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Ennesima doccia fredda su ciò che resta della sinistra europea, quella vera, anticapitalista. Ma anche e soprattutto su quella variegata e pittoresca compagnia di apprendisti stregoni che come tale (“sinistra riformista europea”) continua a spacciarsi dopo aver tenacemente e ottusamente, per decenni, dissodato il terreno sul quale stanno germogliando, uno dopo l’altro, i vari movimenti di destra che minacciano di ridurla all’insignificanza. Quella parlamentare e governativa, ovviamente, che è l’unica sua ragione di vita.

In Ungheria, l’8 aprile, Viktor Orbán, il teorico della «democrazia illiberale», ha daccapo, e per la terza volta, stravinto le elezioni. Poteva andare diversamente? Non si può escluderlo del tutto, certo, ma il fatto è che molto difficilmente gli elettori ungheresi avrebbero buttato via un modello politico che, a suo modo, sembra funzionare, garantendo «ordine e sicurezza», per affidarsi ai balbettii messi insieme dalle varie forze d’opposizione. Perché di balbettii si trattava: un elenco più o meno lungo di interventi su salari, pensioni, scuola, sanità, compilato però da coloro che quando erano stati al governo, prima di Orbán, avevano fatto esattamente il contrario. E compilato, soprattutto, senza preoccuparsi di “cucire” fra loro i vari provvedimenti in modo da proporre un modello alternativo di società, di Stato, di democrazia, di sviluppo. Ma prima di proseguire diamo un’occhiata alle cifre del disastro.

Una destra che sfiora il 70 %. Come nelle precedenti elezioni del 2014, il partito di Orbán, la FIDESZ-Alleanza civica ungherese [1], si presentava in coalizione con un vecchio, piccolo e servilmente sottoposto partito, il Partito popolare cristiano-democratico (KDNP). Rispetto alle precedenti legislative la coalizione FIDESZ-KDNP ottiene (arrotondiamo le cifre) 2.600.000 voti, il 48,49 % e 133 seggi, con un incremento di 290.000 voti e del 3,62 %. Dato il meccanismo elettorale [2], il numero di seggi è rimasto invariato, ma, ed è questo che conta, continua a equivalere ai due terzi dei 199 seggi di cui si compone l’unicamerale Parlamento ungherese, consentendo così alla coalizione, come nella precedente legislatura, di poter procedere unilateralmente a modifiche costituzionali, peraltro già annunciate.

La forza della destra ungherese non si limita a questo 48,49 %, però. Vi va aggiunta anche quella del Movimento per una migliore Ungheria, più noto con l’acronimo Jobbik. Questo ottiene 1.000.000 di voti, il 19,49 % e 26 seggi. Un risultato che è in realtà una stagnazione (8.000 voti in più, che però si traducono in un calo percentuale dello 0,73 %, data l’alta affluenza alle urne), ma che, sempre per via delle particolarità del sistema elettorale ungherese, gli consente di aggiudicarsi tre seggi in più.

Tirando le somme, la destra ungherese nelle sue due principali articolazioni, con 3.600.000 voti sfiora il 70 % e dispone di 159 seggi su 199. Se è vero che si tratta di una destra divisa (Jobbik è all’opposizione) è pur anche vero che il bacino della sua base elettorale è decisamente ampio, e non appare affatto in via di prosciugamento, anzi. Negli ultimi anni Jobbik ha compiuto un sorprendente capovolgimento di posizioni: dopo essere cresciuto servendosi dei cavalli di battaglia della destra più estrema e fascistoide (xenofobia, razzismo, spedizioni punitive contro i rom, eccetera), ha da qualche anno operato una sorta di “svolta al centro”, espellendo le frange più estreme e scoprendosi una missione “sociale”. E fra i disperati esponenti dell’opposizione per bene a Orbán non sono mancati numerosi personaggi che non si sono peritati di teorizzare una sorta di “fronte popolare” allargato a Jobbik, magari accontentandosi anche solo di un accordo di “desistenza” in un certo numero di collegi uninominali. Senza chiarire, peraltro, cosa avrebbe mai potuto fare una simile coalizione, nel caso, molto improbabile, che avesse vinto. La realtà è che Jobbik sta disperatamente cercando una collocazione per sopravvivere in quanto partito: la sua “svolta al centro” è determinata soprattutto dal fatto che Orbán, spostandosi progressivamente sempre più a destra, gli sta falciando l’erba sotto i piedi, non gli lascia ulteriore spazio per crescere, sta cominciando a rosicchiarne l’elettorato.

