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Pubblichiamo per i nostri lettori questo testo di Pietro Basso, scritto alla fine di marzo 2018, cioè diverse settimane prima della formazione dell’attuale governo M5S e Lega. Il suo interesse è tuttavia grande, in particolare poiché permette di capire la genesi dell’attuale situazione politica e permette di comprendere come, senza una prospettiva politica chiaramente anticapitalista, la crisi politica e sociale italiana non potrà che perdurare e approfondirsi. (Red)

“Noi non siamo anti-sistema. È il sistema che è venuto giù da solo. Noi gli abbiamo dato soltanto una piccola spinta.” (Beppe Grillo)

In molti hanno definito il 4 marzo un passaggio d’epoca. È un’esagerazione. Le epoche storiche non cominciano né finiscono a mezzo schede elettorali. Ma un fatto è certo: con il tracollo di Pd e Forza Italia, di cui erano i pilastri portanti, le recenti elezioni segnano la meritatissima fine della seconda repubblica. Meno ovvie sono le cause di questo terremoto politico-elettorale, e soprattutto le sue conseguenze.

Le cause interne

La causa principale dei risultati del 4 marzo sta nel vasto e acuto malessere sociale che si è espresso omogeneamente da nord a sud contro Pd e FI, le forze politiche prime responsabili dei duri sacrifici imposti negli ultimi 25 anni sia ai proletari che a parte dei ceti medi. Il voto ha espresso l’aspettativa di massa che almeno qualcosa del maltolto venga restituito, vista anche la strombazzata, in realtà modestissima, ripresa. La Lega ha sfondato con l’impegno di abolire la legge Fornero e introdurre la flat tax al 15%; il M5S con il reddito di cittadinanza e l’aumento delle pensioni minime, specie al sud. Alla base del plebiscito nel sud al M5S c’è una situazione senza sbocchi, che negli ultimi 15 anni ha costretto 1,7 milioni di meridionali ad emigrare al nord e all’estero, con intere regioni in cui la disoccupazione giovanile supera il 50% e zone di povertà assoluta. Per contro, il Pd ha subìto un tracollo tra gli operai (molti operai da sempre votanti Pd sono passati all’astensione, altri al M5S) e nelle aree con maggiore emarginazione; ha tenuto bene solo nei centro città, inclusa Milano, tra i borghesi e le figure professionali rampanti (a pochi giorni dal voto tra gli studenti della Bocconi Renzi era al 33%, la Bonino al 23%…). A sua volta, FI ha perduto rispetto al 2013 oltre 2 milioni e mezzo di voti a vantaggio della Lega, non negli strati sociali più abbienti, perché la sua piattaforma è parsa la copia sbiadita di quella leghista, come in effetti era.
Non è tutto.
Il voto del 4 marzo contiene anche un rigetto delle élite al potere in Italia e in Europa, contro le quali Grillo/Di Maio e Salvini avevano abilmente concentrato il fuoco – un fuoco a salve, s’intende perché se anche a un solo componente dell’élite fosse stato torto un capello, chi sa che gazzarra anti-estremista avrebbero inscenato. La crescita delle diseguaglianze sociali, l’impoverimento di tanti che pure il lavoro ce l’hanno, la costosissima protezione delle banche (il salvataggio di MontePaschi e banche venete ha inghiottito finora più di 10 miliardi), l’arroganza, la sfacciata impunità delle bande di profittatori e corrotti insediate ai tutti i livelli degli apparati dello stato (l’ex-tesoriere Pd Sposetti ha definito Renzi e i suoi accoliti/e “delinquenti seriali” da sottoporre a processo), il martellamento dei poteri europei sull’obbligo di tenere in ordine i conti e proseguire con le politiche di “austerità” a tempo indeterminato, hanno creato le condizioni ideali perché passasse il messaggio “populista”: a noi che mandiamo avanti la baracca, a noi “popolo” (termine in cui si nasconde una quantità di parassiti), tocca sempre stringere la cinta, mentre loro ingrassano sulle nostre spalle. Una rivolta anti-oligarchica e anti-UE ancora piuttosto tiepida perché fatta principalmente nelle urne, dal momento che è stata una campagna elettorale vissuta più in rete e in tv e in rete che nelle piazze – solo in rare occasioni i comizi del M5S e della Lega hanno superato i 10.000 presenti.
Il 4 marzo è stato, nello stesso tempo, un referendum contro gli immigrati. Avevamo avvertito un vero e proprio salto di qualità nella criminalizzazione delle popolazioni immigrate innescato dai decreti Minniti dell’estate 2017. Le elezioni l’hanno confermato, registrando una larga presa del razzismo di stato a livello di massa. Specie nelle aree urbane più degradate e negli strati sociali più esposti all’insicurezza fisica e sociale (anziani, casalinghe, abitanti delle zone e dei quartieri più infestati dallo spaccio delle droghe, disoccupati). I fatti di Macerata e l’assassinio di Idi Dyene a Firenze hanno coronato nel sangue il massacro mediatico degli ultimi mesi. Che è stato un vero e proprio monologo, poiché anche l’estrema sinistra elezionista si è guardata dall’esporsi. In questa crociata il Salvini uno e trino, Costituzione/rosario/manganello, ha trainato l’intera destra. Ben poco campo è rimasto al razzismo più esplicitamente fascista di Casa Pound e Forza nuova, che tuttavia ha raddoppiato i suoi voti ed è stato istituzionalmente sdoganato. E se il M5S è rimasto un po’ defilato per opportunismo accalappiavoti, non si può dimenticare il ruolo giocato dai grillini nell’affossare la (moderatissima) legge sullo jus soli proposta dal governo Gentiloni né i decenni di sistematiche sortite, solo in apparenza occasionali, contro le popolazioni immigrate.

