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La nascita del governo Lega-M5S rappresenta indubbiamente l’involuzione più a destra e reazionaria nella storia dell’Italia repubblicana e post-bellica. Si tratta di una miscela esplosiva, artatamente condita di richiami populisti e velleitari, che va dal liberismo della flat tax, alla precarietà dei voucher, al militarismo delle crescenti spese in materia di difesa e sicurezza nazionale, alla rilanciata spending review delle spese sociali spacciata come efficienza e taglio degli sprechi, alla repressione autoritaria dei movimenti sociali, alla criminalizzazione xenofoba verso i migranti, alla nuova esaltazione dello stato poliziesco, giustizialista e carceriere.

D’altra parte l’ennesimo tentativo eversivo e maldestro, ma forse stavolta molto più grave nella forma, del Presidente della Repubblica, di bloccare la nascita del governo, di subordinare anche formalmente la volontà popolare, quand’anche ideologizzata e ingannata dal populismo di destra, all’arroganza padronale, dei mercati finanziari e della Commissione europea, di trasformare la repubblica da parlamentare a presidenziale, di svuotare la formale democrazia in una sfacciata oligarchia della classe dominante, ha spinto persino una buona parte della sinistra a veicolare il tutto verso la nuova narrazione dello scontro tra popolo ed élite, tra superiorità della politica o dell’economia, tra sovranità nazionale e ingerenza straniera, secondo un approccio generale in cui non esistono più la destra e la sinistra, e dove anzi la presunta destra riuscirebbe a fare quello che la presunta sinistra ha smesso di fare da un bel po’ di tempo.

Certamente, occorre ribadire che, aldilà di ogni sollecitazione, moral suasion o qualsivoglia prerogativa presidenziale, l’ultima parola sulla formazione del governo dovrebbe essere garantita a chi si presume possa godere della fiducia di una maggioranza parlamentare, altrimenti si scivola inevitabilmente verso una repubblica di tipo presidenziale. Sotto questo profilo, c’erano tutti gli estremi per la formale messa in stato di accusa del Presidente per attentato alla Costituzione, visto che si trattava di un colpo di stato, ovvero della trasformazione eversiva della forma di stato, da repubblica parlamentare a repubblica presidenziale.

Tuttavia, aldilà dei formalismi, i quali, date le contraddizioni intrinseche alla sostanza dello stato borghese e alla sua sprezzante democrazia formale e ideologica, hanno un interesse necessariamente circoscritto, resta la vicenda dello scontro che si è maturato attorno alla figura del professor Savona.

Eppure costui è pur sempre uno stimatissimo professore di economia, il padre del primo modello econometrico in Italia, un repubblicano allievo di Ugo La Malfa, un fedele servitore di Confindustria e Banca d’Italia, un brillante collaboratore di Guido Carli sino alla vituperata firma del Trattato di Maastricht, un protagonista tormentato del percorso di entrata nell’Unione europea e nella moneta unica, ministro dell’industria del famigerato governo Ciampi. Si direbbe, anche, un tenace sostenitore delle millantate tesi neokeynesiane, mistificate in modo scrupoloso dal MIT sotto la guida del Nobel Franco Modigliani, ossia di quel “keynesismo bastardo”, avrebbe detto Joan Robinson, che diffamò il pensiero di Keynes incarcerandolo, non solo praticamente ma anche teoricamente, nell’arsenale volgare e marginalista del mainstream borghese, con l’infima gloria, tipica degli utili idioti, di racimolare le cause dello squilibrio macroeconomico nelle ridicole imperfezioni formali di tipo microeconomico, e le conseguenze devastanti delle crisi capitalistiche negli, udite udite, inconvenienti eccezionali dell’equilibrio economico generale.

Perché allora tutto questo furore nei suoi confronti da parte della classe dominante?

Non può essere una colpa grave quella di aver contestato la costruzione dell’Unione europea, e in modo particolare dell’Unione monetaria, nella misura in cui le sue critiche sono le stesse del Nobel Modigliani, e sono sottoscrivibili da molti economisti borghesi, perlomeno quelli non propriamente schiacciati sulla miopia della scuola economica austriaca o della scuola ordoliberale di Friburgo.

