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Le elezioni regionali del Molise sono state caricate di un significato “profetico” probabilmente sproporzionato (eh no: il Molise non è l’Ohio italiano…), un po’ come avverrà la prossima settimana per quelle del Friuli-Venezia Giulia. Come queste elezioni influiranno (o non influiranno affatto) sulla faticosa e farsesca formazione di un governo per il nostro Paese e su come sposteranno gli equilibri politici all’interno dei campi contrapposti è una questione che lasciamo volentieri, per ora, agli opinionisti dei vari quotidiani, che devono pur guadagnarsi il pane. Quel che invece ci interessa qui è cercare di ricavarne delle indicazioni di carattere generale sugli orientamenti che emergono dal voto, perché, fatta la tara di alcuni fattori squisitamente locali, alcune tendenze generali emergono con una certa chiarezza. E cioè: la tendenza della destra a rafforzarsi; la totale scomparsa del “centro”; la difficoltà del Movimento 5 stelle a consolidare i suoi risultati; la frana seguita da continui smottamenti della sinistra “riformatrice” di matrice renziana e postrenziana; le difficoltà di dare salde radici alla presenza della sinistra anticapitalista. Prima di affrontare questi punti, però, dedichiamo due righe all’astensionismo, che continua a essere in crescita.

L’astensionismo, una spia della crisi delle istituzioni. Anche in Molise l’astensione continua a crescere, pur se è vero che si mantiene ancora a valori relativamente inferiori ad altre regioni. Le percentuali “ufficiali” non ci aiutano molto a capirne l’andamento, che sembrerebbe alternante: 38 % di astenuti nelle regionali del 2013, 28 % nelle politiche di quest’anno, quasi 48 % in queste regionali. Sono cifre ingannevoli, perché calcolate su elettorati completamente diversi: se nelle politiche, infatti, hanno votato solo i molisani residenti nella regione, nelle regionali del 2013 e in queste la bislacca legge elettorale molisana ha esteso il voto anche ai molisani “non residenti”, circa 70-80.000, col risultato che alle regionali l’elettorato risulta formato da poco più di 330.000 persone, alle politiche queste si riducono a poco più di 250.000. Conviene allora affidarci alle cifre: 205.000 votanti nel 2013, 182.000 nelle ultime politiche, 172.000 in queste regionali. Come si vede, l’erosione continua.

Il rafforzamento della destra. Nel 2013 la coalizione di destra aveva il 25,8% dei voti, saliti al 29,8 % nelle politiche e al 43,7 % in questa occasione, con un passaggio dai 50.000 voti del 2013 agli attuali 73.000 [1]. In realtà, l’avanzata della destra in voti reali è minima nelle politiche rispetto al 2013 (2.000 voti in più), mentre si manifesta con forza in queste poche settimane che ci separano dalle legislative. Cos’è avvenuto? Si possono fare alcune ipotesi. Innanzi tutto, l’attuale coalizione di destra comprendeva fra i suoi candidati un numero non trascurabile di assessori e sindaci eletti col centrosinistra e che, fiutato il vento, hanno radunato armi e bagagli e sono corsi in soccorso del (prevedibile) vincitore. E fra le armi e bagagli c’erano ovviamente anche cospicui pacchetti di voti. Oltre a questo afflusso, difficilmente quantificabile, di voti dal centrosinistra, la destra sembra aver rastrellato non pochi voti anche fra l’elettorato dei 5 stelle, e in modo particolare fra quella sua componente conservatrice e anche reazionaria (che c’è) e che almeno in parte non deve aver gradito la politica dei “due forni” di Di Maio, e spinge per un’alleanza Lega-5 stelle. Questi sembrano essere i due serbatoi principali ai quali ha attinto la destra, poiché dall’estrema destra (CasaPound e altri due movimenti presenti nelle politiche) non ha ricevuto che poco più d’un migliaio di voti.

Una destra, dunque, molto rafforzata, ma anche radicalizzata. Se infatti nel 2013 la coalizione allora di centrodestra si incentrava sul Popolo della libertà (ora Forza Italia), col 9,0 % dei voti, fiancheggiato dall’Unione di centro (5,5 %) e da varie liste locali “berlusconiane”, mentre l’estrema destra non andava oltre l’1,3 %, nelle scorse politiche il partito di Berlusconi, assorbendo le liste fiancheggiatrici, toccava il 16,1 %, mentre l’Unione di centro calava all’1,9 %, e facevano la loro comparsa sia la Lega (8,7 %) sia Fratelli d’Italia (3,1 %). Nelle ultime regionali, invece, Forza Italia mantiene le sue posizioni complessive (8,1 % alla lista “ufficiale”, più quelle fiancheggiatrici, ma, oltre a un rafforzamento dei centristi (Popolari per l’Italia, Unione di centro), c’è un sensibile rafforzamento di due componenti di destra (Fratelli d’Italia 3,9 % e Movimento nazionale per la sovranità 2,3 %) che, compensando la lieve flessione della Lega (7,1 %), porta l’ala di estrema destra della coalizione a totalizzare oltre il 13 %. Poco per ora per condizionare la direzione locale berlusconiana, ma molto se si considera il magro 1,3 % del 2013.

La scomparsa del centro. Non c’è molto da dire. L’ultimo tentativo di formare una coalizione centrista risale alle regionali del 2013, mettendo assieme i reduci dell’esperienza montiana e di altre piccole formazioni. Allora rappresentava circa 22.000 voti e l’11,6 %. Questo centro era già scomparso del tutto nelle scorse politiche, confluito in parte nella destra, in parte nel Partito democratico e suoi satelliti. Quest’ultima componente sembra ora aver abbandonato al suo destino il PD, per approdare definitivamente a destra: i buoni risultati dell’Unione di centro e dei Popolari per l’Italia sembrano darne testimonianza.