Le cause internazionali

Profondo scontento sociale; diffuso sentimento di rigetto nei confronti delle élite politiche locali (specie al sud), nazionali e europee; un’efficace campagna anti-immigrati incentrata sulle figure dei “clandestini” e dei richiedenti asilo “nullafacenti e mantenuti”: queste le cause interne del terremoto elettorale del 4 marzo. E le cause internazionali? Nei discorsi elettorali la politica internazionale ha avuto un ruolo secondario: alcune invettive trasversali anti-UE, e la critica alle sanzioni contro la Russia da parte di Salvini. Stop. Tuttavia l’economia e la politica mondiale hanno contato molto come retroterra.
Il convitato di pietra delle ultime elezioni è stata infatti la grande crisi scoppiata nel 2008, e tutt’ora non superata – almeno in Italia siamo lontani dai livelli di produzione e occupazione di dieci anni fa. L’incubo di una nuova rivoluzione tecnologica ammazzaposti di lavoro e il pericolo di grandi turbolenze scatenate da Trump con l’imposizione dei dazi hanno moltiplicato l’incertezza sul futuro e fatto sentire a molti la paura di precipitare. Di qui, essendo pressoché a zero la fiducia nelle lotte e nell’organizzazione di classe, la ricerca di una difesa, di una protezione istituzionale, statale contro la precarietà, la povertà e i salari da fame (il reddito di cittadinanza) e contro i lavoratori immigrati che le circostanze costringono a fare concorrenza al ribasso ai lavoratori autoctoni (attraverso il principio “prima gli italiani”). Tutto ciò tra i salariati, i precari, i disoccupati, e i pubblici dipendenti, personalmente ancora al sicuro, ma angosciati per la sorte dei loro figli e nipoti.
Anche in una moltitudine di artigiani, commercianti, padroncini e partite Iva più o meno fasulle, i dogmi liberisti sono oggi assai meno popolari di un tempo, il tempo del berlusconismo trionfante. Nell’ultimo ventennio la forza dei capitali globali, in specie di quelli francesi, tedeschi, statunitensi, si è fatta sentire pesantemente con gli effetti a cascata delle acquisizioni e chiusure di impianti, il dilagare del commercio on-line e delle strutture del low cost, le commesse a condizioni/prezzi di strozzinaggio, i vincoli dei regolamenti comunitari, etc. Potevano gli strati sociali piccolo-accumulativi colpiti o minacciati da questi processi premiare i campioni delle liberalizzazioni (tipo Bersani), dell’europeismo, della globalizzazione illimitata? La loro preferenza è andata ovviamente a Lega e M5S che si sono fatti portabandiera della piccola-media impresa, hanno promesso una più attiva difesa degli interessi nazionali in sede europea, e misure severe contro gli stranieri che “ci invadono” (anche a livello micro-imprenditoriale). A Pd e FI è andato massicciamente solo il voto degli imprenditori e degli autonomi più fiduciosi nella maggiore integrazione europea e globale.
