Nel 1988, alle porte di Gerusalemme vecchia, osservavo i giovani palestinesi affrontare i soldati israeliani. I soldati impugnavano fucili, mentre i palestinesi delle pietre. Tale asimmetria ha fatto cozzare l’idea di ebraismo risalente alla mia infanzia con il mio senso di giustizia. Quelle pietre mi hanno fatto pensare, “Che cosa porta dei ragazzi a rischiare la propria vita in questo modo?”
Il mio lavoro con le comunità colpite da guerre e conflitti mi ha portato poi nella Striscia di Gaza. Aver vissuto in quel luogo dal 2011 al 2015 ha permesso di confrontarmi con il potere di Israele a partire dal territorio.
Venerdì scorso, il Giorno della Terra, gli abitanti di Gaza, disarmati, si sono confrontati con quel potere ancora una volta; con una Marcia del Ritorno stavano commemorando i sei manifestanti (ancora una volta disarmati) uccisi 42 anni fa, nel 1976, mentre protestavano contro l’esproprio dei possedimenti arabi nel territorio a nord di Israele. Gli organizzatori di Gaza chiamarono una stagione di proteste nonviolente che sarebbe durata fino al giorno della cosiddetta Nakba, il giorno in cui i Palestinesi piangono le perdite del 1948, affermando i diritti dei rifugiati che rappresentano la maggioranza della popolazione di Gaza.
Decine di migliaia di abitanti di Gaza hanno marciato verso la barriera, affrontando la linea militare pesantemente armata dell’esercito israeliano. Hanno camminato verso droni e fucili, verso un centinaio di cecchini scelti che Israele aveva annunciato essere autorizzati ad utilizzare munizioni vere. E questo hanno fatto; le Nazioni Unite hanno dichiarato 15 morti e 1,416 feriti, 750 colpiti da pallottole vere, di cui 20 ancora in condizioni critiche.
La popolazione di Gaza ha marciato nonostante tutto questo, chiedendoci di porre a noi stessi la domanda, “Che cosa sta succedendo a Gaza che li spinge a mettere in gioco le loro vite?”. È questa la domanda fondamentale. Una domanda che è già stata coperta da strati e strati di parole, per oscurarla.
Ben prima che la protesta avesse inizio, i portavoce israeliani l’avevano etichettata come una cosa organizzata da Hamas. L’implicazione della scelta di questa linea interpretativa è che, se la marcia rappresenta il posizionamento politico di Hamas, allora non c’è bisogno di cercare una comprensione più profonda della stessa.
In ogni caso, Hamas non è Gaza e Gaza non è Hamas. La volontà della popolazione civile di Gaza di marciare fino al muro non è la misura del suo supporto ad Hamas. È la misura del suo desiderio di esprimersi come esseri umani che vogliono la libertà, al punto tale da esporre la propria vita ad un rischio immediato.
Benjamin Netanyahu ha parlato degli omicidi come di una difesa necessaria della frontiera israeliana. Per quanto poi in realtà, una frontiera è un confine concordato. Questa frontiera è invece la demarcazione militare, unilaterale di un blocco illegale.
L’esercito israeliano ha oltretutto militarizzato la cintura del territorio agricolo di Gaza, intromettendosi dai 300 ai 500 metri dentro il territorio palestinese. È questa la zona dove le armi con munizioni vere sono state utilizzate. I civili che camminavano qui sono stati uccisi, sulla loro stessa terra. Marciare in segno di protesta non è un crimine capitale in altri luoghi; il gruppo per la difesa dei diritti umani B’Tselem ha definito “assurdo” il tentativo di Israele di controllare i manifestanti con pallottole vere.
Netanyahu ha dichiarato la sua politica di “guerra ai tiratori di pietre” nel 2015, argomentando che una pietra giustifica l’utilizzo della forza bruta. Forse nel caso di Humpty Dumpty sì. Per quanto, sin da quelle notti di guerra del 2014, quando Israele ha fatto piovere bombe su Gaza ogni minuto, avrei voluto chiedergli di preciso quanta forza bruta occorre per giustificare una pietra.
Al momento, le pietre distraggono l’attenzione dal grande potere della popolazione civile di Gaza disarmata: camminare.
Voci israeliane hanno giustificato anche la più grave violenza israeliana contro Gaza come necessaria per salvaguardare le vite normali israeliane. Normali? Due milioni di palestinesi vivono dietro un muro, privati dei diritti fondamentali, privati dalla possibilità di accedere all’acqua pulita, alla salute, ad un lavoro, privati della libertà di movimento. Sono costretti in uno spazio dove la violenza strutturale è diventata parte dello stile di vita israeliano, sorretta dalla legge, dalla retorica disumanizzante, dalla politica e dalle armi.
Il fallimento nella risoluzione del conflitto palestinese ha aiutato Israele a diventare il paese più militarizzato del pianeta. È questa la scelta che viene protetta dalla violenza, e non c’è niente di “normale” in tutto questo.
Chemi Shalev teme confronti “pretestuosi” con Birmingham, l’Alabama e il Sud Africa dell’apartheid, se queste proteste “costringono l’esercito israeliano ad uccidere civili disarmati”. Ma nessuno sta costringendo l’IDF ad uccidere.
Gaza non ha bisogno di diventare Birmingham o Soweto per imparare da essi. Quando l’ingiustizia radicata rifiuta di tornare ad essere giustizia, la protesta nonviolenta di massa può aiutare a costruire ed ampliare la pressione che porta al rovesciamento dei torti sistemici.
Per capire il motivo per cui la popolazione di Gaza ha la volontà di confrontare un esercito con il proprio corpo vivo come unica arma, si devono spellare via tutti i posizionamenti politici. E la domanda che occorre porsi è una sola: “Che tipo di vita ha convinto decine di migliaia di esseri umani che il pericolo più grande rappresenta la migliore speranza – e perché non gli è permesso di camminare?”
*Fonte articolo: https://www.haaretz.com/israel-news/debunking-israel-s-talking-points-on…
Traduzione a cura della Redazione di Communia network