Persino la moderatissima centrale sindacale cristiana (Travail Suisse) ha sbottato e in una conferenza stampa convocata a fine gennaio ha voluto esternare tutto il suo disappunto per l’esito delle trattative per gli adeguamenti salariali 2018, praticamente conclusisi in tutti i settori, pubblici e privati.
L’analisi della centrale sindacale è chiara: «Per una gran parte dei lavoratori, i salari aumenteranno tra lo 0.5% e l’1% nel 2018. Si tratta di un risultato insufficiente, soprattutto tenendo in considerazione lo sviluppo del rincaro. Infatti, dopo un assai lungo periodo praticamente senza rincaro, l’inflazione ha nuovamente segnato una ripresa nel 2017 e si situerà, sull’insieme dell’anno, ad un tasso dello 0.5%. I premi per l’assicurazione malattia sono pure aumentati in modo importante. Secondo l’Ufficio federale di statistica i redditi disponibili nel 2017 sono diminuiti dello 0.3%. La maggior parte dei lavoratori non avranno quindi a disposizione più salario per i loro bilanci familiari, malgrado gli adeguamenti”.
A questi dati si deve aggiungere una costante in atto da anni: e cioè che la maggior parte degli aumenti sono individuali e non generalizzati; e se è vero che questa tendenza si è leggermente corretta negli ultimi anni, è altrettanto vero che la maggior parte degli adeguamenti salariali sono di tipo individuale, cioè decisi dal datore di lavoro sulla base di una sua valutazione. Non corrispondono quindi a diritti salariali che ogni lavoratore e ogni lavoratrice può rivendicare legittimamente.
Nella stessa direzione va poi il fatto che i salari minimi contrattuali sono spesso bloccati da anni o sono stati migliorati solo leggermente; questo si ripercuote sui salari effettivi dei lavoratori e delle lavoratrici: infatti in molti settori una cospicua parte dei lavoratori sono assunti (e restano per molto tempo) al minimo salariale.
Un contesto oggettivamente favorevole…
Raramente in questi ultimi anni quello che potremmo definire il “contesto oggettivo” per dei negoziati in materia salariale si presentava in modo così favorevole dal punto di vista sindacale. Aumenti di produttività e dei margini di profitto (le imprese svizzere macinano da ormai cinque-sei anni record di profitti), recupero della capacità di esportazione grazie ad una ripresa dell’euro e un conseguente indebolimento del franco, previsioni per il 2018 più che positive, con alcuni istituti congiunturali che si sono spinti fino ad ipotizzare un aumento del PIL del 2.5%.
Ma questo contesto positivo dal punto di vista oggettivo non fa i conti con le politiche padronali, che mai come in questi anni sono attente alla massimizzazione del profitto, preoccupate dal contesto della concorrenza internazionale sempre più agguerrita. In questo senso la posizione negoziale del padronato ha assunto un aspetto non solo economico, ma anche ideologico; il messaggio è chiaro: la forza lavoro in questo paese dovrà costare sempre di meno!
È di fronte a questo orientamento chiaro e deciso che il movimento sindacale (o quel che resta) ha confermato, qualora ve ne fosse stato bisogno, tutti i propri limiti, caratterizzati da due aspetti.
Il primo è quello di una debolezza strutturale sempre più profonda, sia dal punto di vista quantitativo che da quello qualitativo. Dal punto di vista quantitativo gli iscritti, in cifre assolute, alle organizzazioni sindacali tendono, dopo un periodo di diminuzione, a stagnare. Il che, visto l’aumento considerevole del numero di lavoratori e lavoratrici salariati in questi ultimi due decenni, equivale ad una perdita secca del tasso di sindacalizzazione.
Ma la perdita di peso dal punto di vista quantitativo è ancora poca cosa rispetto alla perdita della capacità di organizzare e di mobilitare i salariati sui luoghi di lavoro, quello che cioè dovrebbe rappresentare la specificità di un’organizzazione sindacale, il tratto distintivo rispetto a qualsiasi altro tipo di associazione. È un dato di fatto da molto tempo: il fatto che in un settore sia presente o meno un’organizzazione sindacale è del tutto secondario per i destini dei lavoratori e delle lavoratrici di quel settore.
Il secondo aspetto riguarda l’impianto ideologico di fondo delle organizzazioni sindacali che oggi, dopo qualche apertura da parte di qualche federazione negli anni ’90 e nei primi anni del 2’000, sono ritornate ad una politica fondata sul più puro metodo concertativo, poggiando su contratti collettivi privi di qualsiasi vantaggio per i salariati e stipulati senza la partecipazione attiva dei salariati interessati (valga per tutti l’esempio del contratto nazionale per i lavoratori interinali, il più importante della Svizzera per numero di lavoratori sottoposti).