Il peccato mortale sarebbe, invece, non tanto quello del piano A di riformare l’Unione europea, quanto quello del piano B di aver previsto espressamente l’uscita dall’Unione monetaria. È qui che la classe dominante si è alterata ed è uscita fuori di testa.

Sappiamo ormai a memoria la retorica del keynesismo sul piano A: non è possibile costruire una unione monetaria ed economica senza prima una unione politica; non è possibile fare a meno delle politiche economiche anticicliche; non è possibile rinunciare alla flessibilità del tasso di cambio senza una unione di trasferimenti e una convergenza all’equilibrio delle bilance dei pagamenti; non è possibile una sana gestione del debito sovrano senza la possibilità di controllare per mezzo della banca centrale l’effetto della palla di neve della discrepanza tra costo del debito e crescita nominale del prodotto interno lordo.

Tutto giusto in teoria. Peccato, però, che la realtà sia quella capitalista di una Unione europea in cui prevale l’egemonia imperialista degli stati creditori su quelli debitori, in cui i capitalisti monetari del nord non hanno alcun interesse a fare l’elemosina a quelli industriali del sud, perché l’accumulazione di denaro è il mezzo e il fine del modo di produzione capitalista e non coincide esattamente con la filantropica moneta libera di Proudhon, Silvio Gesell, Ezra Pound o lord Keynes. Tutto ciò perché l’Unione europea ha il duplice carattere, imperialista e borghese, che viene ripetutamente misconosciuto dai keynesiani, soprattutto quelli di sinistra, i quali finiscono col perseverare nella loro eutopia, subendo ceffoni dalla crudele realtà dell’imperialismo, oggi a Francoforte con l’egemonia dell’euro, proprio come ieri a Bretton Woods con la soccombenza del bancor.

Chiunque, invece, sia dotato di buon senso, e il prof. Savona sembra essere tra questi, è altrettanto consapevole dell’utopia del piano A, in quanto strutturalmente incompatibile con il Capitale. L’unico piano A è quello dell’euro, della disciplina di bilancio, della stabilità monetaria, della deflazione salariale e dell’austerità ordoliberale. Ecco allora che il piano B del professor Savona diviene qualcosa di più di un semplice piano B.

Il piano B del prof. Savona ricalca lo studio della conglomerata finanziaria multinazionale giapponese Nomura e il paper dell’economista britannico Roger Bootle. Vi sono illustrati tutti i seguenti dettagli: le lezioni apprese dalla storia dei break-up di unioni monetarie; lo studio analitico del contesto giuridico; la delicatezza nella gestione delle decisioni, ossia della segretezza e riservatezza del D-Day, e quindi della sciocchezza disarmante del referendum sull’euro; nonché la gestione della ridenominazione, e quindi dal decreto d’urgenza sulla chiusura degli sportelli e di quello sulla stampa delle nuove monete fiscali, embrioni della nuova lira; la gestione della svalutazione della lira più o meno stimata, sotto vari indicatori e ipotesi, attorno al 15-25% e dell’impatto inflazionistico, nell’ordine del 4-8%.

Aldilà dei dettagli tecnici, su cui pure occorrerebbe una riflessione, ci concentriamo in questa sede su un aspetto fondamentale, che evidenzia la sostanza del piano B del prof. Savona. Tralasciamo, per esempio, la tematica, centrale per la classe lavoratrice, del rapporto tra uscita dall’euro, default selettivo, in quanto mirato alla tutela del risparmio della classe lavoratrice e al tempo stesso alla perdita secca per gli azionisti e obbligazionisti delle banche, e la ricapitalizzazione e la pubblicizzazione della proprietà delle banche e delle principali istituzioni monetarie e finanziarie.

