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Le vicende della FCA e la morte improvvisa dell’amministratore delegato Sergio Marchionne devono essere affrontate dal punto di vista della lotta di classe e delle sue implicazioni politiche e sociali. Per altro è la stessa direzione FCA che ha assunto questa postura gestendo l’informazione pubblica della malattia di Marchionne in stretto rapporto temporale con le dinamiche borsistiche e le convulse vicende del passaggio dei poteri che hanno portato alle dimissioni del responsabile dell’area Europa, Altavilla. Come sempre la crisi è stata gestita in funzione degli interessi del capitale rappresentato [1]

Cerchiamo quindi di superare l’immenso mare di servilismo, piaggeria ed ipocrisia che si è riversato su tutti i media per andare al nocciolo.

La sconfitta dei lavoratori

Marchionne era un lavoratore indefesso e un ottimo manager? Certo, ma il problema è: per chi operava? Quali interessi difendeva?

Marchionne è stato l’uomo capace (l’ha fatto con estrema determinazione) di infliggere alle lavoratrici e ai lavoratori della Fiat, ma più in generale alla classe operaia italiana, un nuova durissima sconfitta, seconda solo a quella del 1980, che ha segnato profondamente i rapporti di forza sia in fabbrica che nella società a vantaggio non solo della proprietà Fiat (ovverosia in primo luogo alla famiglia Agnelli), ma dell’intera classe dominante.

A dire il vero il vecchio amministratore delegato del 1980, Romiti, nel 2011 aveva rivendicato a sé il ruolo di primo della classe, avendo lui piegato il movimento dei lavoratori dopo 37 giorni di blocco di tutte le fabbriche Fiat in una fase in cui quest’ultimo aveva ben altra forza organizzata e sindacale: la FLM, i consigli di fabbrica, la straordinaria combattività operaia espressa da un decennio di lotte senza precedenti.

Marchionne ha vinto nel 2010/2011 il nuovo braccio di ferro con i lavoratori, con la Fiom, e con i sindacati di base ed è del tutto normale che i soggetti sociali politici e i personaggi – senza eccezione alcuna – che compongono la borghesia o che la servono ne celebrino le gesta, ne esaltino le capacità e le “virtù”. [2]

I loro media si sono mossi all’unisono anche perché, da tempo, ogni avvenimento viene usato dalla classe dominante per costruire la sua narrazione della realtà, cioè per rafforzare il suo dominio ideologico e materiale, riaffermando come giusto e immodificabile il ruolo di ciascuno in questa società divisa in classi sociali. Ognuno ha i suoi santi e come vedremo più avanti è soprattutto la famiglia Agnelli a dover considerare santo Marchionne per aver saputo difendere con perizia i loro interessi.

Dov’è la “pietas”

In questo contesto di continua offensiva politica ed ideologica dei potenti non poteva mancare l’accusa di mancanza di “pietas” umana verso la malattia di Marchionne nei confronti di forze della sinistra che si sono collocate fuori dal coro, ricostruendo invece la realtà obiettiva delle vicende Fiat e FCA e della condizione dei lavoratori, a partire dalle fabbriche chiuse, dalle migliaia di posti di lavoro persi, dallo sfruttamento feroce in fabbrica, dalle più che mai incerte prospettive del futuro.

Premesso che ogni morte ci addolora e che avremmo voluto che Marchionne e i padroni che rappresenta fossero stati sconfitti dalla lotta operaia e che consideriamo come la migliore rivalsa sui capitalisti, “obbligarli” ad assistere alla costruzione di una società democratica e socialista alternativa alla giungla e alla barbarie attuale del capitalismo, ha dell’incredibile che coloro che quotidianamente negano la dignità delle persone, che considerano normale lo sfruttamento delle classi lavoratrici, che guardano con cinismo e con indifferenza a coloro che fuggendo fame e guerre muoiono in mare, facciano appello alla “pietas”, una virtù della quale sono del tutto privi.

Per non parlare poi di alcuni giornali ed esponenti della destra che si caratterizzano per le loro campagne violente contro i migranti, contro i mussulmani e i rom, contro tutti i più deboli che vengono scelti come capri espiatori in funzione dei loro sordidi interessi. La spietatezza violenta che li caratterizza esprime l’involuzione barbarica di una società e quasi spinge a dubitare della possibilità del genere umano di costruire un’altra società, se non fosse che ad essa fanno da contraltare altre manifestazioni di solidarietà e di mobilitazione democratica collettiva.