Un centrosinistra, molto di centro, un po’ di destra e per nulla di sinistra. Il grosso dei partiti d’opposizione (“grosso” come numero, non come seguito elettorale) si accalca al centro, dando vita a una sorta di Circo Barnum dove tutti i pagliacci, qualsiasi sia il loro costume, si confondono tra loro. Nel 2014 il partito più consistente di quest’area, il Partito socialista ungherese (MSzP), era riuscito a mettere in piedi una coalizione, Unità, che aveva ottenuto quasi 1.300.000 voti, il 25,57 % e 38 seggi [3]. Quest’anno della coalizione non restano che le spoglie, rappresentate dalla lista comune Partito socialista-Dialogo per l’Ungheria, con 650.000 voti, il 12,35 % e 20 seggi. Degli altri tre partiti che la componevano uno è scomparso (Partito liberale) mentre gli altri due si sono presentati da soli: Insieme, con 34.000 voti e lo 0,64 ha ottenuto 1 seggio (perdendone 2), mentre è andata meglio alla Coalizione democratica, che con 290.000 voti e il 5,58 % si assicura 9 seggi (5 in più). In complesso, però, questa area politica perde 310.000 voti, il 7,00 % e 8 seggi. Se vi si aggiunge il partito Un’altra politica è possibile (LMP), più o meno affine, con 370.000 voti (96.000 in più), il 6,93 % (1,59 % in più) e 8 seggi (3 in più), il danno viene limitato, ma resta il fatto che questo conglomerato di partiti e partitini non solo non incide sull’elettorato di Orbán, non solo non si avvantaggia (come sperava) del notevole aumento della partecipazione al voto, ma cede terreno, un po’ in tutte le direzioni.

In particolare, un’analisi del voto più approfondita, che qui non c’è il tempo di fare, dimostrerebbe come eccettuate le aree urbane, e in modo particolare la capitale Budapest, si tratti di un’opposizione in gran parte confinata in poche riserve dove più numerosa è la borghesia “illuminata” ed europeista, mentre nel resto del Paese, nelle sue numerose cittadine, nelle aree rurali, FIDESZ impera sovrana. Uno sguardo ai 106 seggi attribuiti con il sistema maggioritario può essere istruttivo. Di questi 106 seggi, 18 si trovavano a Budapest, e si sono così distribuiti: 6 alla FIDESZ, 7 alla coalizione del Partito socialista, 3 alla Coalizione democratica, uno a Un’altra politica è possibile e uno a Insieme. Gli altri 92 seggi sparsi per il Paese sono andati tutti alla FIDESZ, con tre sole eccezioni: uno al Partito socialista, uno a Jobbik e uno a un candidato indipendente. È una forzatura accostare questi risultati a quelli ottenuti dal Partito democratico nelle ultime elezioni italiane, con la stessa frattura fra relativamente buoni risultati in una serie di quartieri borghesi di un certo numero di grandi città e i pessimi risultati ottenuti nel resto del Paese “reale”?

E la sinistra? Figura fra gli “altri”. Ai seggi sino a ora enumerati ne va aggiunto uno ottenuto dalla lista Autogoverno nazionale dei tedeschi ungheresi (26.000 voti e 0,49 %), una lista piuttosto conservatrice, l’unica delle liste delle “minoranze nazionali” a entrare in Parlamento, grazie a un abbassamento della soglia minima concessa a queste minoranze. A parte questo caso, circa 320.000 voti si disperdono fra altri 17 partiti che non raggiungono la soglia del 5 % e 12 liste delle minoranze nazionali. Non presentano alcun interesse, salvo tre casi. Innanzitutto, il Movimento Momentum, alla sua prima prova elettorale, che ottiene 150.000 voti e il 2,84 %: c’era grande attesa nei suoi confronti, poiché sembrava rappresentare una fetta consistente dell’elettorato giovanile e “cosmopolita”, con una linea politica però tutta interna alle logiche dell’Unione europea. Un secondo partito, inclassificabile anche se d’opposizione, la dice lunga sullo scetticismo diffuso in certi strati dell’elettorato: si tratta del Partito del cane a due code, specializzato in happening, pitture murali e altri simili mezzi di contestazione del potere, simpatici quanto innocui. Infine, c’è da dire, poco, dell’unico partito dichiaratamente anticapitalista, il Partito dei lavoratori ungheresi (MPP), riconosciuto dal gruppo della Sinistra europea: ottiene 15.000 voti e lo 0,29 %, perdendone 13.000 e lo 0,27 %, un dimezzamento di un bottino già piuttosto magrolino. Naturalmente, la sinistra anticapitalista ungherese non si riduce al MPP: si articola in numerosi gruppi, riviste, blog eccetera. Ma, per quanto vivace, non è certo ancora in grado di rappresentare non diciamo un’alternativa, ma nemmeno l’abbozzo di una alternativa.

