Tempo di lettura: 8 minuti

Pubblichiamo un secondo articolo di Giorgio Simoni che prende in esame il dibattito che si è sviluppato intorno al tema delle nazionalizzazioni a partire dalla tragica vicenda di Genova.
E’ bastato che si riaprisse, obbligatoriamente, una discussione sulla necessità di una rimessa in discussione delle politiche delle privatizzazioni, ancorché molto parziale e delimitata, perché tutti i giornali della borghesia facessero un fuoco totale e preventivo di sbarramento. Per costoro le privatizzazioni sono intoccabili e qualsiasi rinnovato ruolo di proprietà e intervento pubblico sarebbe una sciagura, quasi che il disastro delle privatizzazioni e della svendita dei beni pubblici non sia ampiamente provata da terribili fatti materiali. Ma si sa i padroni del vapore difendono con le unghie e coi denti i loro privilegi e i loro profitti e possono pagarsi ogni sorta di giornali e di pennivendoli per cercare di giustificarli e difendere.
Invece l’obiettivo delle nazionalizzazioni sotto il controllo delle lavoratrici e dei lavoratori e delle/gli utenti è proprio la strada da seguire per costruire una società che sappia rispondere ai bisogni e alle esigenze dell’insieme della popolazione. (Red)

Nei giorni successivi alla tragedia del crollo del viadotto Polcevera a Genova, si è sviluppato un dibattito tra le forze politiche italiane riguardo il futuro delle concessioni autostradali, con particolare riferimento alla posizione di Atlantia, multinazionale a base italiana e controllante di Autostrade per l’Italia, di cui la famiglia Benetton è il maggiore investitore.

Il Ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli, ha lanciato «a caldo» la proposta di una «nazionalizzazione» delle infrastrutture autostradali, ribadendo questa sua idea in successive prese di posizione.

Intervistato dal Corriere della Sera, l’esponente del Movimento 5 Stelle afferma che togliere la concessione ad Autostrade per l’Italia «sarebbe conveniente» poiché «ricavi e margini tornerebbero in capo allo Stato attraverso i pedaggi, da utilizzare non per elargire dividendi agli azionisti, ma per rafforzare qualità dei servizi e sicurezza delle nostre strade. Autostrade ha accumulato 10 miliardi di utili in 15 anni».

La proposta di «nazionalizzazione» delle autostrade

L’obiettivo di riportare le principali infrastrutture viarie sotto controllo pubblico (come lo sono state, per mezzo dell’IRI, fino alla fine degli anni Novanta) potrebbe essere raggiunto, suggerisce ancora il Ministro, tramite un decreto o un disegno di legge, allo scopo di evitare il lungo contenzioso giudiziario che sicuramente scaturirebbe da una semplice «revoca» amministrativa della concessione.

La posizione di Toninelli non sembra però persuadere del tutto l’altra «gamba» del governo Conte, ovvero la Lega. Se Matteo Salvini si è dichiarato possibilista, Giancarlo Giorgetti, già deputato per sei legislature e ora Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, è intervenuto al meeting di Comunione e Liberazione affermando: «Non sono molto persuaso che la gestione dello Stato sia di maggiore efficienza». E con un giudizio tranciante sull’ipotesi di un intervento legislativo: «Non vedo i termini».

Va detto, in primo luogo, che il termine «nazionalizzazione», che sia usato dai sostenitori o dai detrattori della proposta, è impreciso. La proprietà delle autostrade, infatti, è tuttora pubblica, ovvero nelle mani di ANAS, società il cui pacchetto azionario appartiene a Ferrovie dello Stato Italiane, che ha come unico azionista, a sua volta, il Ministero dell’Economia e delle Finanze.

Il rapporto tra ANAS e i concessionari

Non tutte le autostrade italiane sono affidate a concessionari privati: ANAS gestisce direttamente, ad esempio, il Grande raccordo anulare di Roma, la Salerno – Reggio Calabria, buona parte delle infrastrutture siciliane.

La maggior parte delle arterie, però, è in effetti stata «concessa» alla gestione privatistica, con le società del gruppo Atlantia che fanno la parte del leone. ANAS si è dunque spogliata della gestione di tali beni, costruiti con risorse pubbliche, affidando ai concessionari il controllo del traffico e la programmazione e realizzazione delle manutenzioni, in cambio del diritto di riscuotere i pedaggi degli utenti (versandone una parte allo Stato come «canone»).

ANAS si è riservata il diritto di vigilare sui lavori di adeguamento e manutenzione ordinaria e straordinaria, affinché «siano eseguiti a regola d’arte a norma dei progetti approvati», peraltro «senza che per il fatto di tale vigilanza resti diminuita la responsabilità del Concessionario» (articolo 28 della Convenzione), ovvero, nel caso specifico, di Autostrade per l’Italia.

Di più: il concedente pubblico ha affidato alle società private anche la realizzazione di una serie di nuove opere autostradali (tra cui la contestatissima «Gronda di Genova»), che, presentate come «generosi» investimenti, sono state il pretesto per le numerose proroghe della durata delle concessioni.