Del resto il ritorno in campo di forme e forze di nazionalismo aggressivo e razzistoide in nome del primato degli interessi dei rispettivi “popoli” accomuna ormai gli Stati Uniti e i paesi europei. In Europa il peso politico delle destre “sovraniste”, già maggioritarie in Polonia, Ungheria e Fiandre, è in crescita in Scandinavia e nel blocco Germania/Olanda/Austria; in diversi altri paesi supera quello dei partiti socialdemocratici. Il 4 marzo ha rafforzato questa tendenza. E fa sperare a Steve Bannon che l’Italia possa diventare addirittura il “cuore della nostra rivoluzione (…) nazional-populista”, che ha portato “al centro gli individui, il ceto medio, privato del lavoro e del benessere da due fattori convergenti: il libro commercio e i migranti” (intervista a La Stampa, 11 marzo). Il suo sogno è che, in scia alla Brexit, la “rivolta dei disagiati” di altri paesi europei disgreghi l’UE e faccia convergere in ordine sparso gli stati europei divisi e indeboliti dietro le bandiere e le armate statunitensi nella guerra (non esattamente simbolica) della civiltà occidentale giudeo-cristiana/ariana contro l’asse del male Cina/Iran/Turchia. Bannon sa abbastanza della storia d’Italia per apprezzare la sua “creatività”. “Siete una nazione abituata a produrre grandi cambiamenti”, concede, avendo evidentemente in mente il fascismo, nel generare il quale come fenomeno internazionale l’Italia, la borghesia e la piccola borghesia italiane, furono all’avanguardia della reazione anti-proletaria e anti-comunista in Europa e nel mondo.
La spasmodica intensificazione della concorrenza tra imprese, paesi, blocchi di paesi e lavoratori è da anni il propellente che ha catapultato al proscenio forze politiche nuove o ristrutturate di nuovo, come la Lega di Salvini o il FN dei due Le Pen, portatrici aggressive della catastrofica prospettiva di guerre commerciali e del loro naturale prolungamento nelle guerre guerreggiate. Dai tempi di Roma caput mundi l’Italia non eccelle nelle guerre guerreggiate. Ha invece un curriculum di tutto rispetto in materia di “nazional-populismo” e nell’uso di questa arma per spaccare la classe lavoratrice e schiacciarne l’avanguardia rivoluzionaria. Il 4 marzo ci avverte: la nuova semina (preventiva) di veleni sta già dando i suoi frutti. È in campo una forza consistente che l’incarna: la Lega Italia di Salvini con le sue ruote di scorta dentro e fuori il parlamento (Fratelli d’Italia, l’ala leghista di FI, i gruppi neo-fascisti). Chi si immagina che il M5S possa fare argine a tale tendenza, mostra solo di avere perso la bussola, com’è avvenuto da tempo per coloro che l’avevano battezzato un movimento di sinistra, o un movimento senza ideologia (!?), e se ne erano fatti galoppini elettorali e perfino ideologici (do you remember?).