Tutti i soggetti che fanno riferimento alla classe padronale non hanno mai dimostrato alcuna pietas per la disperazione delle famiglie che si sono trovate senza lavoro e senza reddito, per i tanti licenziati per rappresaglia, per le circa 200 persone che a causa delle ristrutturazioni della Fiat, dall’80 in poi sono state spinte al suicidio; da ultimo quello di tre lavoratori di Pomigliano tra cui una lavoratrice di 47 anni, Maria Baratto. I cinque operai in cassa integrazione che avevano espresso in loro dolore e la loro rabbia con una forte iniziativa di protesta sono stati sanzionati con il licenziamento, reso definitivo proprio qualche giorno fa dalla Corte di Cassazione a conferma della natura di classe di questa istituzione dello stato.

E’ vero che su alcuni social sono stati espressi da singoli commenti più o meno disgustosi alla ricerca forse di una impossibile vendetta. In realtà lo sfogo dell’insulto esprime nella maggior parte dei casi non un animo spregevole e cinico, quanto piuttosto un’altra obiettiva realtà negativa: esprime la mancanza di alternative dentro una terribile sofferenza sociale, il senso d’impotenza di fronte a forze padronali che possono fare tutto quello che vogliono, di perpetrare qualsiasi ingiustizia e sopruso senza pagare alcun prezzo sociale ed anzi apparendo come i migliori, gli eletti, e/o quelli che “danno lavoro”.

18 anni vissuti pericolosamente e il ruolo di Marchionne

All’inizio del nuovo secolo la grande multinazionale italiana è con l’acqua alla gola, oppressa dal peso insopportabile dei debiti e sopraffatta dalla concorrenza in un settore industriale maturo, ma fondamentale, che segna l’appartenenza o meno ai grandi paesi capitalisti, costituendo l’industria dell’auto un volano formidabile per l’insieme dell’economia. La spinta alle concentrazioni necessarie per tutti i produttori ha ormai ridotto da 40 a 10 le case automobiliste. La guerra è spietata, perché la redditività è inferiore a quella di altri settori industriali e le capacità produttive dispiegate sono enormi rendendo la sovraproduzione inevitabile. E il 2002 è anno di crisi profonda.

La Fiat era da tempo in difficoltà e da tempo Gianni Agnelli aveva sperato di giungere a un accordo con qualche casa americana (segnatamente la Ford), senza ottenere successo. La Fiat però aveva potuto reggere la concorrenza internazionale per due elementi di fondo, la dura sconfitta dei lavoratori nel 1980 e i cospicui aiuti diretti e indiretti dello stato italiano; la svolta toyotista di Romiti degli anni ’90 alla ricerca della qualità aveva dato qualche risultato, ma tutto questo non era più sufficiente in una fase congiunturale negativa del mercato mondiale dell’auto, coniugata ad alcune cattive scelte gestionali e produttive. Gli alfieri del libero mercato, venivano sconfitti dal mercato stesso e dalla sua globalizzazione [3]

Nel 1997 Agnelli aveva chiamato a succedere a Romiti alla Presidenza della Fiat il manager Paolo Fresco che nel marzo 2000, dopo vari tentativi in direzione delle case tedesche, riusciva a firmare un accordo con la General Motor. [4]

La GM acquistava il 20% della casa italiana, mentre la Fiat acquisiva il 5,15% del capitale GM nonché il diritto ad una opzione di vendita del restante 80% da esercitarsi tra il gennaio 2004 e il 2009.

Nel marzo del 2003 moriva l’avvocato Agnelli e il fratello Umberto lo sostituiva alla Presidenza della Fiat; Amministratore delegato era Giuseppe Morchio, uomo vicino alle banche, ma che, appena un anno dopo, in concomitanza con la morte di Umberto, veniva bruscamente cacciato dalla famiglia Agnelli sotto la spinta dello storico tutor Gianluigi Gabetti, più che mai convinto che l’operato dell’ AD avrebbe portato allo smembramento dell’azienda e alla fine del ruolo e della proprietà degli Agnelli.

