Tra i discorsi più ricorrenti della sinistra c’è quello secondo cui Lula e Il PT (Partito dei lavoratori) costituiscano l’alternativa progressista alla “destra neoliberista”. Persino quei dirigenti e militanti che ammettono che non voterebbero Lula in caso di elezioni, dichiarano che il leader del PT sostiene il programma più favorevole alla classe operaia in confronto a quello che potrebbe incarnare qualunque scelta del centrodestra.
Il mio punto di vista è molto diverso. Io sostengo che i governi di Lula de Silva e di Dilma Rousseff non si distinguono, per l’essenziale, da quel che fecero o fanno i governi solitamente considerati “di centro”, o di quelli “neoliberisti”. Soprattutto perché non hanno in alcun modo modificato a fondo le caratteristiche del capitalismo dipendente brasiliano. Per questo, quando si è esaurito il “vento in poppa” dell’ascesa dei termini di interscambio, l’economia del Brasile ha imboccato la china che è sfociata nella profonda recessione del 2014-2016. E, in continuità con la politica applicata fino ad allora, il governo della Rousseff ha risposto a questa crisi con le stesse ricette della tanto vituperata “destra neoliberista”.
Allo scopo di fornire elementi analitici, presento di seguito una relazione su come si sia sviluppato questo processo tra il 2003 e il 2016. Il criterio che ho seguito è quello di contrapporre al racconto “nazionale e popolare” dati e fatti empiricamente registrabili. Lascio alla volontà di chi legge fare il confronto che ritenga opportuno. Ad esempio, confrontare le abituali politiche latinoamericane di inflation targeting – elevare il tasso di interesse, attrarre capitali speculativi e valutare artificialmente la moneta per tenere a bada l’inflazione – con quello fatte, nei rispettivi momenti, dai governi di Lula o Rousseff.
Nonostante questa mia nota sia più lunga di quelle abitualmente contenute nel blog, non l’ho divisa in parti perché si possa disporre di un quadro d’insieme dell’economia dei tempi del PT. Infine, salvo specifica indicazione, i dati da me presentati sono ripresi dalle pagine web della Banca Centrale del Brasile e del Ministero dello Sviluppo, dell’Industria e del Commercio con l’Estero.
I governi di Lula – Lula si è insediato al governo nel 2003, con un programma economico che per molti aspetti era in continuità con la politica del presidente Fernando Henrique Cardoso, con l’accento posto sulla stabilità dei prezzi e sull’avanzo primario. Più ancora, appena arrivato, Lula applicò la politica dell’avanzo primario al di sopra di quel che non richiedesse lo stesso FMI. Inoltre, La Banca Centrale innalzò il tasso Selic (tasso d’interesse di riferimento), con l’argomento della lotta all’inflazione. Il governo si giustificò affermando che era indispensabile rassicurare i mercati e gli investitori. Tuttavia, nel primo anno di Lula gli investimenti produttivi non arrivarono (invece arrivarono sicuramente quelli speculativi), e l’adeguamento di bilancio si concluse con il crollo della domanda. In quell’anno l’economia crebbe appena dell’1,1%, al disotto del 2002 (anno in cui era cresciuta del 3,1%).
La situazione cominciò certo a migliorare a partire dal 2004, con la crescita della domanda mondiale – in primo luogo della Cina – e la svalutazione del real. Il fatto è che, per quanto il real fosse stato rivalutato (grazie all’ingresso di capitali), era arrivato al di sopra del livello precedente la svalutazione del 2002. Fatta 100 la base del 2000, il corso del cambio nel 2002 era 110; in ottobre passò a 177 e, nel giugno del 2004, era 147 (dati ripresi da Pierre Salama, “Reprimarización sin industrialización, una crisis estructural en Brasil”, Herramienta, marzo 2016. http://www.herramienta.com.ar/revistaherramienta-n58/reprimarizacion [Nota: la salita del corso cambiario significa che la moneta si deprezza, e viceversa].
In conseguenza di questo, nel 2004 le esportazioni aumentarono del 32%, le importazioni del 30% e il netto della bilancia commerciale migliorò del 37%. Nel 2005 le esportazioni ripresero a crescere del 22,6% di fronte all’aumento del 17,1% delle importazioni, e il saldo della bilancia commerciale migliorò di un ulteriore 32%. La domanda riprese e il PIL crebbe del 5,8%; nel 2005 aumentò del 3,2%. Il governo continuò comunque ad applicare una politica monetaria “ortodossa”. Ad esempio, nel 2005, di fronte all’aumento dell’inflazione, la Banca Centrale tornò ad aumentare l’avanzo primario, portandolo al 4,8% del PIL. La giustificazione continuava ad essere quella di “rassicurare i mercati”. Nel 2005 il Brasile annullò l’intero suo debito con il FMI.