Le reazioni alla proposta di Toninelli

Il dibattito in corso, dunque, potrebbe essere così riassunto: Autostrade per l’Italia è incorsa in gravi inadempimenti dei compiti affidateli, sotto l’aspetto del controllo e della manutenzione dell’ormai tristemente noto viadotto Polcevera, fino a causare la tragedia dello scorso 14 agosto, con le 43 vittime sinora accertate, le decine di ferite e le centinaia di sfollati? È legittimo, su tale base, addivenire alla revoca della concessione, quale che sia lo strumento giuridico utilizzato a tale fine? E, in tale ipotesi, è opportuno riportare le autostrade sotto la gestione diretta di ANAS?

Nonostante siano questi i termini della questione, si può notare come gli editorialisti della grande stampa italiana si siano scagliati con forza contro la proposta di Toninelli, non di rado con venature derisorie rispetto al presunto avventurismo e alla incompetenza tecnica del Movimento 5 Stelle e del Ministro in particolare (il che può anche avere qualche fondamento, ma non è evidentemente il merito della questione).

Pure il Partito Democratico si è allineato a questa posizione, seppure con diverse sfumature, mentre la stessa CGIL ha lanciato l’allarme su una ipotetica perdita di tremila posti di lavoro.
In particolare, un argomento fortemente utilizzato dai vigorosi «difensori d’ufficio» di Autostrade per l’Italia è stato quello delle penali miliardarie che lo Stato dovrebbe pagare al concessionario in caso di revoca della convenzione.

La questione delle penali

A questo proposito, è ben vero che l’articolo 9-bis della convenzione tra ANAS e Autostrade prevede che: «il Concessionario avrà diritto, nel rispetto del principio dell’affidamento, ad un indennizzo / risarcimento a carico del Concedente in ogni caso di recesso, revoca, risoluzione, anche per inadempimento del Concedente, e/o comunque cessazione anticipata del rapporto di Convenzione pur indotto da atti e/o fatti estranei alla volontà del Concedente, anche di natura straordinaria imprevedibile, ivi inclusi mutamenti sostanziali del quadro legislativo o regolatorio».

La formulazione è particolarmente ambigua, specie laddove prevede che l’indennizzo scatti «in ogni caso», non escludendo dunque che il risarcimento sia dovuto anche nella ipotesi di risoluzione per inadempimento del concessionario.

Ma questa constatazione dovrebbe portare a mettere in stato di accusa chi a suo tempo approvò, dal punto di vista politico, un testo negoziale così fortemente sbilanciato in favore dei concessionari autostradali e così sfavorevole ad ANAS e quindi allo Stato. Utilizzare invece questo argomento contro Toninelli è evidentemente strumentale.

La borghesia italiana e le privatizzazioni

La verità è che l’isterismo della stampa nazionale, la posizione del Partito Democratico, gli stessi dubbi della Lega, sul tema della revoca della concessione e soprattutto dell’eventuale gestione pubblica sono ancora una volta espressione degli interessi della grande borghesia italiana.

E non ci riferiamo solo agli interessi materiali del gruppo Atlantia, ma anche alla volontà di ribadire con forza, sul piano politico e ideologico, la validità della politica di privatizzazione dei beni e dei servizi pubblici attuata nel nostro paese a partire dagli anni Novanta del secolo scorso.

La borghesia italiana ha ottenuto, per questa via, numerosi obiettivi:

– mettere a profitto la gestione dei servizi e dei beni pubblici, ottenendo nuove fonti di guadagno in un momento storico nel quale l’onda lunga recessiva che caratterizzava la dinamica del capitalismo su scala mondiale rendeva poco redditizio investire capitali nei settori dell’economia più tradizionali dell’iniziativa privata;

– aumentare progressivamente la quota del costo dei servizi pubblici a carico del singolo utente, a prescindere dal proprio reddito, e ridurre la relativa quota a carico dello Stato, cioè della fiscalità generale, liberando risorse da destinare al padronato stesso sotto forma di sgravi fiscali e contributivi, incentivi, riduzioni d’imposta e per il pagamento degli interessi sul debito pubblico;

– smantellare, anche ideologicamente, le conquiste sociali ottenute attraverso il ciclo di lotte degli anni Settanta e le idee ad esse legate di un’offerta di servizi pubblici universalmente accessibili e gestiti nell’interesse della collettività;

– far pagare ai lavoratori e alle lavoratrici il forte debito pubblico accumulatosi, fondamentalmente a causa della mancata attuazione, per finanziare la spesa pubblica, di una politica fiscale fortemente progressiva, che avrebbe ovviamente colpito la borghesia stessa; debito che era stato allocato in parte anche nei bilanci di società pubbliche come IRI, ENI ed ENEL.(1)

La coscienza di classe della borghesia

La borghesia ha coscienza di queste e altre sue conquiste, perseguite non appena i rapporti di forza tra le classi tornarono a esserle favorevoli e ottenute negli ultimi trent’anni di storia italiana. La classe che dovrebbe contrastarla, invece, sembra aver ormai perduto quasi totalmente memoria delle lotte che ha saputo esprimere in passato e dei propri successi.