Fine ingloriosa della vecchia sinistra

La seconda repubblica, quindi, è stata affossata dal basso e dall’alto. L’hanno affossata una massa di operai, salariati, precari, disoccupati e le sezioni più in difficoltà dei ceti medi che, stanchi di subire la politica dei “sacrifici necessari” gli uni, e il processo di centralizzazione del capitale, le altre, hanno gonfiato Lega e M5S nella speranza che vogliano e siano in grado di voltare pagina. Loro malgrado, l’hanno affossata anche i potentati capitalistici nazionali, europei e globali che con la loro pressione a proseguire e, se possibile, accentuare tale politica (vedi il referendum sulla legge-Boschi), hanno fatto pagare un prezzo salato a chi ne è stato il più fedele interprete: il Pd. Indicativa la frase di Renzi: “Nessuno più di questo centro-sinistra è venuto incontro a Confindustria”. Vero, e l’hanno inteso in parecchi. Il solo punto su cui le due spinte, dal basso e dall’alto, si sono incrociate è stato nell’attacco agli immigrati, alle lavoratrici e ai lavoratori immigrati. Questione politica cruciale!, perché dalla sua soluzione o contro-soluzione passa la via alla ricomposizione del fronte di classe o la sua spaccatura a favore della ricomposizione della nazione.
Con la seconda repubblica è stata liquidata pure la vecchia sinistra “riformista”. I tentativi degli ex-Pci (e dell’ex-sinistra Dc) di entrare e restare nella cabina di comando cambiando più volte nome e (parzialmente) sostanza della propria politica fino ad approdare a un liberismo sempre più marcato, sono infine naufragati. Il loro riformismo senza riforme ha prodotto una delusione di massa nelle vecchie generazioni del lavoro salariato. Il loro successivo riformismo contro-riformista gli ha progressivamente alienato anche le nuove generazioni e le nuove figure proletarie. Renzi e la sua cricca hanno preso troppo sul serio il 41% delle europee del 2014 scambiandolo per il felice inizio di successi senza fine. Quello che si prospetta, invece, è l’ulteriore declino del Pd con ulteriori scissioni. Tant’è che il sempre più trasparente progetto di Renzi per il futuro è quello di farsi un “partito” ancor più personale del Pd degli ultimi anni, sul modello-Macron/En marche. Tifa per lo sfascio per poter tornare in scena da salvatore della patria. Difficile. Grillo l’ha scherzato da ebete; quanto meno è un megalomane sgonfiato, rottamato (forse a malincuore) dai suoi stessi creatori.
Dei buro-fantasmi riciclati di LeU non è il caso parlare. Volevano conservare prebende, un pugno di loro ce l’ha fatta contando sul risentimento anti-Renzi, ed è morta lì. Non hanno futuro. Quanto a PaP, i suoi 320.000 voti sono appena la metà di quelli che raccolse nel 2013 Rivoluzione civile dell’indimenticabile Ingroia, e il 30% dei suffragi dell’Altra Europa con Tsipras (nel 2014). Alla Carofalo e agli altri molto allegri per il fantastico risultato (1,1%), verrebbe da chiedere: Che c’è da ride’? La loro risposta è in un disegnino in cui la portavoce scala una montagna in solitaria (delegata dal popolo, no?) e rassicura i suoi: l’arrampicata mia/nostra è appena iniziata. Può anche essere. Perché se da un lato l’area di Rifondazione, dopo l’ennesima delusione elettorale, si allontana dal progetto per vivere la definitiva diaspora in tanti disparati rivoli, l’entusiasmo dei gruppi di giovani presenti il 18 marzo a Roma e la tenacia con cui Eurostop punta a egemonizzare PaP per spostarlo tutto su posizioni “sovraniste”, lasciano immaginare – a meno di improvvise rotture tra gli amici di De Magistris e la componente stalinista – che l’esperienza possa continuare, forse anche in modo più strutturato. Per andare dove? In qualche consiglio comunale (i risultati di alcuni quartieri di Napoli già lo consentirebbero) e, chi sa, anche in altre sedi istituzionali, il parlamento europeo ad esempio, specie se si salderà in modo ancora più stretto di oggi l’asse con il movimento che fa capo al sindaco di Napoli e a Varoufakis. Un po’ di spazio per una Podemos italiana in sedicesimo e in ritardo, c’è. Una gioventù istruita, sotto-remunerata, costretta all’umiliante sequenza di stage e contratti ultra-precari può alimentarla; riuscendo a intercettare pure aree di disagio molto più radicale da alleviare, com’è avvenuto a Napoli, con interventi concordati con le amministrazioni comunali (i centri sociali di matrice negriana si sono specializzati da molti anni in pratiche del genere, che sono in vari sensi remunerative). È totalmente da escludere invece che per questa via si possa dare forza alle lotte, in generale, e tanto meno alla ripresa della lotta di classe anti-capitalista.

