«Daremo a tutti gli extracomunitari dei passaporti falsi e li lasceremo sulle spiagge della Libia. Ci dicano pure che siamo razzisti o criminali… Quando la nave affonda, la zavorra va buttata in acqua».
Con queste parole Nikolaos Michaloliakos, leader di Alba Dorata, partito neonazista greco, spiegava la propria idea di gestione delle migrazioni. A raccontarlo è Alessandro Leogrande, nel suo La Frontiera (Feltrinelli, 2015). «Non ci stiamo tutti, non ci sono risorse per tutti, ci sono già poche risorse per noi, come possiamo pensare di mantenere anche altre persone?». Quante volte abbiamo sentito ripetere questi concetti e queste precise parole? Un numero di volte certamente sufficiente a far sì che entrassero nel linguaggio comune e quotidiano come espressioni neutre, di «buon senso», o di «senso comune». Un numero di volte certamente sufficiente a rimuovere i concetti violenti che si nascondono dietro di esse.
Liliana Segre, ripercorrendo il suo respingimento e quello della sua famiglia, racconta che, dopo aver passato il confine italo-svizzero attraverso sentieri di montagna, un ufficiale del comando di Arzo, il primo paese del Canton Ticino, le disse: «Ebrei, perseguitati in Italia? Non è vero, siete degli impostori». E prosegue: «Fu un momento tremendo, erano le speranze perdute. Mi ricordo che mi buttai per terra, inginocchiata ai piedi di quell’ufficiale e lo supplicai: “Ci tenga, la prego, di là ci ammazzano”. Ma quello mi respingeva come si fa con un cucciolo. […] Con disprezzo infinito verso l’altro, inerme e bisognoso, gridò: “Via, la Svizzera è piccola, non vi può tenere”. Gli risposi: “In questi momenti bisognerebbe sentire la voce della propria coscienza” […] Gli ordini erano “La barca è piena”».
Non solo tornano i medesimi concetti, ma tornano anche le stesse identiche parole e, addirittura, le stesse identiche metafore. Tra l’agosto e il settembre del 1942, in Svizzera, il dibattito pubblico si concentrò sulle politiche di asilo da attuare nei confronti delle persone perseguitate e vittime della guerra. In questo contesto, Eduard von Steiger, ministro di giustizia, spiegò, durante un discorso tenuto alla chiesa protestante di Zurigo-Oerlikon il 30 agosto, che «chiunque sia al comando di una piccola scialuppa di salvataggio già alquanto affollata, di capacità limitata e con un’altrettanta quantità limitata di provviste, mentre migliaia di vittime di una barca affondata gridano per essere salvati, appare duro se non può salvare tutti. È però umano se avverte in anticipo di non farsi false speranze e tenta di salvare almeno quelli che ha preso a bordo». Ecco come nacque la metafora della barca e dello spazio utilizzata da quell’ufficiale che respinse la tredicenne Liliana Segre. Una metafora inverosimile, che costruisce un mondo che non c’è: la Svizzera, così come l’Italia e l’Unione europea, non sono barche tirate a fondo da una zavorra umana della quale sarebbe necessario liberarsi. Liliana Segre era una bambina e fu respinta insieme al padre e a due cugini per poi essere deportata: la “piccola scialuppa” è un espediente retorico che ripulisce concetti e azioni violentissime, facendole apparire «di buon senso», un «buon senso» che, però, nega la realtà che ha di fronte e che facilita la digestione di scelte che condannano persone alla morte o a un’esistenza terribile.
«Sarebbe così confortevole, per noi – scriveva Umberto Eco – se qualcuno si affacciasse sulla scena del mondo e dicesse: “Voglio riaprire Auschwitz, voglio che le camicie nere sfilino ancora in parata sulle piazze italiane!”. Ahimè, la vita non è così facile. L’Ur-Fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l’indice su ognuna delle sue nuove forme». E aggiunge: «Le abitudini linguistiche sono spesso sintomi importanti di sentimenti inespressi» e, aggiungeremmo noi, «di istinti oscuri e di insondabili pulsioni».
