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Una chiacchierata con Christine Poupin, lavoratrice del settore dell’industria chimica e portavoce del Nouveau parti anticapitaliste (NPA).

Un anno fa, nessuno o quasi avrebbe scommesso una lira su Macron presidente della repubblica francese.

CP: Infatti. La destra tradizionale aveva spianata davanti a sé la strada dell’Eliseo in un’elezione che mai e poi mai avrebbe dovuto perdere. Cinque anni di governo del Partito socialista le offrivano la presidenza su un piatto d’argento. Nel contempo però, pochi avevano capito la perdita di rappresentatività del vecchio personale politico. In fondo, una volta al governo, sia il Partito socialista che l’UMP di Sarkozy, diventata dopo la sconfitta di quest’ultimo “Les républicains”, avevano sviluppato praticamente le stesse politiche. Così, il solo modo del candidato della destra François Fillon di smarcarsi dalla politica di Hollande fu una specie di “destrizzazione” della destra, cioè un affermarsi sui temi cattolici reazionari di quanti fecero campagna contro le unioni omosessuali, per esempio. Gli scandali legati alla sua persona, in particolar modo l’uso privato di denaro pubblico, hanno aggravato questo suo profilo. Se, da un lato il suo posizionarsi ultra-liberista poteva dare garanzie alle centrali padronali, questo suo posizionamento reazionario lo privava di rappresentatività.

Ed é così che il padronato, il MEDEF -la Confindustria transalpina- ha scommesso sul cavallo Macron.

Esatto. Di fronte alla crisi del Partito socialista che alle primarie aveva eliminato l’ex premier Manuel Valls, Macron ed il suo (allora non ancora) partito, La République en marche, hanno offerto una via d’uscita alla crisi di rappresentatività delle classi dominanti e costituiscono, almeno sin ora, lo strumento politico per assumere la continuità delle politiche brutali dei governi precedenti, socialisti o della destra, e che avevano provocato il logoramento del personale e degli apparati politici ai comandi sino ad allora.

E’ quindi esatto dire di Macron ché é il Presidente dei ricchi.

Eccome! L’offensiva é a tutto campo. Il ritmo delle riforme é incalzante. In questi giorni, durante la stessa settimana, non bastasse la riforma dell’assicurazione della cassa integrazione che riduce le prestazioni ai disoccupati, non fosse sufficiente la riforma della formazione professionale che garantisce una formazione funzionale ai bisogni delle imprese, il governo attacca direttamente lo statuto dei lavoratori della SNCF, la società nazionale delle ferrovie, eliminando le conquiste di mezzo secolo e creando le condizioni della sua privatizzazione. E questo, dopo l’adozione della seconda versione della Legge sul lavoro, la Loi Travail, che ha soppresso un numero cospicuo di protezioni di cui beneficiavano i lavoratori! La tattica é chiara: colpire forte e a ripetizione, a largo raggio…

Senza resistenze?

La strategia sindacale fatta di una successione di giornate d’azione senza convergenze verso uno sciopero generale e senza prospettive lascia spazi enormi. Ed é anche la ragione per la quale il governo non fa più la minima concessione ai sindacati. Capisce infatti che le trasformazioni del sistema produttivo, la moltiplicazione delle segmentazioni delle aziende, la precarizzazione dei salariati –per esempio, nell’industria automobilistica, i lavoratori a beneficio di uno statuto di durata indeterminata sono una minoranza- rendono difficile, magari improbabile, la costruzione di quelli strumenti della resistenza che sono l’esperienza comune accumulata da collettivi di lavoratori, le vittorie parziali, i bilanci delle lotte, insomma, la coscienza della propria forza.

Oggi, quella classe operaia dell’immaginario sessantottino, quella delle grandi concentrazioni operaie, non c’é più. Al posto suo, proliferano impieghi precari, contratti limitati nel tempo e così via. Ciò rende complicata la logica che fu quella dei lavoratori delle raffinerie che, consci della propria importanza strategica, per ben due volte, nel 2010 e nel 2016, si misero in sciopero malgrado l’assenza di rivendicazioni specifiche al loro settore nella speranza di stimolare, attraverso la loro lotta, la messa in movimento di altri settori sociali.