Ed ecco a voi la terza repubblica!

Crollata l’impalcatura marcia della seconda repubblica, che cosa nasce? La repubblica dei cittadini, proclama Di Maio. Una repubblica che rimette al centro il parlamento, giura Fico, subito applaudito dal “manifesto”. La repubblica della democrazia diretta, la democrazia del web, secondo il torbido Casaleggio jr, proprietario assoluto, via web, delle informazioni che servono per tenere in pugno i 5S. Insomma, una sorta di palingenesi delle istituzioni, con la completa riconciliazione tra stato e “popolo”. In attuazione del principio programmatico di Casaleggio senior: “il potere deve tornare al popolo” (al V3Day di Genova, 13 dicembre 2013). Avendo dietro di sé l’ingombrante figura del fu-cavaliere, padre fondatore della seconda repubblica, Salvini non ce la fa a spararle così grosse. Tuttavia anche lui enfatizza la sacra volontà degli elettori e il rinnovamento dei metodi decisionali. A cominciare dal neo-presidente 5S della Camera che prende l’autobus, è tutto nuovo di zecca. La vecchia esecrata casta è stata sotterrata, insieme ai suoi rituali inginocchiamenti ai poteri forti. Ora al posto di comando c’è il fantomatico “popolo”! O quasi… se non sono delle fake news i pellegrinaggi di Di Maio&Co. alla City per incontrare gli squali dei fondi d’investimento, in Israele, all’ambasciata statunitense a Roma, alla Confcommercio, in Vaticano, etc., e i paralleli movimenti in chiaro e al coperto del capo della Lega, meno bisognoso di tali investiture dal momento che gode di quelle del super-cittadino Berlusconi, membro di primo rango del Partito popolare europeo, e dell’imprenditoria padana.
Questa bolsa demagogia grillo-leghista si scornerà presto con la “sovranità dei mercati”. Che tanto per chiarire chi comanda realmente hanno già fatto annunciare dai propri organi d’informazione che per il 2019 servirà una manovra da 30 miliardi, preceduta quest’anno da una manovra bis di altri 4-5 miliardi, e seguita probabilmente, questo il parere di FMI, UE e BCE, da una Fornero-bis che tagli di nuovo la spesa pensionistica (nella Grecia di Tsipras è stata già tagliata tredici volte…). Con un mix di lusinghe e di minacce i due nuovi pupetti alla ribalta vengono ammaestrati. Con la sua glaciale lingua di comando la Lagarde li ha inquadrati: “Le idee politiche cambiano nel tempo. Cambiano quando qualcuno arriva al governo e deve prendere decisioni per il proprio paese. (…) Dall’Italia mi aspetto una prova di realismo”. E l’effetto già si vede: invece che di flat tax, Salvini parla genericamente di riduzione delle tasse; invece di reddito di cittadinanza, Di Maio parla genericamente di misure contro la povertà. Sarebbe tuttavia ingenuo ipotizzare che dopo aver sventolato promesse mirabolanti, i (quasi) vincitori delle elezioni non cambieranno assolutamente nulla.
Bisogna anzitutto vedere se all’accordo M5S-Lega per le presidenze delle Camere farà seguito, o no, un analogo accordo di governo. Ostacoli ideologici sostanziali non ce ne sono. Lega e 5S sono accomunati dalla medesima forma iper-individualistica dell’ideologia dominante (per entrambe il cittadino-campione da tutelare prioritariamente è il piccolo-medio imprenditore) e da un’ideologia identitaria ostile alle popolazioni immigrate (il discorso di Grillo di fine anno 2017 era un’ode delirante all’italianità che ben si accoppia al “prima gli italiani” di Salvini-2018). I problemi derivano, piuttosto, dai bacini sociali di riferimento, che si intersecano senza però coincidere. Anzi. Nonostante il cambio di nome e di politica, e nonostante il milione di voti preso al sud, la Lega e la coalizione di destra restano insediate principalmente al nord dove tra gli artigiani, i commercianti, gl’imprenditori individuali la Lega è cresciuta molto anche a discapito del M5S. Il M5S, invece, ha ricevuto dalle regioni del sud un’investitura di dimensioni talmente sbalorditive (+20,7% rispetto al 2013) da configurarlo di fatto come il partito del sud. Visti i vincoli che i “mercati globali”, prima ancora che Bruxelles, pongono a uno stato