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La crisi del 2008 non ha comportato solo un crollo della produzione, ma ha messo in moto un meccanismo che sembra pesare in modo duraturo sulla crescita futura. Questa constatazione è chiara per il FMI: “La potenziale crescita è diminuita negli ultimi anni nelle economie avanzate ed emergenti. Nelle economie avanzate questo calo è cominciato agli inizi degli anni 2000 e si è aggravato con la crisi finanziaria mondiale. Invece nelle economie emergenti è cominciata solo dopo la crisi.” E il FMI non intravvede reali miglioramenti: “La crescita della produzione potenziale aumenterà leggermente nelle economie avanzate (…) ma resterà a medio termine sotto i livelli antecedenti la crisi. Nei paesi emergenti invece continuerà ad diminuire.” (1)

Queste preoccupazioni sono al centro dal dibattito su quella che viene definita la “stagnazione secolare” animato da economisti per nulla eterodossi. Una prima versione di questo orientamento fa riferimento agli effetti della crisi finanziaria e ai limiti della politica monetaria. I suoi effetti sarebbero resi vani dal cosiddetto Zero Lower Bound, cioè da tassi di interesse vicini allo zero, che limitano la capacità delle banche centrali di rilanciare le attività. Se questa prima categoria di analisi predilige mettere l’accento sul peso dei debiti accumulati sull’attività economica, essa ci dà poche indicazioni sui determinanti più materiali della crescita.
Un secondo orientamento, per contro, insiste sull’esaurimento dei guadagni di produttività. La tesi di Robert Gordon, economista americano, è che “le innovazioni non avranno più lo stesso potenziale in futuro come lo hanno avuto in passato” (2). Dal suo punto di vista le prospettive sono quindi assai pessimistiche: “La crescita futura del PIL pro-capite sarà inferiore a quella riscontrata a partire dalla fine del 19° secolo e la crescita del consumo reale per abitante sarà ancora più lenta per il 99% dei ceti che si trovano in basso nella redistribuzione del reddito.”
L’interesse di questa analisi è di mostrare che la dinamica del capitalismo è legata alla sua capacità di ottenere aumenti di produttività. E poiché questa dinamica dipende essenzialmente dalla redditività, è utile stabilire un legame tra produttività del lavoro e redditività (vedi riquadro). Il dibattito sulla stagnazione secolare porta quindi a porre due domande essenziali che vertono sulla possibilità di una rilancio della produttività indotto dalle nuove tecnologie e sul ruolo dei paesi cosiddetti “emergenti”.$