Un panorama deprimente. Il paesaggio politico-elettorale che emerge da questa rapida carrellata risulta deprimente, ma grosso modo in linea, se non quantitativamente, sotto l’aspetto qualitativo, con quello che accade in altri Paesi europei (Italia inclusa). Si deve insistere su questo fatto, per evitare di fuggire per la tangente, inventandosi una “particolarità” dell’Europa orientale, che sarebbe ormai in preda a regimi fascisti o semifascisti contro i quali urge chiamare a raccolta tutti i “democratici”, sino a immaginare, come abbiamo ricordato sopra, la possibilità di un “fronte unico” contro il “fascista” di turno che includa fascisti alla Jobbik che si dicono “pentiti”. Intendiamoci: nei regimi dell’Europa orientale esistono certamente ben definite “particolarità” che li distinguono gli uni dagli altri e li distinguono anche dai Paesi dell’Europa occidentale. Ma se ci si ferma qui, si rischia di non vedere quanti e quali siano anche i tratti comuni.

Per cominciare, partiamo dall’idea di Stato e di democrazia di Orbán. Questi ha dichiarato, in una determinata occasione, di essere a favore di una «democrazia illiberale», ardita definizione che ha scandalizzato non poco. Ma non l’ha solo dichiarato, ha cominciato a costruirla. Il sistema elettorale ungherese è concepito in modo da rendere quasi impossibile rovesciare il governo in carica. A parte le sue caratteristiche specifiche, non vi sono stati e sono in corso in Europa occidentale manipolazioni del sistema elettorale che vanno nella stessa direzione? La storia italiana degli ultimi decenni è costellata di riforme elettorali truffaldine, in un crescendo grottesco da Segni a Renzi, trascurando le tappe intermedie. Il sistema spagnolo è fatto in modo da garantire la perennità del bipartitismo, anche se è ormai entrato in agonia. In Francia Macron sta meditando di fornire uno zuccherino (una riforma elettorale che comprende una dose omeopatica, del 15 %, di proporzionale), per fare digerire meglio uno sfacciato rafforzamento dei poteri dell’esecutivo, che già sono oltraggiosi.

Orbán sta meditando varie modifiche della Costituzione, una delle quali prevede l’eliminazione dell’elezione del sindaco nelle città piccole e medie, sostituito da un governatore nominato dal governo centrale (nome a parte, è il podestà del nostro passato fascista). In Europa occidentale non siamo ancora a questi estremi, ma siamo sulla buona strada. In Spagna Ciudadanos, astro in ascesa della destra spagnola, vuole ribaltare il sistema delle autonomie, e non certo per introdurre più democrazia. In Italia, oltre all’eliminazione delle province (ma senza aver attribuito ad altri le loro competenze, con i problemi seri che ne derivano) la riforma dell’elezione dei consigli comunali ha dato poteri spropositati alla maggioranza di turno, senza che la minoranza possa contrastarli in alcun modo, con risultati a volte esilaranti, più spesso squallidi (i sindaci che tolgono le panchine pubbliche per non farvi sedere gli “extracomunitari”, per esempio).

Fermiamoci qui. C’è una tendenza generale, in atto da anni, e non solo in Europa orientale, a costruire «democrazie illiberali», nel senso di ridurre i poteri del Parlamento, aumentare quelli dell’esecutivo, ricorrere con sempre maggiore frequenza ai decreti-legge, modificare le leggi elettorali in funzione degli interessi della maggioranza di turno, eccetera. E questo non perché l’Europa stia “orbanizzandosi”, ma perché sotto la duplice pressione dello strapotere delle multinazionali, da una parte, e della burocrazia di Bruxelles, dall’altra, gli Stati nazionali scricchiolano, non reggono all’urto, e cercano di adattarsi. In Europa occidentale l’adattamento avviene in funzione, quanto meno nelle intenzioni, di una maggiore adesione al modello dell’Unione europea; in Europa orientale, viceversa, la reazione è opposta, è di tipo nazionalistico, difensivo nei confronti dei diktat di Bruxelles, ma egualmente di adattamento. In questo caso non al “modello Bruxelles”, ma, caso mai, al “modello Putin“. Le differenze, certo, non sono da poco, ma la tendenza, a ben guardare è la stessa e va nella stessa direzione. Non un “dimagrimento” dello Stato in assoluto: il “dimagrimento” avviene solo negli aspetti che riguardano lo “Stato sociale”, che viene progressivamente smantellato mediante le privatizzazioni; ma parallelamente si cerca di rafforzare l’apparato dello Stato nei suoi aspetti di controllo, di repressione del dissenso, con un ritorno a modelli ottocenteschi, alle «democrazie (il)liberali», appunto.