iper-indebitato qual è quello italiano, non è possibile sommare flat tax e reddito di cittadinanza. Ci sono anche differenze d’altro tipo. Il M5S ha mietuto consensi tra i giovani, gli studenti e gli strati sociali più acculturati, dove Lega (che ha il massimo di seguito nella fascia d’età 45-64) e la restante destra sono piuttosto deboli: tra i pensionati il M5S è al 16%, la destra al 42%, mentre queste percentuali quasi si rovesciano tra gli studenti. Tra i lavoratori salariati il punto di massima forza dei 5S è tra i pubblici dipendenti e i salariati con contratti a tempo indeterminato (43,5%), là dove la destra a stento supera il 25%. È parzialmente differente anche l’insediamento nelle piccole imprese, con Lega e FI forti in quelle tradizionali e nei distretti industriali storici, il M5S nei nuovi rami legati a informatica e comunicazioni. E forse c’è qualche differenza pure nel voto operaio che ha beneficiato tanto Lega che M5S, con la Lega più forte nelle aree industriali del nord e negli strati a qualifica superiore.
Insomma, sarà complicatissimo rispondere ad aspettative sociali che in parte si sovrappongono, in parte divergono o collidono. E tanto più lo sarebbe se tornasse a mordere la recessione, o avvenisse anche solo l’aumento dei tassi e del peso del debito di stato. Né avrebbe vita più facile un governo M5S-Pd o destra-Pd. In ogni caso si prospetta una fase di instabilità che potrebbe concludersi anche con nuove elezioni a scadenza ravvicinata, provocando laceranti scontri dentro FI e Pd, e forse una situazione ai limiti del caos istituzionale. Ad oggi nessuno può dire cosa avverrà. La sola certezza è l’incertezza. E onde tutelarsi per tempo dalle incognite, la Confindustria si è presa avanti facendo sottoscrivere ai culi di pietra di Cgil-Cisl-Uil un’intesa sui nuovi modelli contrattuali che subordina anche il minimo aumento di salario all’incremento della produttività, dello sfruttamento del lavoro, e privilegia il welfare aziendale, dando altre picconate a sanità e previdenza pubblica. Da parte sua l’a.d. di Banca Intesa, Messina, che conta qualcosina in più dei presidenti di Camera e Senato messi insieme, ha spiegato ad Oxford che ci sono “zero chance” che l’Italia lasci l’euro. E ci ha tenuto a sottolineare che parlava non come rappresentante di una semplice banca, bensì come il capo di una “istituzione” (Il Sole 24 ore, 24 marzo).
Che piaccia o meno a Grillo/Di Maio e Salvini e alle rispettive corti di nuovi deputati, è impossibile sfuggire alle determinazioni dell’economia e della politica internazionale, a meno di non voler scatenare un acuto conflitto con i poteri forti del capitale globale e di quello nazionale – un’ipotesi che a dei “rivoluzionari” da comiche del genere fa orrore. La loro terza repubblica nasce mentre si infittiscono i segnali di grosse guerre commerciali, mentre il militarismo avanza ovunque su impulso degli Usa, eterni leader in questo genere di attività criminali, fino alla Cina, le relazioni internazionali e le relazioni interne all’UE si tendono, e riprende a incombere il rischio di una nuova acutizzazione della crisi. L’illusione di tanti lavoratori e cittadini comuni che questa terza repubblica sanerà le ferite inferte dalla seconda, non durerà a lungo. Il vecchio Bossi, un gran ladrone senza dubbio, intuitivo però, l’ha messa così: “il paese è seduto su tre bombe atomiche: pensioni, giovani e sanità” (in aggiunta alle altre, che non mancano). Per giustificare i ristretti limiti di azione davanti a cui si troveranno, i nuovi candidati a governare, Salvini per primo, giocheranno la carta dell’Europa matrigna, dei poteri oligarchici esterni che “ci” soffocano (quelli interni, invece!). E metteranno forse in scena un qualche braccio di ferro più o meno farlocco con l’UE, per mostrare i muscoli e dirottare su Bruxelles lo scontento e la rabbia degli “elettori sovrani”. Come non mancheranno di prendere ulteriori misure repressive contro il capro espiatorio-immigrati. Basterà tutto ciò a far sfogare il grande malessere sociale che li ha portati in cielo?