Nel 2006 si accentuò il “vento in poppa”, poiché cominciò il pronunciato aumento dei prezzi delle materie prime, che avrebbe raggiunto l’apice nel 2008. Questo miglioramento dei termini di interscambio permise di mascherare i problemi di competitività dell’economia nel suo complesso, aggravati dalla valutazione del real di quegli anni: verso la metà del 2008 il dollaro valeva meno di 1,6 reales. Ancora una volta, con base 100 al 2000, il corso cambiario del real era a 85 nell’ottobre 2008 (Salama, cit.). Questa valutazione del real promosse l’aumento delle importazioni. Per questo, nonostante il miglioramento dei prezzi dei prodotti di esportazione – soia e minerali ferrosi soprattutto – il saldo della bilancia commerciale si ridusse dai 46.400 milioni di dollari nel 2006, ai 24.900 milioni nel 2008.
Naturalmente, l’aumento delle esportazioni determinò una forte espansione della produzione agricola e dell’agro-business. Aumentò anche la produzione mineraria e petrolifera. Crebbe pure il consumo, grazie all’aumento de salario minimo e dell’occupazione. Ma anche il consumo fu sospinto dalla forte crescita del credito privato tra il 2005 e il 2008 (Cfr. IMF, “Brazil, Selected Issues”, 14/10/2016; https://www.inf.org/external/pubs/ft/scr/2016/crl6349.pdf).
Tra l’altro, a partire dal 2006 il governo accrebbe gli investimenti in infrastrutture (Programma di Accelerazione della Crescita – PAC) ed aumentarono i salari. Il PAC fu imperniato sull’industria petrolifera statale, Petrobras, e su un programma di investimenti in campo energetico. Quest’ultimo contribuì a sostenere la crescita economica, anche se non modificò qualitativamente il livello di investimento (si veda più avanti).
Sospinta da questi fattori, durante il primo governo Lula (2003-2006) l’economia crebbe a un tasso medio annuo del 3,5% e, durante il suo secondo mandato (2007-20010), del 4,6% annuo. L’inflazione scese al 5,1% nel 2010, rispetto al 12,5% del 2002. L’indebitamento pubblico, che rappresentava il 60,6% del PIL nel 2002, arrivò al 39,6% nel 2010. Le riserve internazionali, che nel 2002 ammontavano a 58.600 milioni di dollari, nel 2010 arrivarono a 285.700 milioni.
A propria volta, con la crescita economica il tasso di disoccupazione passò dal 10,5% nel 2002 al 5,7% nel 2010. Nel corso della prima decade del 2000, si crearono 21 milioni di posti di lavoro. Ovviamente, il 98,4% di questi avvennero con un salario d’ingresso equivalente a una volta e mezzo il salario minimo. Di fatto si verificò la concentrazione di posti di lavoro alla base della piramide sociale: diminuirono i posti di lavoro non retribuiti e, all’altro estremo gli impieghi meglio retribuiti di cinque volte il salario minimo o più. Il risultato fu che nel 2010 i lavoratori con salari fino a 1,5 di minimo rappresentavano la metà degli occupati in Brasile (si veda Gabriel Casoni, “Brasil, un gigante social – Notas sobre la clase obrera brasilera”, Esquerda on line, 9/4/23017, http://esquerdaonline.com.br./2017/08/27/brasil-ungigante-social-notas ).
Per altro verso, si accrebbe significativamente il minimo salariale. Inoltre, si estesero i piani sociali, il principale dei quali fu la Bolsa Familia, per quasi 13 milioni di nuclei familiari. Come risultato di tali sviluppi, la percentuale della popolazione con introiti inferiori ai 2,5 dollari al giorno (misurato a parità di potere d’acquisto) passò dal 26,7% nel 2002 al 15,3% nel 2009. Questo significò che circa 26 milioni di brasiliani uscirono dalla soglia di povertà. Inoltre, si ridusse la disuguaglianza: l’indice Gini (che misura la disparità di reddito, fatta 0 l’uguaglianza assoluta, 1 la massima disuguaglianza) scese dallo 0,6 nel 2002 allo 0,54 nel 2009; Anche se la disuguaglianza in Brasile – al pari di quasi tutta l’America Latina – rimase a livelli molto elevati, in termini relativi.