Digitale, robot e occupazione
La letteratura che si interessa a questa prospettiva è oggi estremamente polarizzata. Da una parte c’è, come abbiamo visto, il “pessimismo” di Robert Gordon, Ma ci sono pure altri numerosi contributi che mettono l’accento sullo sviluppo della robotizzazione, sulle innovazioni tecnologiche dell’informazione e della comunicazione (rete, economia collaborativa, stampanti 3D, big data)…per non parlare del cosiddetto “transumanesimo”.
Il libro di Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee (4) è, senza dubbio, il più rappresentativo di questa corrente di pensiero. Gli autori sostengono che in quantità sempre più crescente di settori le tecnologie digitali si tendono già oggi a sostituire il lavoro umano. Ai loro occhi si tratta di una buona cosa, poiché l’aumentata produttività permetterà una crescita più elevata e porterà benefici ai consumatori attraverso una diminuzione dei prezzi. Ma è una pessima
notizia per i lavoratori, sostituiti dai robot e condannati a perdere la “corsa contro le macchine”, riprendendo il titolo di una loro precedente opera.
Altri economisti non esitano a quantificare il numero di salariati toccati dal fenomeno e arrivano fino a pronosticare la scomparsa di una quantità considerevole di posti di lavoro nei prossimi decenni. In uno studio spesso citato (5), Carl Benedikt Frey e Michael Osborne, calcolano quale sarà l’impatto per gli Stati Uniti. Arrivano alla conclusione che quasi la metà dei salariati (47%) sono esposti a un rischio elevato di vedere “informatizzato” il proprio posto di lavoro, in particolare gli impiegati di ufficio e i salariati attivi nel settore dei servizi e del commercio. Più recentemente, uno studio (6) sulla Francia arriva alla conclusione che il 42% degli impieghi sono potenzialmente automatizzabili entro i prossimi 20 anni, un altro (7) che il 59% dei posti di lavoro in Germania lo sarebbe nei prossimi decenni.
Questo dibattito non è nuovo. Circa 25 anni fa Robert Solow annunciava il paradosso da allora conosciuto con il suo nome: “Si vedono computer ovunque tranne che nelle statistiche sulla produttività” (8). E il paradosso sussiste. Lawrence Mishel nota che “i robot sono ovunque nei media, ma sembrano non lasciare traccia nei dati” (9). Mostra, sulla base di uno studio approfondito (10), come la produttività del lavoro e gli investimenti in capitale fisso, in materiale informatico e in software, siano accelerati tra il 1995 e il 2002 negli Stati Uniti, ma abbiano cominciato a rallentare a partire dal 2002. Lo stesso fenomeno si osserva in Europa dove la parte degli investimenti nelle nuove tecnologie tende a rallentare o a stagnare.
Questo scetticismo si ritrova in un recente studio (11) che ha messo in luce un risultato inquietante. Ogni volta che si rilevano aumenti di produttività legati alle nuove tecnologie, si constatata allo stesso tempo che essi provengono “da un calo della produzione relativa [del settore considerato] e da una diminuzione, ancora più rapida, dell’impiego”. Risulta quindi difficile conciliare “questi cali di produzione con l’idea che l’informatizzazione e le nuove tecnologie incorporate nei nuovi strumenti, sarebbero all’origine di una rivoluzione della produttività”. E gli autori concludono sostenenendo che i loro risultati “suggeriscono per lo meno che le soluzioni del paradosso di Solow proposte fino ad oggi debbano essere esaminate in maniera critica, e che i sostenitori di una rottura tecnologica debbano fornire prove più dirette delle trasformazioni indotte dalla nuove tecnologie”.
La robotizzazione o l’automazione possono evidentemente generare aumenti di produttività nell’industria e in una parte dei servizi. Ma le innovazioni necessitano di investimenti, e questi devono soddisfare il criterio di una redditività elevata. E, soprattutto, l’automatizzazione conduce a una rimessa in discussione della coesione delle società (disoccupazione, polarizzazione tra impieghi qualificati e “lavoretti”, ecc.) e rende più difficile un aspetto decisivo e fondamentale: quello della “realizzazione”. In effetti è necessario che esistano sbocchi alla produzione : a questo punto si ritorna alla contraddizione fondamentale insita nell’automazione: chi compererà le merce prodotte dai robot?
Le mutazioni indotte da quella che viene denominata l’“economia collaborativa” necessitano di una riflessione specifica. Senza per forza vedere in essa un’alternativa al capitalismo, possiamo chiederci sin quale misura questo genere di innovazioni possa essere inserito nella logica capitalista: gli atelier di stampanti 3D o le reti di carsharing non sono necessariamente portatori di un allargamento del campo delle merci. E può forse essere questa la risposta di fondo al paradosso di Solow.: il flusso delle innovazioni tecnologiche non sembra esaurirsi, ma è la capacità del capitalismo ad incorporarli nella propria logica che si sta esaurendo.

I paesi emergenti danno il cambio?
Nel corso dei due decenni che hanno preceduto la crisi, gli aumenti di produttività hanno subito una forte accelerazione nei cosiddetti paesi “emergenti”, mentre andavano rallentando nei “vecchi” paesi capitalistici (12). Si poteva quindi pensare che gli emergenti avessero dato il cambio e dato nuovo slancio al capitalismo nel suo insieme. Ma diversi fattori permettono di affermare che questo ruolo di ricambio tende ad esaurirsi.
Il ritmo del commercio mondiale ha rallentato, traducendosi nell’inizio di un arretramento della mondializzazione produttiva. Il rallentamento al Nord indeboliva i modelli esportatori del Sud. Il fenomeno dell’emergenza si sta quindi esaurendo, e il tonfo dei prezzi delle materie p rime, i movimenti erratici dei capitali e dei tassi di cambio, tutto ciò ha fragilizzato molti paesi emergenti. Alcuni di essi, soprattutto in Sud America, sono tornati a un inserimento dominato nella divisione internazionale del lavoro. Lo sviluppo delle “catene globali del valore” tende a rallentare tra l’atro a causa dell’aumento dei salari, in particolar modo in Cina. È dunque sconcertante constatare (vedi grafico) che i guadagni di produttività hanno subito una battuta di arresto nei paesi emergenti. E una buona parte di questi aumentati andava ad appannaggio delle multinazionali del Nord.