E’ un periodo di grande confusione e di scontro sia strategico che di gestione all’interno della direzione e della proprietà Fiat con forti spinte a liberarsi dell’auto, diventato ormai un fardello troppo pesante. In quegli anni la chiusura di Mirafiori è nell’aria ed solo la lotta dei lavoratori e la determinazione della FIOM ha impedito che questo potesse avvenisse. Se pure sottotono emerse allora una sporadica discussione politica su una possibile nazionalizzazione dell’azienda.

E’ al termine di queste convulse vicende – la Fiat perde due milioni al giorno ed è tecnicamente fallita – che viene chiamato a dirigere l’azienda l’uomo nuovo, Marchionne. Si rivelerà capace di mantenere a galla la Fiat, di darne una nuova configurazione internazionale garantendo nello stesso tempo gli interessi e il controllo della famiglia (composta da circa 200 eredi).

Marchionne compie una prima brillante operazione agli inizi del 2005 che ridà fiato e liquidità all’azienda: obbliga la General Motors, dietro minaccia di esercitare il diritto di vendita di una Fiat carica di debiti, a versare due miliardi per liberarsi del peso dell’acquisto. Poco dopo, a settembre compie un’altra manovra fondamentale insieme a Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens che sono alla direzione dell’IFIL, la cassaforte degli Agnelli: attraverso una complessa e discutibile operazione di equity swap si impedisce che le banche, ormai azioniste di maggioranza, si impadroniscano della Fiat ridando alla famiglia il pacchetto azionario necessario per il controllo dell’impresa. Gabetti, Franzo Grande Stevens verranno accusati di “aggiotaggio informativo” e condannati in appello per questo reato che riporta alla memoria l’operazione fraudolenta realizzata dal primo Giovanni Agnelli per impadronirsi della Fiat agli inizi del novecento a svantaggio dei suoi soci. Alla fine del 2013 la Cassazione annullerà la condanna per sopravvenuta prescrizione.

Marchionne riesce però anche a rilanciare l’immagine produttiva della Fiat e parzialmente le vendite con il lancio della Nuova 500, ma il suo capolavoro lo compie con l’esplodere della grande crisi successiva al 2007 che negli USA mette in ginocchio la GM e soprattutto la Chrysler. Riesce a farsi dare l’incarico da Obama di salvare la Chrysler acquisendola alla Fiat. Questa acquista a prezzi stracciati la casa americana; ma a pagare un prezzo salariale durissimo sono però i lavoratori americani e a mettere i soldi è lo stesso governo USA. L’operazione riesce da tutti i punti di vista, rilancia la Chrysler, porta definitivamente la Fiat fuori dell’Italia e protegge la proprietà degli Agnelli. Questi possedevano un po’ più del 30% delle azioni Fiat nel 2004 ed oggi detengono, attraverso Exor, il 29,2% della FCA, cioè delle due aziende unificate!

Naturalmente, data la struttura delle due aziende, è la Fiat ad essersi integrata nella casa americana come per altro Furio Colombo (già presidente della Fiat Usa) spiegò in un articolo sul Fatto Quotidiano dal titolo altamente significativo: “Chi ha comprato chi” .

Questione decisiva da sottolineare: le scelte di Marchionne per conto della proprietà non avrebbero potuto essere realizzare senza l’avallo e il sostegno dei governi locali e nazionali italiani e delle istituzione tutte, che non hanno esitato a lasciar compiere una manovra che rubava ed esportava “illegalmente” la più grande azienda italiana e la ricchezza prodotta dal lavoro di 5 generazioni. Una vera e propria vergogna, un furto ai danni dell’intero paese a vantaggio degli interessi di una famiglia proprietaria.

Fuga dall’Italia che inevitabilmente comportava la chiusura e profonde ristrutturazioni di stabilimenti nel paese e quindi conseguentemente una nuova prova di forza per vincere le resistenze e i diritti dei lavoratori. E’ quanto è avvenuto nel 2010 con l’uscita della Fiat dalla Confindustria, la denuncia del contratto nazionale dei metalmeccanici e la sostituzione con un contratto peggiorativo, l’introduzione di nuovi sistemi di lavoro e di sfruttamento in fabbrica che hanno aumentato a dismisura la fatica, la chiusura di tre stabilimenti, lunghissimi periodi di cassa integrazione per migliaia e migliaia di lavoratori e la totale incertezza del futuro per l’insieme della classe lavoratrice FCA.