C’é poi da dire che la riduzione degli spazi di agibilità sindacale all’interno delle imprese imposta dalla Loi travail riduce assai la capacità di articolazione tra i lavoratori di base ed i loro delegati. Infatti, la soppressione delle strutture esistenti –i delegati del personale, i comitati di fabbrica, i comitati di igiene, salute e condizioni di lavoro- a profitto di un’istanza unica riduce da un lato il tempo e la disponibilità dei delegati dei lavoratori per esaminare i vari problemi e, dall’altro, approfondisce la distanza tra i delegati –ed i problemi che debbono risolvere- e i lavoratori.

Ma gli attacchi contro i ferrovieri della SNCF sembrano suscitare forti reazioni

Difficile al momento fare pronostici. Quasi quasi però, sarei tentata di dire “Bravo l’artiste!”. Infatti, il progetto –che il governo vorrebbe imporre tramite decreti legge –quelle che qui chiamiamo “ordonnances” e che permettono di evitare il dibattito parlamentare- é quantomai sottile nella misura in cui le principali contro-riforme –soppressione della garanzia del posto di lavoro, delle indennità dovute ai ritmi irregolari, rialzo dell’età del pensionamento- si applicheranno unicamente ai nuovi assunti e non a chi, già oggi, é dipendente della SNCF. Ci vuole un gran livello di coscienza per mettersi in sciopero –con le conseguenti perdite salariali- per difendere le condizioni di lavoro di chi verrà dopo di te…

Si, ma la popolazione é cosciente dell’importanza del servizio pubblico

Un servizio pubblico che le misure di austerità hanno talmente deteriorato che ci si può chiedere se settori di salariati saranno pronti a mobilizzarsi per difenderlo. Non lo so. Certo, lo scontento é grande in tutta la società francese, profondo. Riuscirà ad esprimersi? Il 22 marzo é stato decretato giornata di sciopero. Come andrà? Speriamo in una buona sorpresa…

C’é pur sempre il fatto che, malgrado l’esplosione in volo del Partito socialista, al primo turno delle presidenziali, il candidato della France Insoumise, Jean Luc Mélenchon ha raccolto più del 19% dei voti. Avrebbe per poco potuto essere addirittura presente al secondo turno…

E’ stata certamente una buona sorpresa, l’espressione di un ampio rifiuto sociale delle politiche padronali. Oggi però, il movimento di Jean Luc Mélenchon deve operare la mutazione da apparato elettorale al servizio di un leader a qualcos’altro.
La France Insoumise (FI) coltiva l’ambiguità sulla propria natura: non é un partito politico, ma nemmeno un movimento sociale, é una specie di … movimento politico.

Nel suo seno, c’é una vera orizzontalità partecipativa, con tanto di dibattiti, in particolar modo attraverso le reti sociali. D’altro canto, i “groupes d’appui”, cioé i gruppi di sostegno della campagna elettorale, si stanno trasformando in “groupes d’action”, gruppi d’azione. Statutariamente limitati a 15 membri, questi gruppi non dispongono di nessuna autonomia finanziaria –la dotazione finanziaria é gestita centralmente- e non hanno il diritto di coordinarsi. Esiste poi uno spazio di discussione chiamato Espace politique che dovrebbe permettere l’espressione delle varie sensibilità organizzate all’interno della FI. Il problema però é che le scelte politiche importanti, decisive, non risultano da una logica di discussione e decisone maggioritaria nelle istanze: é il capo, con la sua corte ravvicinata che decide.

Ciò non toglie però che il programma della FI sia fondamentalemente differente

E’ un programma che io non definirei populista, ma populista “alla francese”. C’é da un lato un popolo non meglio definito e, dall’altro, un capo, un tribuno che ne interpreta i bisogni, le aspirazioni. E’ così che il programma di Mélenchon –che, occorre ricordarlo, fu ministro nel governo di Lionel Jospin- si riduce ad una serie di misure keynesiane di rilancio dell’economia tramite l’incentivazione della domanda. Mai si parla di socializzazione dei mezzi di produzione, di nazionalizzazioni, tranne in un caso.