L’instabile assetto del Movimento 5 stelle. Il Movimento 5 stelle, con 65.000 voti e il 38,7 %, è di gran lunga il più forte partito regionale: il secondo come consistenza è infatti Forza Italia, che in quanto tale si ferma all’8,1 %. Curiosamente, appare però come il grande sconfitto. E diciamo “curiosamente” perché se è vero che rispetto alle politiche perde 13.000 voti e il 6,1 %, è anche vero che rispetto alle regionali del 2013 ne guadagna 33.000 e quasi il 22 %…

La verità è che le oscillazioni in su e in giù del M5S sono da considerarsi, ancora per qualche tempo, assolutamente fisiologiche, in quanto un “movimento” nato all’insegna del “né di destra né di sinistra” non appena comincia a fare (o a non fare) delle scelte politiche, che necessariamente vanno in una delle due direzioni “proibite”, ne subisce i contraccolpi. In questo caso, sembra evidente che le perdite siano andate sia in direzione dell’astensione, sia in direzione della destra. Inoltre, come ormai è stato detto e ridetto, il M5S continua ad avere gravi carenze a livello strutturale, cioè a non essere un “partito” strutturato sul territorio, con sufficiente personale politico in grado di radicare il partito nel tessuto sociale reale piuttosto che nei cieli astratti della “rete”. Non è il caso dunque di intonare il de profundis per i pentastellati, che, sia detto con rispetto, continueranno a starci fra i piedi ancora a lungo.

Ultimi bagliori del crepuscolo renziano. Il Partito democratico nel 2013 era stato il perno di un’ampia coalizione-macedonia (dal Partito dei comunisti italiani e da SEL all’Italia dei valori e ai Popolari-UDEUR) che aveva raccolto 86.000 voti e il 44,7 %, conquistando la guida della regione. I fatti che hanno travagliato questo pittoresco conglomerato di forze sono noti, e non è il caso di insistere, se non per brevi cenni: dalla spaccatura di SEL alla spaccatura del PD sino alla pratica scomparsa di Italia dei valori. Le forze superstiti raccolte attorno al PD nelle scorse politiche sono riuscite a mettere assieme solo 32.000 di quegli 86.000 voti (con il 18,1 %). Come è andata questa volta? I voti sono stati 29.000 (17,2 %), apparentemente un piccolo smottamento. Se non fosse per il fatto che, questa volta, in soccorso del PD si sono precipitati quelli di Liberi e uguali, che alle politiche avevano ottenuto oltre 6.000 voti e il 3,7 %. LeU paga salato il conto, perché scende a 4.800 voti e al 2,9 %, e la coalizione nel suo complesso perde dunque in realtà quasi 10.000 voti e quasi il 5 %. In che direzione? Non essendoci alcuna lista di sinistra anticapitalista, sembra evidente che oltre a perdite in direzione della destra in seguito all’esodo verso quei lidi di ex amministratori del centrosinistra, vi sia stato anche un certo travaso di voti verso i 5 stelle, se non altro come scelta di “voto utile” per contrastare le destre.

C’è da dire, infine, che la crisi del PD (dal 13 % del 2013 all’attuale 7,8 %, anche se si dovrebbe tener conto delle liste locali “collaterali”) dipende non solo, com’è ovvio, dalle scelte nazionali di questo partito, ma anche dalle sconsiderate scelte della direzione locale. Su che tipo di personale politico si fosse puntato lo si è capito quando si è assistito alla “transumanza” di tanti suoi esponenti di primo piano, in cerca di pascoli migliori all’estrema destra. Ma, e con questo concludiamo, va anche ricordato il capolavoro di politica masochista realizzata dalla giunta “renziana” negli ultimi tempi della sua gestione, e cioè la nuova legge regionale. In poche parole, si è trattato di questo. Introduzione di uno sbarramento dell’8 %, al di sotto del quale non si ha diritto a seggi, se ci si presenta da soli; assegnazione di almeno 12 seggi alla lista o coalizione arrivata prima, con qualunque numero di voti, ai quali va aggiunto il seggio del candidato presidente, e cioè 13 seggi su 21. Il resto dei seggi, 8, da distribuire fra le opposizioni, in modo che possano parlare, ma non intralciare il manovratore. Lo sbarramento dell’8 % (che inizialmente era del 10 %, ma che anche a Roma era apparso provocatorio) era un’arma puntata contro la sinistra, in modo che si togliesse dai piedi. E il “premio” in seggi era stato pensato quando si credeva ancora di poter vincere a mani basse. Ironia della sorte, il “premio” è andato alla destra, che con il 44 % dei voti si prende oltre il 60 % dei seggi. E come “premio” di consolazione il Partito democratico dispone ora di due seggi in consiglio comunale; un altro va a LeU, e cinque ai pentastellati.

[1] Il numero dei voti è sempre arrotondato, e le percentuali sono state ricalcolate sul numero effettivo dei voti validi, e non solo su quello dei voti assegnati esplicitamente ai partiti. E questo per evitare casi come questo: il Movimento 5 stelle risulta avere il 31,6 % nella parte riservata ai partiti, e il 38,7 % nella parte riservata al voto al candidato presidente. Circa 19.000 elettori hanno infatti votato direttamente per il candidato presidente, senza prendersi la briga di votare anche il simbolo. Ma è ovvio che sono tutti voti del M5S. Le percentuali relative ai partiti riportate dai quotidiani sono dunque tutte, in realtà, involontariamente fasulle: gonfiano i risultati dei partiti coalizzati e “sgonfiano” quelle dei partiti non coalizzati.