In definitiva, e con tali risultati, nel 2010 Lula lasciava la presidenza con l’80% dei consensi e veniva elogiato da persone così diverse quali potevano essere Bush e Chávez. L’ Economist e il Financial Times approvavano la sua gestione, ma lo applaudivano anche i media di sinistra e persino alcuni marxisti. Lula era ritenuto ovunque un grande uomo di Stato. Per riprendere Perry Anderson, “da qualsiasi punto di vista, Luíz Inácio Lula de Silva è il politico di maggior successo della nostra epoca” (“Lula’s Brazil”, in London Rewiew of Books, 31/03/2011, http://www.1rb.co.uk/v33/n07/perryanderson/lulas-brazil). Più ancora, buona parte della militanza “nazionale e popolare” aveva fiducia che sotto la direzione di Lula il Brasile sarebbe diventato l’asse dell’integrazione latinoamericana e avrebbe imposto limitazioni agli Stati Uniti. Cioè un capitalismo brasiliano multinazionale messo a giocare dalla parte degli “antimperialisti”.
Debole sviluppo delle forze produttive – Per quegli anni di splendore del lulismo, i suoi apologeti dissero che la crescita economica, il calo della povertà, l’aumento delle riserve e la riduzione del debito costituivano le basi di un solido sviluppo a lunga scadenza. Un esempio di questo tipo di analisi è reperibile nelle pubblicazioni del CLACSO del 2010-2011.
Ovviamente il “modello” era molto più debole di quel che non sembrasse in superficie, o di quel che pretendessero i sostenitori di Lula. Il motivo fondamentale è che durante quegli anni di forti introiti non si sono registrati cambiamenti significativi nella produttività industriale e nell’industria a capitale fisso intensivo. In altri termini, i miglioramenti degli indicatori sociali non erano correlati a un rilevante sviluppo della produttività del lavoro, né dell’industria, in particolare delle industrie ad elevato valore aggiunto. Rispetto a questo, Pierre Salama (già citato) parla di “riprimarizzazione dell’economia”. E scrive: “La quota dell’industria brasiliana di trasformazione sull’industria di trasformazione mondiale (in valore aggiunto) è dell’1,8% nel 2005, poi nel 2011 dell’1,7%, dopo essere stata del 2,7% nel 1980, secondo la banca dati 2013 dell’UNCTAD (Conferenza dell’Onu sul Commercio e lo Sviluppo). Stando alla stessa fonte, in Cina questa quota era del 9,9% nel 2005 e del 16,9% nel 2011. Quindi, diminuisce relativamente in Brasile mentre conosce in Cina un forte aumento. Le esportazioni di prodotti manifatturieri arretrano in termini relativi in Brasile, passando dal 53% del valore delle esportazioni nel 2005 al 35% nel 2012, a vantaggio delle esportazioni di materie prime agricole ed è solo dal febbraio 2016 che riprendono a crescere, dopo la forte svalutazione e il crollo del prezzo delle materie prime” (p.16).
Salama aggiunge che ben oltre il successo di alcuni settori industriali, quali quello aeronautico e in certa misura quello automobilistico e dell’industria petrolifera, “la deindustrializzazione si sviluppa a partire dagli anni Novanta e si accentua nel decennio del 2000, con la perdita relativa di competitività dell’industria di trasformazione, ci si aggiungono le carenti infrastrutture dei trasporti (reti ferroviarie, installazioni portuali e aeroportuali, strade), e le insufficienti capacità energetiche.” (pp.16-17).
L’autore segnala inoltre che con un corso cambiario basso, bassa produttività e pressione salariale si combinano i fattori di una potenziale crisi. Dall’angolazione del corso di cambio che abbiamo spiegato in altre note del sito (cui rinvio) diremmo che il corso cambiario non corrispondeva alla bassa produttività relativa dell’economia, in particolare dell’industria.