Certo, questo “rafforzamento” dello Stato avviene con modalità e tempi diversi nei vari Paesi. Da noi, in Europa occidentale con più – come dire? – eleganza (Macron è decisamente “elegante”), in quella orientale con più brutalità. Ma sempre di “rafforzamento” dello Stato si tratta. Se si scava al di sotto degli orpelli di tipo nazionalistico di Orbán, la sostanza che si intravvede è la stessa che caratterizza i nostri Paesi. Il blocco sociale costruito da Orbán, che comprende gran parte della popolazione meno abbiente ungherese, si regge su un sistema di alleanze di classe che non ha nulla da invidiare ai sistemi di alleanze di classe predominanti nell’Europa occidentale: tradizionale borghesia domestica, nuova borghesia legata alle multinazionali operanti nel Paese, nuova borghesia oligarchica formatasi all’ombra dello Stato. Qualcosa di diverso da ciò che abbiamo in Italia?

Le sparate contro il “cosmopolitismo” che distruggerebbe i “valori nazionali” e “cristiani“ dell’Ungheria sono a uso strettamente interno. Vanno prese sul serio, naturalmente, ma fino a un certo punto. Perché Orbán è a suo modo alquanto “cosmopolita”, nel senso che le multinazionali operanti in Ungheria, e in particolare quelle tedesche, sono trattate con i guanti di velluto, e non si fanno impressionare dalle sparate di cui sopra: dispongono di una manodopera qualificata e a bassissimo costo (locali Job Acts hanno provveduto a introdurre la necessaria flessibilità e a ridurre i diritti sindacali), godono di non poche altre agevolazioni e, come c’era da aspettarsi, hanno tutte tifato per la rielezione di Orbán. Qualcosa di diverso da quello che accade in Francia o in Italia?

Concludiamo. Il regime di Orbán è naturalmente non solo ributtante, ma anche pericoloso. Ma non perché rappresenti un’anomalia nel cuore di un’Europa, da sradicare con tutti i mezzi mediante una sorta di “fronte popolare” dei “democratici”, ma, al contrario, perché ne incarna una delle tendenze in atto. Tendenza che se ha sicuramente delle caratteristiche proprie, nazionali, e ne ha altre in comune con il resto dell’Europa orientale, ha però anche radici che affondano in tutto il suolo europeo, che riguardano anche noi. Non è che Salvini, la Le Pen, la FPÖ austriaca o la AfD tedesca sono andati a scuola da Orbán: le politiche, le ideologie che propongono non sono un prodotto di importazione dall’Est, ma sono il parto di un “ventre” europeo ancora “fecondo”, per dirla col povero Brecht. Il pericolo di un riprodursi del fascismo non può essere escluso a priori, anche se appare piuttosto improbabile. Il pericolo vero è quello del diffondersi di regimi di “democrazia illiberale”, di regimi sostanzialmente autoritari ma con una leggera patina democratica (in fin dei conti, continuano a farci votare, anche se continuano a cambiare le regole del gioco). E questi regimi autoritari in nuce non si combattono a livello meramente elettoral-parlamentare, ma andando alla radice della loro forza: disputando loro, cioè, il “controllo delle masse”, ovvero tornando all’antico e genuino mestiere della sinistra, riprendendo il contatto con il “popolo” e lavorando perché questo indistinto “popolo” si riconosca per quello che è: una classe.

[1] Per non appesantire oltre misura il testo, le informazioni essenziali su questo come sugli altri partiti ungheresi sono state riunite nella Appendice 1 in coda all’articolo.

[2] Pochi cenni essenziali sul sistema di voto ungherese si trovano nella Appendice 2.

[3] 29 al Partito socialista, 4 alla Coalizione democratica, 3 a Insieme e 1 ciascuno a Dialogo per l’Ungheria e al Partito liberale ungherese.