Il focus è, invece, sulla cosiddetta spirale svalutazione-inflazione. Come noto, in un sistema capitalistico, la spia della competitività è data dalla capacità di estrazione di plusvalore, e quindi dall’intensità dello sfruttamento del lavoro salariato. Nel formalismo borghese ciò si misura con l’indicatore del costo del lavoro per unità di prodotto, CLUP, ossia nel rapporto tra il salario monetario e la produttività del lavoro. Del resto, dividendo il CLUP per il livello generale dei prezzi, si ottiene il rapporto tra salario reale e produttività del lavoro, ovvero la quota salari sul prodotto nazionale, ovvero il complemento a uno della quota del plusvalore. Più alto è il CLUP più bassa è la competitività del capitale. A parità di salario monetario, la competitività capitalistica richiede un miglioramento nella produttività; viceversa, a parità di produttività, occorre una riduzione dei salari monetari. Lo scenario di Savona si apre, legittimamente, mostrando la corsa del CLUP italiano, sconvolgente rispetto alla dinamica decrescente tedesca, e del tasso di cambio effettivo reale che mostra il conseguente deprezzamento reale dell’euro tedesco e l’apprezzamento reale dell’euro italiano. Nell’ambito di una unione monetaria, l’unica possibilità per i paesi meno produttivi è quella della compensazione per mezzo della crescente deflazione dei salari monetari. Tutto molto angosciante, certo; tuttavia, quale sarebbe lo scenario invocato nel piano B dell’uscita dall’euro?

La condizione necessaria affinché la svalutazione sortisca l’effetto di ripristinare la competitività del capitale è proprio quella di non innescare la spirale svalutazione-inflazione. Il prof. Bootle, ripreso da Savona, è chiarissimo nel sostenere che affinché il piano B possa funzionare occorre moderare l’impatto inflazionistico e rifuggire assolutamente dalla tentazione di indicizzare i salari sull’inflazione. Ricordiamo, a proposito, da un lato, il famoso discorso del primo ministro inglese, il laburista Harold Wilson, in occasione della svalutazione della sterlina del 1967. In quel discorso, ispirato dall’illustre economista keynesiano James Meade, si fece un angosciato appello alla moderazione salariale nella piena consapevolezza che in caso contrario la svalutazione non avrebbe avuto l’effetto di rilanciare l’attività produttiva; dall’altro lato, le politiche dei profitti, ops redditi, del governo Ciampi quando, solo in virtù dell’abolizione della scala mobile, permise, attraverso il carovita e il maltolto sui salari reali, da far invidia anche a quello che si è manifestato attraverso l’austerità diretta sul salario monetario durante il governo Monti, alla svalutazione della lira di rilanciare le esportazioni e la crescita economica. In altre parole, la riuscita del piano B è subordinata alla condizione necessaria, ma non sufficiente, della perdita del potere d’acquisto dei salari. Infatti, solo per mezzo della svalutazione del salario reale è possibile ottenere lo stesso risultato in termini di accumulazione di plusvalore. Qui ha, indubbiamente, ragione il prof. Savona e ha torto la scienza sovvertita del prof. Bagnai.

Fuori dall’euro il capitale richiede di ridurre il salario per mezzo dell’inflazione di beni e servizi, mentre dentro l’euro per mezzo della deflazione dei salari: pur sempre, il capitale richiede la svalutazione della forza lavoro. Tertium non datur nel modo di produzione capitalista!

Pertanto, l’uscita dall’euro non è neutrale. Esiste un’uscita dall’euro sotto la direzione della classe lavoratrice, per mezzo di controlli sul movimento dei capitali e la tutela del lavoro e dei salari, ed esiste una uscita dall’euro, per mezzo di flessibilità di prezzi, salari e cambi, sotto la direzione della classe borghese. Quella del professor Savona è inequivocabilmente l’uscita dall’euro sotto la direzione borghese. Si tratta del piano B del Capitale; più precisamente sotto la direzione reazionaria della furia aggressiva della piccola e media borghesia, incapace di compensare il deficit di produttività del lavoro, e il maggior costo delle importazioni, in altro modo se non attraverso la riduzione relativa dei salari reali. I lavoratori verrebbero pagati in lire per poi acquistare i mezzi di sussistenza in euro. Un affare per la piccola e media borghesia; un disastro per la classe lavoratrice. Ci siamo già passati. Il re dovrebbe essere nudo, eppure l’illusione ideologica è dura a morire.