La borghesia, dunque, ha ben chiaro che sul tema della gestione dei servizi e dei beni pubblici la parola d’ordine deve essere: indietro non si torna!

Per questo la proposta di semplice buonsenso del Ministro Toninelli, ovvero di togliere un bene pubblico dalle mani di chi ha causato una strage, deve essere attaccata e respinta. Gli opinionisti cottimisti, i partiti del capitale e i sindacalisti consociativi s’intendano arruolati e mobilitati.

Cosa diciamo noi?

E cosa dovremmo dire in proposito noi anticapitalisti? Dovremmo semplicemente prendere atto di quanto sta accadendo come di uno scontro tra diverse frazioni della borghesia, anche per il tramite di un apparato statale comunque borghese? Non pensiamo che sia così.

Sia ben chiaro: noi non abbiamo alcuna fiducia né riponiamo alcuna speranza in questo governo, che consideriamo, in tutte le sue componenti, l’ennesimo comitato d’affari al servizio degli interessi capitalisti, con l’aggravante di una connotazione razzista e fascistoide.

Pensiamo però che intervenire in un dibattito che riguarda la gestione dei servizi e dei beni pubblici, nonché, più in generale, la politica dei trasporti, sia opportuno, perché offre la possibilità, indicando anche possibili obiettivi, di tracciare una linea di demarcazione, facendo chiarezza sugli interessi delle diverse classi sociali.

Due o tre cose che sappiamo

Scriveva Lev Trotskij nel «Programma di transizione»: «Il programma socialista dell’espropriazione, cioè del rovesciamento politico della borghesia e della liquidazione della sua dominazione economica, non deve, nell’attuale fase di transizione, ostacolare in alcun modo, con un pretesto o con un altro, la rivendicazione dell’espropriazione di certi settori dell’industria tra i più importanti della vita nazionale o di certi gruppi della borghesia tra i più parassitari (…). Allo stesso modo rivendichiamo l’espropriazione delle compagnie monopolistiche dell’industria bellica, delle ferrovie, delle più importanti fonti di materie prime, ecc.»

Sebbene, come si è detto, nel caso delle autostrade italiane non si parli esattamente di «espropriazione», l’indicazione metodologica sembra valida anche a sostegno di una ripresa della gestione pubblica di servizi e infrastrutture, oggi da sottrarre a «gruppi della borghesia tra i più parassitari».

Senza alcuna nostalgia di «carrozzoni» che in passato sono stati luogo di scorribande clientelari e ruberie, dovremmo, oggi che il «privato» mostra tragicamente cosa significa la logica del profitto, difendere una concezione del pubblico che comprenda:

– una gestione di servizi e infrastrutture efficiente, nel senso del miglior rapporto possibile, nelle circostanze date, tra uso delle risorse (in sostanza: lavoro umano) e risultati in favore della collettività;

– la difesa dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici impiegati nei settori di pubblica utilità e il loro coinvolgimento diretto nelle decisioni sulla gestione, assieme a comitati degli utenti;

– il superamento dell’anarchia capitalista nel settore del trasporto delle merci e delle persone, attraverso la pianificazione razionale dell’intero sistema, con un forte riequilibrio in favore della ferrovia e, nei centri urbani, in favore del trasporto collettivo;

– la fine della politica delle «grandi opere», distruttive dell’ambiente e generalmente sovradimensionate, e forti investimenti nella manutenzione delle infrastrutture esistenti, nel riassetto del territorio, nel potenziamento delle modalità di trasporto maggiormente compatibili con l’ecosistema.

Per calare quanto detto nella realtà attuale, con un esempio concreto: non ci interessa solo che Autostrade torni a essere una società a controllo pubblico, ma vogliamo che torni a esserlo e che abbandoni lo scellerato progetto della «Gronda di Genova», con i suoi 64 chilometri di nuove autostrade, 24 viadotti, 23 gallerie. Questo sarebbe il segno di una rinnovata gestione pubblica nell’interesse della collettività.

Tutto questo con la consapevolezza un progetto di questo tipo genererebbe inevitabilmente una forte reazione della borghesia e che la sua tenuta sarebbe possibile solo nel quadro di una dinamica di mobilitazione di massa, che portasse a una rottura dell’ordine sociale esistente.

(1) Va ricordato che all’origine delle privatizzazioni italiane vi fu anche un accordo stipulato nel 1993 tra l’allora ministro degli esteri Beniamino Andreatta e il commissario europeo alla Concorrenza Karel Van Miert. L’Italia si impegnava «alla progressiva riduzione dell’indebitamento della holding pubblica IRI nonché alla privatizzazione delle sue diverse affiliate»http://europa.eu/rapid/press-release_IP-96-1197_it.htm