Lo stesso investimento in infrastrutture, a parte i tanti reboanti preannunci, non ha rappresentato un cambiamento qualitativo nello sviluppo. Nel 2008 e 2013 l’investimento medio infrastrutturale pubblico e privato rispetto al PIL è stato del 3,1%. Lontano dal 6,2% caldeggiato dal CEPA, per uno sviluppo sostenibile. Riferendosi al Brasile, nel 2016 Oxford Analytica segnalava: “Il trasporto pubblico è una fonte chiave del disagio dei cittadini e il cosiddetto ‘costo brasiliano’, legato all’infrastruttura povera per il trasporto pesante, riduce competitività e investimento” (“Low-investment restricts Latin America infraestructura”, http://www.daylibrief.oxan.com/analysis/GA213433/low-investment-restricts…8/09/16). Aggiungiamo che nel 2014 l’investimento in infrastrutture è stato del 3,3% e nel 2015 delll’1,72% del PIL (Infralatam, http://es.infralatam.info/dataviews/226323infrestructura-agregada-todo 9) Una conseguenza di questa debolezza dell’investimento in infrastrutture è stata l’insufficiente fornitura di energia elettrica che cominciò a manifestarsi verso il 2014. E per quanto riguarda la media dell’investimento privato, è rimasto al disotto del 20% del PIL nella maggior parte dei governi del PT [per il grafico: Formazione lorda capitale fisso/PIL 2003-2015, rimandiamo all’originale, nel sito citato al termine del presente articolo]. Un livello molto inferiore a quello raggiunto in Cina o in Corea. Facciamo notare che l’investimento è il motore principale di una domanda sostenuta, e della riproduzione allargata del capitale. Il consumo non può svolgere questo luogo nel medio o lungo periodo.
Come contropartita, va sottolineato come gli elevati tassi di interesse interni abbiano promosso per anni la speculazione finanziaria. In un contesto di bassi tassi di interesse nei centri del capitalismo mondiale fiorì il traffico del carry trade, che consiste nell’acquisire crediti in un paese a bassi tassi di interesse per collocare il denaro in paesi con tassi elevati. Questi introiti di capitale contribuirono a finanziare i passivi di conto corrente e forse probabilmente diedero impulso anche al credito interno. Essi però contengono sempre il pericolo di un’improvvisa inversione di tali flussi di capitale se gli investitori non si fidano più. Donde il fatto che “conservare la fiducia dei mercati” sia un obiettivo inscritto nella meccanica stessa di questa forma di crescita.
Verso la crisi – A partire dal 2009 e come frutto della crisi mondiale, le esportazioni rallentarono. Inoltre, negli anni successivi e sospinti dall’ingresso di capitali – i tassi di interesse brasiliani erano notoriamente più elevati che non nei paesi avanzati – il real si rivalutò di nuovo (con un indice a 74 nel 2011; Salama, cit.). Data la già ricordata bassa produttività, e nel quadro di una spinta al ribasso della domanda mondiale, fu inevitabile la diminuzione del saldo della bilancia commerciale: le importazioni aumentarono a un tasso superiore a quello delle esportazioni. Nel 2014 questo saldo fu addirittura negativo per oltre 4.000 milioni di dollari. Di conseguenza, la bilancia di conto corrente ebbe un passivo accumulato nei cinque anni che vanno dal 2010 al 2014 di oltre 326.000 milioni di dollari.
D’altro canto, il credito privato si contrasse a partire dal 2008, dato l’interesse delle banche private, nella situazione di crisi finanziaria mondiale, di consolidare i propri bilanci. Teniamo conto che l’espansione del credito, durante i governi del PT, è stata molto significativa: in percentuale del PIL, passò dal 25% nel 2004 al 55% alla fine del 2015 (cfr. IMF, 2016, cit.).
Nel 2009, e come diretta conseguenza della crisi mondiale, il PIL del Brasile si contrasse dello 0,2%. Con la ripresa dell’economia mondiale, nel 2010 il PIL crebbe di un 7,5%. Ma questo non significò più il ritorno ai tassi di crescita degli “anni dorati”. La situazione dell’economia brasiliana era globalmente fragile. Di fronte a un panorama del genere, già prima di concludere la sua seconda presidenza, Lula cominciò ad applicare una politica “ortodossa” di tagli alla spesa pubblica. In consonanza, la Banca Centrale mantenne l’elevato tasso di interesse.
Il primo governo di Dilma Roussef continuò questa politica: riduzione della spesa pubblica (pur mantenendo la Borsa Famiglia) ed elevato tasso di interesse, cui aggiunse il restringimento del credito. Le agenzie internazionali di rating innalzarono la classificazione del Brasile. Un segnale, questo, che il governo di Dilma Rousseff era considerato “responsabile”. Naturalmente, l’economia aveva subito una decelerazione: tra il 2011 e il 2013 il PIL crebbe a una media del 2,9% annuo.