La vera precondizione

Il 4 marzo ha mostrato che, insieme all’intero quadro politico, anche i proletari sono in movimento. Un movimento elettorale che segnala la stanchezza di subire senza reagire, e dunque un potenziale di resistenza, seppur mescolato, non è un dettaglio, a umori neri contro i fratelli di classe immigrati. Su questo e sull’impossibilità dei vincitori delle elezioni di dare corso alle loro mirabolanti promesse, si può fare leva, mostrando che la catena dei sacrifici, della disoccupazione e del super-sfruttamento del lavoro non sarà certo spezzata, e neppure allentata, dai vincitori del 4 marzo; sarà spezzata esclusivamente con il ritorno alla lotta di classe dispiegata contro i capitalisti e la loro “nuova” repubblica nata all’insegna del “nazional-populismo”.
Ed invece all’estrema sinistra si sgomita per presentare come falsissima alternativa al “nazional-populismo di destra” il “nazional-populismo di sinistra”. Da Sollevazione a ex-Rifondazione quali Boghetta-Porcaro-Formenti, da Eurostop alle elaborazioni di D. Moro a certe correnti comunitariste, c’è una folla di ipotesi “sovraniste”. Leggiamo su Contropiano, tanto per citarne una, che “la rottura dell’Unione Europea è (…) la precondizione perché un cambiamento sociale radicale possa essere realizzato”. Tale rottura avrebbe una valenza internazionalista perché sarebbe finalizzata a costruire, “contro la UE di Merkel e di Macron”, “un’area euromediterranea tra paesi che hanno sistemi più simili e compatibili, fra forze politiche e sociali che mettono al centro le esigenze prioritarie delle popolazioni invece che il massimo profitto per le imprese multinazionali, la speculazione finanziaria, il rigore di bilancio”, etc. etc. Il “pesantissimo 55%” andato alle forze “euroscettiche” fa accarezzare l’idea di percentuali di voto alle europee del 2019 ben maggiori di quelle del 4 marzo. Il calcolo di cavalcare l'”euroscetticismo sociale” può anche rivelarsi pagante sul piano elettorale, ma nulla ha a che fare con l’internazionalismo, almeno se ci si riferisce all’internazionalismo proletario; e neppure col “cambiamento sociale radicale”, ammesso che quest’espressione voglia dire qualcosa di preciso. Quella che viene prospettata è la costituzione di un blocco di paesi capitalisti-imperialisti (o no?) del Sud Europa in contrapposizione ai paesi capitalisti-imperialisti dell’Europa tedesca. Se non comprendiamo male, l’alleato forte di un tale progetto social-nazionalista dovrebbe essere la France insoumise di Melenchon. La Francia non sottomessa… alla Germania (e agli Usa), al pari di quella del famoso internazionalista gen. Charles De Gaulle, a cui Melenchon usa fare riferimento. Sennonché Melenchon stesso ha più volte spiegato che lui non vuole abbandonare l’Europa, bensì rinegoziare i trattati europei; che il suo obiettivo non è uscire dall’euro, è far sì che “la moneta unica [ritorni] al servizio dei popoli” (hai detto scansati!); che il suo programma sociale “non è di estrema sinistra: non immagino la socializzazione dei mezzi di produzione o la perequazione dei salari” (dio ne guardi!); e, en passant, ricorda agli interlocutori della stampa estera, dunque anche ai redattori di Contropiano: “la Francia è una grande potenza. E l’Europa non si fa senza di noi” (la Repubblica, 18 aprile 2017). Certo, poi il nazionalista, pardon l'”internazionalista” Melenchon (ai cui comizi non si possono portare altro che tricolori francesi) non si fa intimidire, al momento, da chi gli chiede se teme di provocare con le sue posizioni l’uscita dall’euro. La sua risposta-escamotage è agitare il referendum sull’euro, che già qui in Italia, e proprio dai 5S, abbiamo visto comparire/scomparire dagli schermi, a seconda delle convenienze, con trucchetti degni del mago Casanova. Quanto poi alla uscita dalla Nato Melenchon non l’ha mai ventilata; vuole esclusivamente il rafforzamento dell’autonomia dell’apparato bellico francese, quello che sta martellando vaste zone dell’Africa e del Medio Oriente. Se è questo il punto di riferimento…
Per noi il potenziale di resistenza segnalato anche dagli spostamenti elettorali del 4 marzo non va ridotto al più che giustificato sentimento/risentimento anti-UE. L’aspettativa, per ora passiva e delegante, della massa dei lavoratori è a trecentosessanta gradi. E la vera precondizione perché si trasformi in una forza operante direttamente, e non per delega ai propri “rappresentanti”, è il ritorno alla lotta. Contro il fronte padronale-bancario, più aggressivo che mai. Contro il governo nascente. Contro l’Unione Europea e il FMI. Con la mano protesa verso i proletari degli altri paesi europei – quelli che il nazional-populismo di destra e di sinistra insegna a guardare in cagnesco o a ignorare. In solidarietà militante, e non in suicìda contrapposizione, con i lavoratori immigrati. Per un fronte proletario unito nella battaglia senza tregua ai comuni nemici: a cominciare da quelli interni. Negli ultimi mesi gli unici segnali positivi venuti in questa direzione sono stati la manifestazione organizzata dal SI Cobas il 24 febbraio a Roma contro sfruttamento, razzismo e repressione, e lo sciopero indetto unitariamente dal Coordinamento operai auto-organizzati negli stabilimenti FCA. Numeri molto limitati, se rapportati all’enorme schieramento di forze che potrebbe, e dovrà, entrare in campo. Di sicuro, però, espressione di una spinta verso l’autonomia di classe.