“Il sindacato Unia è molto forte nell’edilizia…”
Per capire a quale punto di indebolimento sia ormai giunta la capacità d’azione del movimento sindacale, si può prendere come punto di riferimento la parabola di Unia, in particolare in quello che resta il settore nel quale mantiene comunque una certa presenza e un cospicuo tasso di sindacalizzazione, cioè il settore edile.
Una presenza storica, che proviene dal SEI, il sindacato che assieme alla FLMO ha dato vita ad Unia. E che ha caratterizzato quel rinnovo sindacale degli anni ’90 e della prima parte del 2’000 che avevano visto il SEI (e poi UNIA) mobilitare a più riprese i lavoratori edili, in particolare in regioni come il Ticino o la Svizzera romanda. Lo sciopero, nel settore, era diventato qualcosa di famigliare, sia per i lavoratori del settore (che non si interrogavano più sulla sua legittimità), sia per i lavoratori degli altri settori che guardavano con simpatia agli edili che avevano il coraggio di sfidare il padronato sul terreno della lotta sociale.
Di questo passato glorioso resta qualche traccia autocelebrativa; basta andare sul sito di Unia per trovare frasi di presentazione del sindacato come quella che abbiamo qui sopra citata “Il sindacato Unia è molto forte nell’edilizia. In nessun altro settore il tasso di sindacalizzazione è così elevato. La lunga tradizione sindacale si traduce in buone condizioni di lavoro, benché sussistano ancora alcuni problemi”.
Le cose però ormai da tempo non stanno più così. Le trattative salariali di questo fine 2017 ne sono stata l’ennesimo, potremmo dire, conferma, l’ultima di una serie ormai preoccupante di “round” annuali senza alcun risultato e, ancora più preoccupante, senza alcuna mobilitazione tesa a ottenere qualcosa. Unia infatti chiedeva aumenti importanti: 150 franchi per tutti nell’edilizia.
I risultati, a bocce oramai ferme, è disastroso
Nell’edilizia i lavoratori non avranno diritto a nessuno aumento salariale (nemmeno un centesimo). E questo per il terzo anno consecutivo. Lo stesso avverrà nei settori affini all’edilizia (falegnami, industria granito, gessatori, piastrellisti, etc.). Un situazione questa dell’edilizia particolarmente significativa poiché da ormai tre anni le trattative si concludono senza accordo (nemmeno con un pessimo accordo); ciò significa che i datori di lavoro organizzano individualmente gli eventuali adeguamenti salariali, ricorrendo a criteri propri. E quando queste cose cominciare a prendere piede in modo permanente, i lavoratori cominciano a chiedersi a cosa serva essere sindacalizzati.
Non migliori le notizie negli altri settori nei quali le richieste sindacali erano altrettanto importanti (circa 100 fra (tra l’1,5% e il 2%) nell’industria, l’1,5% nel commercio al dettaglio, il 2% nella ristorazione e nel settore alberghiero).
Nell’industria, laddove qualche aumento vi è stato, si è manifestato sotto forma di aumenti individuali e non di aumenti generali (cioè per ogni lavoratore): il tutto non ha mai superato lo 0.5%.
Il commercio al dettaglio non conosce contratti nazionali, ma solo regolamentazioni dei grandi gruppi del commercio. E qui i lavoratori e le lavoratrici non potranno vantare alcun diritto ad un aumento. Infatti sia Migros che COOP, per non prendere che i gruppi più importanti, hanno messo a disposizione una modesta percentuale della massa salariale (tra le 0,5 e lo 0.9% per Migros – lo 0.5% per COOP) per gli aumenti individuali cioè aumenti, come precisa Migros, “assegnati a titolo individuale secondo criteri personali quali la funzione ricoperta e la valutazione delle prestazioni, tenendo anche conto delle esigenze strutturali”.
Naturalmente se in questa riflessione ci siamo concentrati su Unia è perché essa rappresenta un’organizzazione che in alcune realtà ha ancora la parvenza di un sindacato e un rapporto in parte reale con i salariati. Non osiamo scrivere cosa ne è degli altri settori, pubblici e privati, dove le organizzazioni sindacali assolvono ormai la funzione di “ufficio risorse umane” delle aziende.
Da un punto di vista più generale questi negoziati di fine anno non fanno dunque che confermare un declino che appare senza fine e che rende, agli occhi dei lavoratori presenti sui luoghi di lavoro, del tutto ininfluente il ruolo del sindacato.
È il momento, per chi vuole fare del sindacalismo degno di questo nome, di iniziare una riflessione seria e approfondita.