La crisi – Nell’ottobre del 2015 Dilma Roussef vinse il ballottaggio, anche se con un margine molto limitato (51,6% dei voti contro il 48,4% di Aécio Neves, del PSDB). Nella sua campagna elettorale denunciò ripetutamente il piano di “ristrutturazione neoliberista” che Neves avrebbe imposto se avesse vinto. Tuttavia, appena assunta la presidenza, formò un gabinetto per la ristrutturazione e il rigore fiscale. Un personaggio rappresentativo di questo orientamento è Joaquim Levy, che era stato funzionario di Lula, e prima del FMI). Fu designato ministro delle Finanze. Era popolarmente soprannominato “ministro delle Forbici”, per la sua ossessione di tagliare la spesa pubblica.. L’altra designazione significativa fu quella di Katia Abreu come ministra dell’Agricoltura. I difensori dell’ambiente la chiamavano “Miss Deforestazione”: Abreu era stata criticata per essersi opposta alla riforma agraria e la si considerava fautrice dell’agro-business. In quei giorni il periodico brasiliano Valor Económico sostenne che Dilma aveva capitolato di fronte ai mercati. E Levy dichiarava che il suo obiettivo era quello di impiantare le basi per un solido sviluppo e rafforzare la fiducia degli investitori.
Il governo accelerò allora la ristrutturazione fiscale: si ridussero gli investimenti pubblici e la spesa dello Stato, comprese quella per sanità e istruzione. Si inasprirono anche le condizioni per il credito. Per migliorare la situazione con l’estero, il governo svalutò il real, il che significò la riduzione del salario.
Il governo cercava di rianimare l’investimento, che fu però seriamente colpito dal crollo dei prezzi delle materie prime, petrolio incluso; dall’inasprimento delle condizioni finanziarie e dalla decelerazione della domanda mondiale, nel quadro della sovrapproduzione globale in settori chiave dell’economia mondiale, ad esempio nel caso delle miniere. Insieme, questi elementi determinarono il brusco ridimensionamento dei piani di investimento di Petrobras e di altre grandi imprese del settore estrattivo (si veda IMF, “Brasil, Staff Report IV Article Consultation”, 2016; http://www.imf.org/external/pubs/2016/cr16348.pdf). La riduzione degli investimenti, insieme al “riordino” fiscale in corso, e il crollo del credito spiegano il calo della domanda.
A un simile quadro si aggiunga che, nel marzo del 2014, scoppiò lo scandalo “Lava Jato”: L’opinione pubblica allora si accorse che Petrobras e le grosse imprese edili facevano accordi per sovrafatturare, pagando politici sottobanco. Petrobras rappresentava il 10% del PIL, era l’impresa modello dello sviluppismo nazionalista progressista, nonché l’asse intorno a cui si sarebbe realizzata l’espansione del capitalismo brasiliano in America Latina e in Asia. Un progetto di espansione articolato dai principali conglomerati, compreso Odebrecht. Certamente, Petrobras era stata saccheggiata per ingrassare il portafoglio di settori di alta borghesia e di politici, compresi alti dirigenti del PT. Già danneggiata dal crollo dei prezzi del petrolio, nel 2015, l’impresa aveva perso metà del suo valore in Borsa. Il clima dei traffici peggiorò notevolmente.
Il 2014 fu l’anno della discesa verso la crisi. Il PIL crebbe solo dello 0,5% e gli investimenti si contrassero del 5,6%. Il deficit pubblico arrivò al 6,7% del PIL, nonostante le politiche di “adeguamento”. Nel 2015 si approfondì la recessione. Nonostante questo, la Banca Centrale elevò ulteriormente i tassi Selic già alti (dall’11% nell’ottobre 2014 al 14% nel giugno dell’anno successivo). Così, in quell’anno il PIL cadde del 3,8%; il Pil pro capite del 4,3% e l’investimento si ridusse del 22,6%. Nel 2016 il PIL scese di un altro 3,6%; il Pil pro capite del 4,3%; e l’investimento dell’11,3%. Complessivamente, dall’inizio della recessione si persero 2,7 milioni di posti di lavoro (regolarmente registrati): la maggior parte, nell’industria e nelle costruzioni. Nel settembre 2016, quando cioè Rousseff veniva cacciata dalla presidenza, c’erano 12 milioni di disoccupati. Il tasso di disoccupazione era dell’11,2% (di contro al 6,5 alla fine del 2014): L’eredità politica del PT furono Temer il suo piano di ristrutturazione.
Guardando a questi risultati – e alla frustrazione e demoralizzazione in cui sono finiti i settori popolari – sembra arduo sostenere la tesi che il PT, o il lulismo, rappresentino l’alternativa progressista per i lavoratori. (15/04/2018)
*[Da: http://rolandoastarita.blog/2018/04/12/brasil-la-economiadel-pt]