La parola d’ordine neutrale dell’uscita dall’euro non può essere valida nemmeno sul piano del programma di transizione; gli obiettivi transitori devono essere inequivoci e privi di ambiguità, nella loro natura di classe e internazionalista. L’uscita dall’euro, in sé per sé, è invece non solo equivoca, ma risulta, se non correttamente associata a obiettivi transitori antiliberisti e anticapitalisti, persino un piano inclinato per le ideologie reazionarie, borghesi e nazionaliste.

Una parte importante della sinistra antagonista, che si è appecoronata a individuare nell’uscita dall’euro il totem tecnicistico, ideologico e magico, per la difesa della classe lavoratrice, deve ora fare i conti con l’eterogenesi dei fini del sostegno ai padroncini, vampiri e inferociti, del nordest, e non solo. Lo spiazzamento della sinistra sovranista, da Fassina a Rizzo, è sintomatico della confusione generale che emerge ogni qualvolta si sacrifica la teoria del valore per il feticismo dei prezzi e delle forme monetarie. Prima che no all’euro e all’unione monetaria bisogna gridare il no al Capitale; prima che dire euro stop occorre esclamare lo stop al Capitale; invece di invocare la sovranità monetaria occorre di nuovo lottare per l’internazionale del lavoro.

L’Unione europea deve essere abbattuta nella sua duplice veste imperialista, borghese e nazionalista. L’Europa alternativa è, invece, quella ecosocialista, internazionalista e della classe lavoratrice. Non è una questione di sovranità degli stati-nazione, ma piuttosto una questione internazionalista e di classe. Il piano B della classe lavoratrice è, invece, quello della rottura con l’Unione europea capitalista, ma solo su basi di classe e, immediatamente, nella prospettiva della costruzione di una Europa ecosocialista, internazionalista e federale.

L’errore che commise il manifesto di Ventotene, per spiegare l’origine della guerra mondiale, fu quello di utilizzare la stessa logica mistificatoria, sebbene rovesciata, degli stati nazione o dello stato federale, in luogo della lotta di classe e del dominio imperialista basato sul capitale. L’errore del sovranismo o nazionalismo di sinistra è di rovesciare a 360 gradi l’ideologia dell’economia borghese, facendo rientrare dalla finestra il feticismo monetario che si voleva cacciare dalla porta; di ripristinare il nazionalismo che dapprima si voleva rifiutare, contestando l’Unione europea intergovernativa degli stati-nazione imperialisti; di buttare nuovamente al cesso la centralità capitale-lavoro in cambio del feticismo della moneta; di sacrificare la sovranità popolare e della classe lavoratrice con il sovranismo monetario e dello stato-nazione.

Il sovranismo cede allora facilmente il passo alla narrazione ideologica dello scontro tra élite e popolo, in cui diviene totalmente assente la centralità del modo di produzione capitalista. Lo scontro si trasforma così dalle solide basi materialiste ad uno scontro su basi etiche e moraliste, contro una élite avida, corrotta e incapace; non è più il capitalismo il problema, ma l’élite che ne sta a capo. Non bisogna più abbattere il capitalismo ma mettere il daspo ai corrotti, non bisogna più combattere i profitti, ma solo la rendita, come se i dividendi sulle azioni e gli interessi sulle obbligazioni non fossero sempre un modo per guadagnare senza lavorare, e i salari l’unica forma di sfruttamento capitalistico in cui si è costretti a lavorare senza guadagnare.

Non solo il sovranismo è senza prospettiva per la classe lavoratrice, ma peggio ancora finisce con lo spianare la strada al trionfo della peggiore destra populista, xenofoba e reazionaria. Il guaio della sinistra è stato sempre quello di sciacquarsi nel bidet della borghesia!!!