La frammentazione sociale: un’”innovazione”?
La problematica della stagnazione secolare permette di oltrepassare i limiti del keynesianismo (13) che pone il problema solo in termini di adeguamento dell’investimento e del risparmio, o di una contraddizione tra austerità e crescita. La questione fondamentale è il tasso di profitto e quello che distrugge le società è, alla fin fine, la ricerca di ristabilire ad ogni costo il tasso di profitto.
35 anni fa, due economisti, Jean Amado e Christian Stoffaes (14),riflettevano già sulle conseguenze sociali delle mutazioni tecnologiche. Si stava andando, secondo loro, verso un’“economia socio-duale”, vale a dire un’organizzazione della società che si divideva in due grandi sotto-insiemi: “Da una parte un sotto-insieme che si adattava alle nuove tecnologie, integrato allo spazio mondiale, fatto di uomini moderni, in grado di maneggiare l’informazione e le tecnologie di punta, così come anche le lingue straniere poiché avrebbero passato parte della loro vita in paesi stranieri. Dall’altra, un sotto-insieme che incarnava l’eredità delle nostre tradizioni culturali, costituito da organizzazioni isolate dalla concorrenza internazionale, che avrebbe lasciato entrare più lentamente le tecnologie moderne, con un reddito minore ma con stili di vita più conviviali e classici.”
Gli autori rendevano attenti, con una grande delicatezza nella scelta dei termini utilizzati, sul fatto che “sarebbe un controsenso o un errore considerare gli elementi e i membri del settore meno avanzato tecnologicamente, come appartenenti a una sotto-razza e all’arcaismo”. Tuttavia questo spirito di tolleranza non spingeva granché oltre: “Bisognerà che coloro i quali sceglieranno di operare nei settori tradizionali non rivendichino lo stesso grado di vantaggi, in particolare dal punto di vista del reddito, di coloro che subiscono ii vincoli dell’imperativo tecnologico e del suo contesto industriale.”
Un economista marxista come Ernest Mandel avrebbe potuto condividere questo pronostico pessimista relativo all’uso capitalistico dell’automatizzazione, di cui mostrava peraltro il carattere contraddittorio. Anche lui parlava di una società duale con, da una parte, “quelli che continuano a partecipare ai processi di produzione capitalista” e, dall’altra, quelli che sopravvivono “ attraverso mezzi diversi dalla vendita della propria forza lavoro: assistenza sociale, aumento delle attività “indipendenti”, piccoli contadini o artigiani, ritorno al lavoro domestico, comunità “ ludiche”, ecc e che acquisteranno merci capitalistiche senza produrne”.(15)
Come non vedere in questi esercizi tesi a delineare una prospettiva futura, un’immagine fedele della realtà attuale? Poiché è proprio questa logica di frammentazione sociale che è in corso da molti anni e che la crisi e le “riforme” non posso che intensificare: da una parte, i salariati suscettibili di essere mobilitati nella guerra della competizione, dall’altra i salariati – e i paesi- “low cost”. Questa esasperazione dei rapporti sociali non è l’effetto della sola automatizzazione capitalista di cui abbiamo visto il suo ambiguo potenziale. Ma, in ogni caso, essa non genera un progresso neutro, e si potrebbe ripetere oggi, riferito ai robot, quello che diceva Marx a proposito dei macchine nel capitolo “Macchinismo e grande industria” del Capitale: “Tuttavia la macchina non agisce soltanto come concorrente strapotente, sempre pronto a rendere «superfluo» l’operaio salariato. Il capitale la proclama apertamente e consapevolmente potenza ostile all’operaio e come tale la maneggia” (16)
Se le nuove tecnologie non hanno permesso fino ad oggi di realizzare guadagni di produttività a livello globale, esse contribuiscono fortemente alla frammentazione sociale. Ed è questo che bisognerà mettere in discussione:
-nell’immediato rivitalizzando il progetto di statuto del salariato, esteso anche ai lavoratori “uberizzati”
-rilanciando con forza il tema della ripartizione: non solo la ripartizione dei redditi, ma anche quella delle ore di lavoro facendo della riduzione dell’orario di lavoro l’asse centrale di un progetto di trasformazione sociale;
-interrogandoci sul contenuto della crescita e dell’accumulazione. Nel regime capitalista, la ricerca per la crescita ad ogni costo passa sempre attraverso l’intensificazione del lavoro, la messa in concorrenza e la mercificazione di ogni cosa. È il contenuto di questa crescita e le forme di organizzazione del lavoro che l’accompagnano che dobbiamo contestare, da due punti di vista: il loro adeguamento ai bisogni sociali e il loro rispetto dei vincoli ambientali.