Dall’analisi di queste abitudini linguistiche sbagliate e dalla necessità di poter rispondere in maniera consapevole e documentata, è cominciato il ragionamento che ci ha portato alla scrittura di «#Antifa. Dizionario per fare a pezzi, parola per parola, la narrazione fascista» (Fandango, 2018). Ventisette lemmi presi in esame, alcuni che si soffermano sui campi di indagine nei quali ci avventuriamo (“Fascismo”, “Sessismo”, “Trans”), altri che partono dai luoghi comuni più diffusi e spiegano “cosa c’è dietro”. Dai “Trentacinque euro” all’”Invasione”, passando per la “Lobby Gay”, il “Complotto” fondato sul piano Kalergi, fino al “Gender”, vero e proprio mantra di molte chat tra genitori e perfetto rappresentante delle “spoglie più innocenti” richiamate da Eco. Ciascuna voce viene spiegata, citando fonti, dati, argomenti, senza strillare, ma con il ragionamento.
«Non sono da respingere – aveva inoltre decretato il governo svizzero nei primi anni ‘40 – i profughi politici, cioè gli stranieri che appena interrogati e spontaneamente si dichiarino tali e possano rendere verosimile quanto affermano. I profughi solo per motivi razziali, ad esempio gli ebrei, non sono considerati profughi politici». Li chiameremmo ora “Migranti economici”: un’espressione nuova, un’altra voce del nostro dizionario, che nasconde la scelta forzata, l’obbligo della migrazione. Se si è costretti a scegliere tra veder morire di fame i propri figli e scappare, non si è così liberi di scegliere.
Ci sono espressioni nuove e ci sono espressioni antiche, come “Clandestino”, che purtroppo affolla troppo spesso anche le pagine di quotidiani autorevoli, nonostante i migranti che approdano sulle nostre coste non abbiano nulla di «clandestino», né dal punto di vista giuridico, dato che si tratta di richiedenti asilo (un istituto giuridico fondamentale del nostro ordinamento), né dal punto di vista fattuale, dato che sono gli stessi migranti a chiedere soccorso, a rendersi visibili alle autorità e a consegnarsi a esse: in alcun modo cercano di passare la frontiera irregolarmente. E neppure dal punto di vista umano, dato che gli esseri umani non possono vivere nell’ombra e dato che troppo spesso coloro che non hanno documenti regolari vengono sfruttati, schiavizzati, ricattati sotto il sole delle nostre campagne.
Nel Dizionario #Antifa non ci interessiamo dei partiti e delle formazioni neofasciste. Queste ci preoccupano e ci devono senza dubbio preoccupare, ma quel che ci deve preoccupare ancor di più è che il loro linguaggio, le loro parole d’ordine, i mondi immaginari, distopici, violenti e disumani che costruiscono ad arte siano entrati nella nostra quotidianità. Ci hanno spiegato per troppo tempo che fosse meglio non parlare di migrazioni, di diritti, di pacifismo perché temi scottanti, maneggiati con maggiore abilità dalle destre, e quindi da evitare per non correre il rischio di “perdere voti”. Nel frattempo, le destre tutte ne facevano vere e proprie ossessioni, imponendo parole e costrutti ideologici e costringendoci a giocare in questo campo costruito da loro. Le politiche migratorie attuate dal ministro Minniti – dall’accordo con la Libia al codice di condotta per le Ong, fino ai famosi decreti – si sono collocate in totale continuità con quanto visto negli anni precedenti, al grido di «gli sbarchi sono troppi, non possiamo accoglierli tutti». Non possiamo stupirci che i partiti che questo campo l’hanno costruito, appunto, siano passati all’incasso elettorale. Il nostro compito è attrezzarci per non solo contrastare una retorica sbagliata, complottista e fascisteggiante, ma tornare a frequentare con coraggio e con parole nostre temi e questioni che abbiamo lasciato ad altri, con le conseguenze alle quali, purtroppo, stiamo assistendo.
* Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 34 di Maggio – Giugno 2018: “L’epoca del rancore. Nuove destre e nuovi razzismi