L’acquisizione piena della Chrysler viene completata nel 2014 portando alla formazione della FCA che perfezionerà la sua fuga dall’Italia con il trasferimento della sede legale in Olanda e di quella fiscale in Inghilterra [5].

Siamo davanti a una classe operaia sconfitta e dispersa, ricattata ogni giorno dalla totale incertezza del posto di lavoro, inevitabilmente in posizione subalterna anche perché la maggior parte dei sindacati, dei partiti ufficiali e le istituzioni stesse sono semplici stuoini del potere economico della classe borghese.
Per cui ecco l’incredibile “narrazione” di questi giorni: Marchionne non è il manager che ha chiuso stabilimenti, ridotto l’occupazione e sfruttato sempre più i lavoratori a vantaggio del portafoglio degli Agnelli, ma il salvatore della patria, quello che ha “garantito che rimanesse almeno qualche posto di lavoro”. A dire il vero anche questi posti di lavoro residui sono rimasti solo e soltanto per le resistenze sociali e politiche che bene o male i lavoratori sono riusciti a produrre.

Che cosa è oggi la FCA e quali prospettive

Già quali sono le prospettive e cosa sarà e farà la FCA?

La realtà non riesce ancora a farsi luce attraverso l’insulsa retorica riversata dai media, ma qualche preoccupazione traspare qua e là e soprattutto non è sconosciuta a quelli che i soldi c’è l’hanno per investire nell’acquisto delle azioni, cioè i capitalisti.

Il titolo FCA infatti in questi giorni viaggia sulle montagne russe: vedremo dove alla fine si assesterà. Per intanto il nuovo capo della Fiat Mike Manley è costretto nella relazione trimestrale a rivedere al ribasso gli obbiettivi del 2018. I ricavi previsti infatti scendono da 125 miliardi di euro a 115-118 miliardi, l’utile dovrebbe attestarsi su 7,5-8 miliardi invece di 8,7. La liquidità prevista è di 3 miliardi invece di 4 miliardi. Si conferma invece l’azzeramento del debito. Sono questi dati del nuovo amministratore delegato e non solo la consapevolezza che non ci sarà più Marchionne a fronteggiare gli eventi, che hanno prodotto “la tempesta perfetta” (definizione del Sole 24 Ore) facendo precipitare mercoledì 25 le azioni FCA (-15%) obbligando le autorità borsistiche a sospendere il titolo. La società valeva infatti meno della Ferrari. Nel mondo soffiano i venti di una crisi complessiva del capitalismo mai superata del tutto; le conseguenze della guerra dei dazi che si sta aprendo sono del tutto imprevedibili, ma hanno già determinato la sofferenza dei titoli delle case produttrici a partire dalla GM. Vedremo.

Per tornare a quanto è stato realizzato negli anni passati dalla Fiat Chrysler e da Marchionne, occorre subito precisare che il Piano Italia del 2010 che avrebbe dovuto saturare gli impianti italiani e la piena occupazione entro il 2014 è rapidamente naufragato e non è stato mai realizzato. Successivamente sono stati annunciati altri piani aventi la medesima finalità, ma ogni volta specificando che dovevano essere verificati in relazione alle concrete dinamiche del mercato. Agli inizi di giugno Marchionne ha annunciato un nuovo generico piano che spostava al 2022 l’obiettivo della piena occupazione degli attuali dipendenti, un piano non meno generico ed indefinito di quelli precedenti.

Migliaia di lavoratori sono così coinvolti in lunghi periodi di cassa integrazione e nei cosiddetti contratti di solidarietà. In questa estate 1000 lavoratori di Mirafiori sono stati trasferiti alla Maserati perché potesse essere utilizzato il contratto di solidarietà, avendo Mirafiori ormai esaurito la possibilità di ricorrere a questa forma di ammortizzatore. E il contratto di solidarietà è stata annunciato anche per migliaia di lavoratori di Melfi.