Produttività e redditività (3)
L’evoluzione del tasso di profitto dipende dalla progressione comparata del salario e della “produttività globale dei fattori”. Questa nozione, usata di solito dagli economisti neoclassici, è semplicemente definita come la media ponderata della produttività del lavoro e dell’efficacia del capitale (che i neoclassici hanno battezzato evidentemente “produttività del capitale”). Essa può quindi essere quantificata senza riferimento alla teoria neoclassica: basta avere a disposizione dati statistici sul volume della produzione (il PIL), sull’effettivo dei salariati o sul numero di ore lavorate, sulla parte dei salari nel valore aggiunto e il volume del capitale.
Riassumendo, il tasso di profitto resta costante se la progressione della produttività del lavoro compensa la progressione del salario e il peso del costo di acquisizione del capitale necessario per ottenere gli aumenti di produttività.
L’interesse di questo approccio è di stabilire i legami empirici tra redditività e produttività. Fino a metà degli anni ’80, il rallentamento degli aumenti di produttività si traduceva in una diminuzione tendenziale del tasso di profitto nelle grandi economie. Poi, durante la fase neoliberista, il capitalismo è riuscito a ristabilire i tassi di profitto malgrado un rallentamento degli aumenti di produttività.
Ma ha potuto farlo solo sulla base di una diminuzione della parte dei salari sull’insieme del valore aggiunto e mettendo in pratica diversi dispositivi che non erano sostenibili, e che hanno condotto alla crisi.

*Articolo apparso su Analyses et Documents Économiques n°122, giugno 2016. La traduzione in italiano è stata curata da Simona Arigoni per la redazione di Solidarietà. Le note non sono state tradotte.

1.FMI (2015), « Perspectives on potential output», World Economic Outlook, avril.
2.Robert J. Gordon (2012), « Is U.S. Economic Growth Over? », CEPR, septembre.
3.Voir : Michel Husson (2016), « Taux de profit, salaire et productivité», 4 mars.
4.Erik Brynjolfsson et Andrew McAfee (2014), The Second Machine Age.
5.Carl Benedikt Frey et Michael A. Osborne (2013), « The future of employment», septembre.
6.Roland Berger Strategy Consultants (2014), « Les classes moyennes face à la transformation digitale», octobre.
7.Jörg Luyken (2015), « Are robots about to take away 18 million jobs? »,thelocal.de, 4 mai.
8.Robert Solow (1987), « We’d Better Watch Out», New York Times Book Review, 12 juillet.
9.Lawrence Mishel (2015), « The Missing Footprint of the Robots», 13 mai.
10.John G. Fernald (2014), « Productivity and Potential», Federal Reserve Bank of San Francisco, juin.
11.Daron Acemoglu, David Autor, David Dorn, Gordon H. Hanson, and Brendan Price (2014), « Return of
the Solow Paradox? », American Economic Review, vol. 104, n° 5
12.M. Husson (2015), « La fin de l’émergence du Sud? », A l’encontre, 22 mars.
13.M. Husson (2015), « Les limites du keynésianisme», A l’encontre, 15 janvier.
14.J. Amado et C. Stoffaes (1980), « Vers une socio-économie duale ? », dans La Société française et la technologie, Commissariat général du plan, Paris.
15.Ernest Mandel (1986), « Marx, la crise actuelle et l’avenir du travail humain», Revue Quatrième Internationale, n° 20, mai.
16.Karl Marx, Le Capital, Livre I, Editions sociales, tome 2, p. 116