La sola volta in cui il programma della FI esige una nazionalizzazione lo fa a proposito dei cantieri navali di Saint Nazaire sui quali aveva gettato gli occhi la Fincantieri che ne é poi diventata proprietaria a ragione del 50%. E quindi in un ottica di difesa dell’industria nazionale che si domanda la nazionalizzazione dei cantieri. Ed é sempre in quest’ottica che Mélenchon difende la presenza francese su tutti i mari e gli oceani senza mai mettere in discussione il ruolo coloniale della Francia. Eppure, se siamo su tutti i mari é anche perché dalla Martinica alla Kanakia, tutte le possessioni e i territori d’oltre mare risultano da un passato coloniale. Sarà interessante vedere come si posizionerà al momento del voto sullo statuto della Kanakia…

Non sei un po’ troppo dura?

E’ vero che FI ha una certa capacità di messa in scena. Così, per esempio, il minuto di silenzio osservato a Marsiglia in memoria delle migliaia di morti nel Mediterraneo ha molto colpito l’immaginario. Però non basta…

Ma non é nella pratica nei movimenti sociali che convergenze e divergenze si possono verificare?

Il fatto di non considerarsi né come un partito né come un movimento determina un atteggiamento complesso ma poco unitario. Per esempio, già prima delle vacanze estive, l’intersindacale aveva indetto una giornata di sciopero contro la Loi Travail per il 12 settembre. Considerando da parte sua che oramai i salariati non rappresentano più granché, la FI ha rivolto un appello “al popolo” per una manifestazione nazionale… dieci giorni dopo, il 23 settembre, manifestazione durante la quale, però, numerosissimi furono i membri della base della FI ad esprimere un sentimento unitario.

La stessa logica problematica rispetto all’unità si ritrova oggi nella preparazione della giornata dell’11 marzo, tradizionalmente dedita alla lotta antinucleare. Non nego la debolezza del movimento antiatomico en Francia; c’é però da riconoscergli il fatto di aver assicurato durante decenni la continuità di questa lotta. Beh, quest’anno, senza consultare nessuno, FI ha deciso di organizzare proprio l’11 marzo la sua consultazione nazionale per l’abbandono dell’energia nucleare.
Lo stesso succede, localmente, per le manifestazioni dell’8 marzo durante le quali, a fianco delle iniziative unitarie, sono organizzate delle prese di parola delle “Féministes insoumises”.
Sono pratiche che indispettiscono quanto mai chi, giorno dopo giorno, i movimenti sociali li costruisce nella durata. E’ così assai difficile trovare ambiti comuni in cui ritrovarsi –forze politiche, movimenti sociali e FI- per confrontarsi. Soprattutto quando il bisogno d’azione pretende esimersi dall’analisi e dalla discussione politica…

Una difesa affannosa quindi che lascia spazio al Fronte nazionale?

Non dimentichiamo i dieci milioni di voti ottenuti dal Fronte nazionale nel maggio dello scorso anno. E anche se, tra un’elezione e l’altra di lui si parla poco –malgrado le attuali “querelles” tra padre Le Pen e figlia- le ragioni profonde di quel voto sussistono, soprattutto nella misura in cui, ad eccezione della FI, non esistono altre forme di massa di espressione politica degli strati popolari.

C’é però da sottolineare un cambiamento notevole sulla questione delle migrazioni: sempre più numerose sono le persone indignate dalle sorti fatte ai migranti.

Ma sul fondo, il problema principale rimane ed é quello della ricostruzione, a partire dalle esperienze vissute, dalle lotte e dalle eventuali vittorie parziali, degli strumenti politici adeguati per far fronte alla situazione. E questo a partire dalle esperienze militanti esistenti, che appaiono purtroppo, nella più parte dei casi, come un campo di rovine…

Intervista realizzata il 3 e 4 marzo 2018