meglio crede?
Ma la violenza si esprime anche in altre forme. Ancora oggi nel mondo del lavoro le donne svolgono lavori meno qualificati, hanno salari più bassi, sono assunte con contratti atipici o su chiamata. Il lavoro part-time riguarda soprattutto le donne e non sempre si tratta di una scelta che permette di conciliare lavoro e famiglia. Anzi sempre più il part-time è sinonimo di orari irregolari, tempi di lavoro lunghi (che si articolano su tutta la giornata) e con l’obbligo di essere sempre a disposizione anche nel cosiddetto “tempo libero”. Questo fa si che molto spesso le donne non possano permettersi di vivere da sole e di avere una vera autonomia economica che permetta loro di autodeterminarsi. Quando poi le donne si trovano a vivere in famiglie monoparentali questo elemento diventa ancora più preoccupante, le famiglie monoparentali (nella stragrande maggioranza dei casi composte da donne) sono tra le categorie più toccate dalla povertà, economica e sociale.
Partendo da queste considerazioni un gruppo di donne ha lanciato l’idea di un 8 marzo di lotta e di piazza. E’ giunto il momento di ridare voce e visibilità alle donne e rimettere al centro la battaglia per l’autonomia e l’autodeterminazione. Un appello che ha già raccolto diverse adesioni e che vuole fare dell’8 marzo una giornata di lotta come tutte le altre che seguiranno. Un primo passo per costruire un movimento femminista dal basso del quale abbiamo estremamente bisogno!
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