Appendice 1 | I partiti politici ungheresi

a) La destra

FIDESZ-Alleanza civica ungherese (FiDeSz-Fiatal Demokraták Szövetsége)

Partito di destra/estrema destra, fondato nel 1988 come Alleanza dei giovani democratici (FiDeSz). È passato dall’8,6 % del 1990 all’attuale 49 %. Fa parte del Partito popolare europeo. Ha un accordo elettorale con il Partito popolare cristiano-democratico (KDNP, Kereszténydemokrata Néppárt), “rifondazione” dalla vita tumultuosa dell’omonimo partito democristiano fondato nel 1944 e messo fuorilegge fra il 1949 e il 1989. Fa parte anch’esso del Partito popolare europeo.

Movimento per una migliore Ungheria (Jobbik Magyarországért Mozgalom)

Partito d’estrema destra fondato nel 2003 da una precedente associazione di cui ha ripreso l’acronimo Jobbik. Disponeva di una milizia paramilitare (Magyar Gárda), ora sciolta, che è stata protagonista di numerosi attacchi antisemiti e antirom. Fra forti dissidi interni ha operato una poco convincente “svolta centrista“.

b) Il centro/centrosinistra

Partito socialista ungherese (MSzP, Magyar Szocialista Párt)

Fondato nel 1989 dall’ala “riformatrice” e maggioritaria del Partito socialista operaio ungherese, il partito comunista del tempo. Fa parte dell’Internazionale socialista e del Partito socialista europeo. Negli anni in cui è stato al governo ha praticato una politica liberistica e di austerità.

Dialogo per l’Ungheria (Párbeszéd Magyarországért)

Di orientamento ecologista e “socialdemocratico”, è stato fondato nel 2013 in seguito a una scissione di Un’altra politica è possibile.

Coalizione democratica (DK, Demokratikus Koalíció)

Partito social-liberale, fondato nel 2011 da una scissione dell’ala destra del Partito socialista.

Insieme-Partito per una nuova era (Együtt – A Korszakváltók Pártja)

Partito social-liberale fondato dall’ex primo ministro Gordon Bajnai. Centrista

Un’altra politica è possibile (LMP, Lehet Más a Politika)

Partito ecologista riconosciuto dai Verdi europei, fondato nel 2009. Ha un orientamento di centro, con pericolosi scivolamenti a destra (accettazione del muro antimigranti, rifiuto delle quote europee sui migranti, eccetera).

Movimento Momentum (MM, Momentum Mozgalom)

Fondato nel 2017, europeista, di centro/centrosinistra.

c) La sinistra

Partito dei lavoratori ungheresi (MMP, Magyarországi Munkáspárt)

Fondato nel 2005 da una scissione del Partito comunista operaio ungherese, che a sua volta era stato fondato nel 1989 dall’ala ortodossa del Partito socialista operaio ungherese. Fa parte del Partito della sinistra europea, assieme a Rifondazione comunista eccetera.

d) I partiti delle minoranze nazionali

Autogoverno nazionale dei tedeschi d’Ungheria (MNOÖ, Magyarországi Németek Országos Önkormányzata). Fondato nel 1995, conservatore.

Esistono altri 12 partiti delle varie minoranze nazionali (serbi, slovacchi eccetera), che non rappresentano più dell’1 o 2 % della popolazione ungherese.

Appendice 2 | Il sistema elettorale ungherese

Il Parlamento ungherese, unicamerale, conta 199 seggi, che vengono eletti con un sistema misto: 106 in collegi uninominali a scrutinio maggioritario (è eletto chi ottiene più voti, con una semplice maggioranza relativa) e 93 in liste con sistema proporzionale (sistema D’Hondt). Per ottenere un seggio un partito deve superare la soglia del 5 % a livello nazionale, ma la soglia diventa del 10 % per le coalizioni di due partiti e del 15 % per coalizioni di tre o più partiti. Le 12 minoranze nazionali riconosciute possono scegliere se concorrere in partiti a livello nazionale, su un piede di parità con tutti gli altri (lo hanno fatto i rom, senza risultati), oppure se formare una lista unica (di tutta la minoranza nazionale: non ne sono ammesse due o più per ogni minoranza) e concorrere a parte, con un notevole abbassamento della soglia di ammissione (quest’anno, occorreva superare i 20.000 voti: ma poche minoranze nazionali possono contare su un simile elettorato potenziale).

Va chiarito che il sistema elettorale ungherese, per come è strutturato (sistema misto, metodo D’Hondt, soglie di sbarramento) distorce fortemente la rappresentanza proporzionale, assegnando un premio non dichiarato ai partiti maggiori: la FIDESZ, per esempio, con il 49 % dei voti si è aggiudicata il 66 % dei seggi, un “premio” del 17 %.