Post-scriptum sull’astensione

Scritte queste note, ci accorgiamo di avere anche noi subìto la censura sulla portata dell’astensione. E invece va rimarcato che l’astensione è, nel complesso, cresciuta di altre centinaia di migliaia di unità, raggiungendo il 27% (poco meno di 14 milioni). Interessante è il fatto che sia la Lega che il M5S hanno riportato al voto, con la loro propaganda, milioni di astenuti. La Lega deve il 29,5% del suo voto a questo richiamo, il M5S il 19,5% – a conferma del carattere mobile di parte almeno delle astensioni. Nonostante questo, il totale degli astenuti è ulteriormente aumentato, soprattutto per il passaggio al non voto degli elettori del Pd, anzitutto operai. Non ci sono ricerche attendibili, ma si può supporre che, come in Francia, il “primo partito” tra gli operai sia ormai quello dell’astensione. Molto forte, superiore al 35%, è stata anche l’astensione dei giovani chiamati al loro primo voto. La distanza tra gli operai e i più giovani e le istituzioni non si è ridotta. E se il costituendo asse Lega-M5S dovesse dare magri risultati rispetto alle attese, si accentuerà. Non male, dal nostro punto di vista.
(27 marzo 2018)

* Pietro Basso è membro della redazione della rivista Cuneo rosso, Marghera (Venezia)

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