A Mirafiori dopo che la produzione della MiTo è stata chiusa definitivamente si produce solo il Suv Levante; tutti attendono come una manna dal cielo la decisione di avviare la produzione di un nuovo modello. Tutti sperano nei modelli di auto elettrica, ma per ora gli ingentissimi investimenti necessari non sono stati definiti. Chissà se tutto questo arriverà mai. Difficile che Manley ed Elkan sappiano già veramente cosa vogliono e cosa possono fare mercato permettendo. Per ora hanno deciso solo di scorporare la Marelli.

Il problema di fondo per la FCA è di sicuro il mercato cinese, ma anche l’impellente necessità ancora una volta di trovare un partner, una nuova fusione. Marchionne l’ha ricercata negli ultimi anni senza successo e la FCA sa di non potercela fare da sola nel mondo globalizzato. Non a caso la promessa di dieci anni fa di produrre 7 milioni di vetture in un anno è rimasta una promessa e la FC si posiziona intorno all’ottavo posto tra i costruttori con i suoi 4.863.291 autoveicoli venduti (di cui appena un settimo prodotto in Italia), il 5,1% del mercato.

Sono circa la metà rispetto alla Volkswagen e Toyota, e si è molto distante dalla Renault anche perché oggi Fiat e Chrysler unite in FCA vendono poco di più di quanto vendevano all’inizio del secolo sommando le loro vendite; dato ancora più inquietante se si pensa che le automobili prodotte nel mondo sono cresciute nel frattempo quasi del 50%.

Nel frattempo il numero di auto costruite nel nostro paese si è ridotto significativamente.

Per non parlare del numero dei dipendenti che venti anni fa erano intorno a 120.000 unità e che oggi sono ridotti a circa 29.000, tenuto conto delle scorporo delle produzioni di Chn, ma comprendendo Ferrari e Maserati. Normalmente il rapporto tra operai impegnati nella produzione diretta di auto e di quelli che lavorano nella sua componentistica è almeno di 1 a 4. Si può facilmente comprendere come alla riduzione dei lavoratori della Fca abbia corrisposto una significativa diminuzione degli occupati nell’indotto. Per ora i giornali provano a tranquillizzare l’opinione pubblica illustrando le meraviglie del polo del lusso e delle future auto elettriche in Italia…..

Come possono agire in questa situazione le forze della sinistra autentica? Cosa pensano di fare le organizzazioni sindacali oltre ad andare a chiedere rispettosamente alla nuova direzione della FCA di mantenere un certo numero di produzioni in Italia? E le correnti del sindacalismo di classe? Agli inizi del secolo la battaglia per la nazionalizzazione della Fiat era necessaria e doverosa al fine di gestire la sua crisi in funzione degli interessi di chi ci lavorava e della popolazione nel suo insieme; si poteva ragionare sulla riduzione di orario, sulla riconversione parziale, su un piano complessivo dei trasporti che tenesse conto delle necessità delle cittadine e dei cittadini e dell’ambiente.

Bisogna rimettersi al lavoro se non vogliamo lasciare nelle mani poco convincenti di Manley e in quelle non meno rassicuranti dell’ultimo rampollo della famiglia i destini d’industrie che ancora ci sono, che ancora sono una ricchezza, che incidono sui destini di migliaia di lavoratori e di interi territori. Nonostante tutto le fabbriche della FCA in Italia sono ancora un problema positivo da risolvere.

[1] Sui difficili problemi della successione che hanno caratterizzato sempre la storia della Fiat si veda su Repubblica del 22 luglio l’articolo di Ezio Mauro “Gli Agnelli, il diavolo e la successione” e quello di Paolo Griseri “Dal baratro al rilancio…”
[2] Si veda in proposito l’ottimo articolo di Matteo Saudino
[3] Rimando al mio articolo “Fiat: vittime della mondializzazione” sulla rivista Erre n. 1 del gen-feb 2003.
[4] In una intervista Paolo Fresco riferisce di aver proposto a Gianni Agnelli la vendita della Fiat, che gli rispose di essere d’accordo, ma che l’operazione non poteva essere fatto finché lui stesso fosse in vita:
[5] Vedasi anche l’articolo “Fiat, la truffa Marchionne e il lavoro da difendere” sulla Rivista ERRE n. 33 del luglio 2009.